mercoledì 28 gennaio 2015

"SE MI GIRA MI FACCIO ANCHE VESCOVO"

da La Voce del Ribelle:

Libby Lane, 48 anni, femmina, è vescovo. La notizia è arrivata anche da noi dove “non si ha altra Chiesa all’infuori di quella cattolica” ma comunque alla stampa italiana sembra interessante che quella Anglicana abbia inserito la possibilità per le donne, già reverende, di diventare vescovo. 
E insomma, il fatto è questo: c’è una donna vescovo a capo di Stockport, nel Regno Unito. Una di quelle cose che a guardarle così, superficialmente, sembrano una grande trovata, una pietra miliare nell’emancipazione femminile, una di quelle novità capaci di far parlare per ore gli opinionisti di turno nei talk show, a blaterare di parità di genere e di quanto inserire donne “al potere” sia giusto, sacrosanto e positivo.
Lasciando a altra sede ma tenendo a mente la questione del maschilismo insito in tutte le religioni più diffuse, che elaborate da uomini in società patriarcali non potevano essere altrimenti, una donna vescovo non è forse un passo avanti nell’affermazione del “femminile” in un mondo governato da uomini, è al contrario una conferma di quanto questo mondo sia sempre stato e sia tutt’ora “maschile”. Interessante è una filosofia, una religione, una teoria, una politica elaborata da una “mente” femminile che trovi spazio, non l’ennesima mascolina personalità che gli uomini inseriscano tra loro. Il concetto è portato alle sue estreme conseguenze, ma rende chiaro come non basti mettere a fare il vescovo, il segretario di partito o il Presidente qualcuno con scritto F sulla riga del “genere” sulla carta d’identità per poter parlare di parità. Che impronta lascia una donna che per emergere si cala in abiti maschili, abbraccia un modo di fare, uno stile e un taglio che non gli è proprio, forza se stessa per uscire dagli stereotipi o al contrario vi si cala per inerzia? E siamo scuri che questa stessa domanda non possa essere posta anche a un uomo? Non c’è alcun progresso in quelle società che non lasciano libertà di scelta, che forzano le menti incanalandole in comportamenti, parole e costumi, rendendole schiave. La questione è di certo più ampia, e comprende fenomeni quali il consumismo, l’information overload, i notiziari show e la manipolazione dell’opinione pubblica, ma per quanto riguarda la parità di genere il problema affonda le sue radici così indietro nel tempo da sembrare un assioma insito nella creazione del mondo. Eppure, così non è. Sono esistite civiltà matriarcali così come patriarcali, dei e dee, padri-padroni e madri-matrigne. L’unica cosa che il genere umano avrebbe dovuto imparare da questa storia è che uomini e donne uguali non sono e che in situazioni diverse sono in grado di assumere il ruolo di sesso forte o debole, spesso a completamento piuttosto che a discapito dell’altro. Tutta questa ricchezza, tutta questa gamma infinita di possibilità, è però schiacciata dalla necessità che ha la società di vivere di tranquilli e prevedibili stereotipi nei quali sguazzare bellamente - e trovare facilmente target pubblicitari. Chiunque voglia uscirne spesso rischia di cadere in altri modelli ugualmente scomodi, malgrado gli sforzi: da “velina” a donna in carriera - ma anche da padre di famiglia a eterno ragazzino e così via. La verità è che si è confuso l’accesso alle opportunità con l’appiattimento delle differenze.
Perché un mondo in cui siamo tutti riportabili a categorie, più o meno particolari e particolareggiate, è estremamente rassicurante - e prevedibile.
Sara Santolini

lunedì 19 gennaio 2015

TUTTO PRONTO PER IL PATRIOT ACT EUROPEO?

da La Voce del Ribelle:

