venerdì 9 marzo 2012

Hugo Cabret - un film di Martin Scorsese



Hugo Cabret è un personaggio istintivo che con la perseveranza che solo un bambino può conoscere riesce a vincere il suo destino. Un ragazzino efebico dagli occhi azzurri come il ghiaccio che conosce un mestiere affascinante: quello di "aggiustare le cose" e "far andare il tempo". In mezzo ai meccanismi che si muovono, uno a uno, in un unico immenso corpo, il ragazzo ritrova il suo posto e, quasi per caso, rende possibile che anche chi è attorno a lui ritrovi il proprio.


La pellicola, un 3D del 2011, tratta dal romanzo "La straordinaria invenzione di Hugo Cabret" di Brian Selznick del 2007, è un atto d'amore per il cinema e per chi al cinema ha dedicato tutte le sue forze, impersonato nel maestro Georges Méliès, cui dobbiamo l'invenzione del cinema di finzione e di numerose tecniche cinematografiche, in particolare del montaggio.


Golden Globe a Martin Scorsese per miglior regista, il film ha ottenuto 11 nomination agli Oscar 2012 e 5 statuette: migliore fotografia a Robert Richardson, migliore scenografia a Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, miglior sonoro a Tom Fleischman e John Midgley, miglior montaggio sonoro a Philip Stockton e Eugene Gearty, migliori effetti speciali a Robert Legato, Joss Williams, Ben Grossmann e Alex Henning. 


Da vedere.

La Voce del Ribelle

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Visco ci vuole tutti schiavi. A vita


"Lavorare di più e più a lungo"
Per fare cosa è chiaro.
1) Pagare contributi tutta la vita e morire sul posto di lavoro prima di arrivare a percepire la pensione
2) Cinesizzarsi per riuscire appena ad arrivare alla fine del mese. E spesso neanche quello 
3) Continuare a stare alla macina, come animali, per pagare gli interessi sugli interessi imposti dalla speculazione internazionale (di cui Visco fa parte) 
4) Abbrutirsi di fatica. E vivere unicamente per lavorare, peraltro guadagnando sempre meno 
A questo punto, la vera ribellione è cercare di lavorare meno. Sempre meno. Sempre meno. E passare il resto del tempo in altre attività.
Senza salario. Per se stessi. È il discorso che Maurizio Pallante porta avanti da anni, e spiega con precisione scientifica, per chi si prenda la briga di leggere (tra gli altri) i suoi libri. Il concetto chiave è quello che vuole indicare come "occupate" unicamente le persone che percepiscono un salario, mentre le altre - tutte le altre: dalla madre che cresce i figli, a chi ripara da sé la propria casa, a chi produce da sé ciò che gli serve per mangiare, a chi dona se stesso per accudire altre persone e via dicendo - sono semplicemente "disoccupate".
Sia chiaro, è evidente che nel nostro mondo (per ora) si debba necessariamente fare qualche lavoro che comporti il ricevere denaro in cambio, perché, molto semplicemente, ci sono merci (soprattutto merci, ma anche pochi altri veri beni) che necessitano di essere acquistati. Ma il punto, volenti o meno, è esattamente questo: meno si necessita di cose che è indispensabile acquistare, più si è liberi. Più, finalmente, si può lavorare di meno.
È essenziale che tutti quelli che sentono disagio in questo mondo, tutti quelli animati da seri moti di ribellione, evitino di cadere in una trappola terribile: pensare che semplicemente cambiando alcune regole del gioco, di questo gioco, si possa tornare a vivere una vita più degna di essere vissuta. Così come quelli che credono che prima o poi, pur rimanendo in questo modello, qualcosa possa cambiare. Grossomodo attendono un miracolo con un atto di fede. 
Ora, impostare tutta la propria vita su un atto di fede - fede peraltro in questo sistema di sviluppo - equivale alla donnina che gioca al gratta e vinci. Ecco, si deve spazzare via questo concetto. È indispensabile capire che per cambiare davvero le proprie condizioni si deve decidere proprio di sottrarsi a questo gioco. Si deve uscire, per quanto più è possibile, da questo casinò. Perché è proprio nella sua natura intrinseca obbligarci a vivere per lavorare e per consumare. La cosa comporta delle rinunce, è inevitabile. Si tratta di capire se sono più insopportabili queste rinunce oppure è più insopportabile pensare di vivere tutta la vita come schiavi. Non ci sono mezze misure: il sistema ci ha portato, di fatto, a una situazione di guerra. Come è possibile non considerare come una dichiarazione di guerra le parole di Visco? Come è possibile soprassedere alle imposizioni che questo modello, soprattutto oggi, con le conseguenze della crisi economica attuale dalla quale - è evidente -non usciremo, ci infligge?
Ci hanno già tolto buona parte di quello che avevamo: le pensioni, il welfare, la dignità di fare un lavoro che almeno ci permettesse di arrivare alla fine del mese senza affanni. E ora ci intimano di dover rimanere in questa situazione per tutta la vita.
Insomma delle due l'una: o si accetta tutto, o camusianamente si "dice no". E si cercano altre strade. I più, a un discorso di questo tipo, generalmente rispondono con sufficienza e sdegno, evitano di entrare nel cuore del problema semplicemente rispondendo che una strada differente non esiste, e che siamo condannati a vivere in questo modo. Sono persone asfissiate dalla catena che hanno al collo. In buona parte sono persone già pronte, consciamente o meno, a vivere una vita di questo tipo. Il che equivale a dichiararsi già morti. 
Ma la ribellione è dei vivi. Costi quel che costi. Anche dover percorrere altre strade che non si conoscono. O anche doverne costruire di nuove passando per il bosco con un machete. Perché il resto, la vita che ci prospettano i visco attuali, è peggio.
Valerio Lo Monaco

giovedì 1 marzo 2012

No Tav. La legalità è un vicolo cieco



da "La Voce del Ribelle":


Ieri il drammatico incidente a Luca Abbà, che pressato dai poliziotti – e in particolare dallo “scalatore” che si stava arrampicando sullo stesso traliccio su cui era salito lui – è venuto a contatto con i fili dell’alta tensione subendo una forte scossa, ed è poi precipitato al suolo da più di dieci metri di altezza riportando traumi assai gravi, anche se si spera non mortali né invalidanti. E dopo l’incidente le manifestazioni di protesta sia in diverse città, tra cui Roma, sia in loco, con numerosi attivisti impegnati a bloccare la A 32.


Oggi il lungo testa a testa sullo stesso tratto autostradale, con le Forze dell’ordine schierate in assetto anti-sommossa e