Paura. Una parola che si insinua nella mente come un germe inarrestabile. Soprattutto quando indotta. Come un tumore che si annida nelle parti più nascoste del corpo, viene alimentato da noi stessi, inconsapevolmente, dalla nostra voglia di chiarezza che porta a credere alla spiegazione più semplice. E poi, d'un tratto, dispiega i suoi effetti. Così è accaduto negli Stati Uniti all'indomani del 11 settembre 2001, così ci sono i primi segni possa accadere anche nella vecchia e "saggia" Europa. 
La pagina più nera in tema di libertà negli USA è stata scritta non con il crollo delle torri gemelle, bensì con l'entrata in vigore del Patriot Act. George W. Bush ci mise poco più di un mese a firmarlo, all'inizio facendolo passare come una legge transitoria e d'emergenza - e di "emergenze" senza fine in Italia abbiamo grande esperienza - e poi di volta in volta prorogata fino a oggi. Vennero rafforzati i poteri e le libertà d'azione di FBI, CIA e NSA, rimosse le restrizioni sul controllo delle conversazioni telefoniche, delle chat, delle e-mail, delle cartelle cliniche, delle transazioni bancarie, sulla segretezza dei colloqui tra detenuti e legali. Addirittura si arrivò a dichiarare legittime le perquisizioni effettuate senza avviso e presenza del diretto interessato e consentire arresti di non meglio definiti "combattenti" sulla base di semplici sospetti. Una legge dichiarata, nella parte in cui prevedeva tabulati telefonici e Internet di sospettati senza mandato della magistratura e notifica agli indagati, incostituzionale - e anche in questo in Italia siamo dei veterani. Il tutto utilizzando una definizione di "atti terroristici" un tantino troppo di libera interpretazione: "atti che appaiono tesi ad influenzare la politica di un governo con l'intimidazione o la coercizione".
Adesso, all'indomani dell'attentato al Charlie Hebdo, si invoca anche in Europa una legge che dia poteri tali agli Stati da far sentire al sicuro i cittadini. Una specie di Patriot Act nostrano, che "almeno" cancelli l'accordo di Schengen.
A questo punto bisogna fare un passo indietro. L'accordo, datato 1985, coinvolge a oggi 26 Stati: Grecia, Italia, Malta, Portogallo, Spagna, Francia, Svizzera, Liechtenstein, Lussemburgo, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Slovenia, Ungheria, Austria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia, Germania, Lituania, Lettonia, Estonia, Finlandia, Svezia, Norvegia e Islanda. L'accordo prevede che i confini siano liberamente attraversabili dai cittadini dei Paesi aderenti. Tale norma, e soprattutto il suo allargamento, ha fatto molto parlare. L'ultima volta che è salito all'onore delle cronache è stato quando con l'entrata di Polonia, Romania e Bulgaria (questi ultimi due al momento aderenti ma non ancora membri a tutti gli effetti) si è temuta una immigrazione in massa di cittadini dell'Est che, attratti dal luccichio dei Paesi più ricchi, sarebbero potuti venire a cercare occupazione "rovinando" il mercato del lavoro europeo - o peggio ancora pretendendo paghe all'altezza del loro nuovo Paese ospitante. Che il timore sia proprio questo lo dimostra il continuo rimandare la data dell'effettivo calo delle frontiere rumene e bulgare soprattutto per l'opposizione tedesca. Forse non è un caso che proprio Romania e Bulgaria abbiano il triste primato del più basso costo del lavoro in tutta Europa: tutto sommato è conveniente che rimangano a casa loro e che siano le aziende a delocalizzare, sfruttando la libertà di movimento di capitali a discapito di quella delle persone, questo il ragionamento.
In quest'ottica, forse non è un caso nemmeno che a invocare un cambio di Schengen - per carità, "solo" per proteggerci dal terrorismo - siano quei Paesi che in questi anni hanno visto una forte immigrazione di lavoratori dalle periferie d'Europa, in testa Inghilterra, Francia, Germania (nonostante le ultime "morbide" dichiarazioni in proposito della Merkel). E allo stesso tempo non è un caso che invece l'Italia si sia subito schierata con la libertà di circolazione, per non ritrovarsi tutti gli immigrati che usano il Bel Paese solo come ponte verso il Nord d'Europa rispediti al confine soprattutto ora che il lavoro scarseggia in Italia anche per loro.
La macchina in ogni caso si è messa in moto. Nelle stanze dei bottoni entro fine mese si incontreranno i ministri degli Esteri e i ministri degli Interni degli Stati membri. Temi caldi saranno le regole di Schengen, la condivisione di informazioni, la circolazione di armi, il controllo di Internet e l'istituzione di una banca dati dei passeggeri aerei.
Chissà che dopo aver sfilato per le vie di Parigi in nome di una libertà di espressione che non gli appartiene più, la folla non sfili a favore dell'annientamento delle libertà civili. Per pura, semplice, inoculata e terroristica paura.
Sara Santolini

lunedì 12 gennaio 2015

AVANTI, MARCH! IL MEGA SELFIE DI PARIGI

da La Voce del Ribelle:

Nel pomeriggio di ieri si è svolta la maxi manifestazione che ha riempito le vie di Parigi e alla quale ha partecipato oltre un milione di persone, che secondo alcune stime sarebbero state addirittura il triplo. Tra loro anche Benjamin Netanyahu, quel campione della libertà che di Palestinesi sulla coscienza ne ha ben oltre la manciata di uomini morti in Francia nel massacro dell'8 gennaio e che si affianca oggi ai Capi di Stato occidentali, anche loro non proprio innocenti verginelle. Tanto per mettere in chiaro "da che parte sta", il primo ministro israeliano.
Sulle strade si è radunata tanta, tanta gente comune. Già sabato i francesi erano scesi in piazza. A Tolosa in 80.000, a Nantes in 30.000, a Orleans in 22.000, a Nizza in 23.000. Numeri da far quasi impallidire quella della Rivoluzione Francese di fine '700, una folla che si muove in nome di quei valori che crede di proteggere e che invece non le appartengono più. Quando venivano venduti i giornali agli imprenditori e ai banchieri, si riduceva l'informazione a uno show, e poi, quando si tagliavano le risorse per la scuola e la sanità, si riducevano gli stipendi, si creava disoccupazione e contratti capestro, venivano (e vengono) ammazzati i figli e i loro padri con gli scarti del nostro modello di sviluppo, quando è stata venduta la nostra sovranità al migliore offerente, privandoci di quella libertà che solo l'informazione, la cultura, la salute, il pane e i diritti politici possono garantire, tutta questa massa di persone dov'era?
La risposta più semplice è che fosse schierata, sì, ma davanti alla tv - intendendo con questa tutto quel sistema di mezzi di comunicazione mainstream che hanno privato l'Occidente di una coscienza. Perché, se ce ne fosse, non passerebbe sotto silenzio in questi cortei, tanto per fare l'esempio più attuale, la storia della bimba kamikaze, due parole che solo a metterle insieme dovrebbero venire i brividi. Tanto meno l'opera di manipolazione delle emozioni, umane e comprensibili, dovute alle immagini del commando - sparate ovunque dal web alle tv, al fatto che si trattava di civili, per quanto antipatici potessero essere per l'Islam, gente che di per sé non aveva torto un capello a nessuno e che, parafrasando Massimo Fini, aveva dunque anche il diritto di "odiare chi gli pare".
I motivi e i mandanti dell'attentato a Charlie Hebdo, per quanto vogliano farci credere non sia così, devono ancora essere palesati. Un commando che sbaglia indirizzo e di cui un membro "perde" una carta d'identità è una roba che a inventarsela caccerebbero a calci qualsiasi sceneggiatore. Molti dunque rimangono i dubbi anche sugli esecutori materiali: chi sono, da dove vengono, se si tratti di semplici pedine, convinte di lavorare per un fine "più alto", e invece manipolate e usate per provocare l'opinione pubblica di un Occidente che non è in grado di ragionare con la propria testa.
In quel caso, la tragedia sarebbe ancora maggiore: saremmo tutti i deceduti di "Charlie Hebdo", musulmani e cristiani, civili e militari, uccisi e carnefici, vittime inconsapevoli della nostra stessa incomprensione del mondo. Dopo la grande crisi del 1930 e la depressione che ne seguì fu l'ingresso nella Seconda Guerra Mondiale a portare fuori dal pantano gli USA. A dirlo, o a ribadirlo, è stato il premio Nobel per l'economia Douglass North, secondo cui l'aumento del PIL è direttamente proporzionale all'aumento della spesa bellica. Per non parlare di quanto ha fruttato agli interessi produttivi statunitensi la ricostruzione della vecchia Europa. A quel conflitto ne seguirono altri: Corea, Vietnam, Panama, Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia.
Ora l'opinione pubblica è stanca ma «la guerra – come sottoscritto dall’economista statunitense Tyler Cowen - porta con sé un’urgenza a cui i governi altrimenti non riescono ad appellarsi». Nel 2013 la spesa è calata, a causa di austerity e ritiro degli USA dall'Afghanistan. Però, come si legge sul sito del Sipri, un istituto internazionale impegnato in ricerche su conflitto, armamenti, loro controllo e disarmo, «la spesa militare mondiale del 2013 è stata di 1.747 miliardi di dollari, equivalenti al 2,4% del prodotto interno lordo mondiale o a 248 dollari per ogni persona al mondo oggi». E, ancora, «il volume dei trasferimenti internazionali di armamenti convenzionali maggiori è aumentato del 14% nei quinquenni 2004-2008 e 2009-2013; nel 2009 Stati Uniti, Russia, Germania, Cina e Francia sono stati responsabili per il 74% del volume delle esportazioni e, con poche eccezioni, Stati Uniti ed Europa hanno dominato la classifica dei venditori negli ultimi vent’anni, anche se tra il 2009 e il 2013 la Cina si è collocata tra i principali fornitori occupando il quarto posto».
Una guerra, diciamoci la verità, potrebbe forse essere una risposta possibile alla crisi economica, anche in Europa. Di sicuro sposterebbe l'attenzione dei cittadini: di quelli greci che vogliono uscire dall'Euro e di tutti gli altri sull'orlo della rivolta civile. In Siria si combatte dal 2011 e i morti già 200mila. Gli americani già ci sono. Gli europei potrebbero approdare tra poco, quando la ragionevolezza lascerà definitivamente spazio alla paura.
Eppure, la risposta a tutto questo sarebbe semplice. Era scritta sul Partenone, simbolo della civiltà greca antica, quella che ha creato le basi culturali e politiche della vecchia Europa, già a giugno del 2011, e adesso assume un significato tutto "nuovo": People of Europe, rise up.
Sara Santolini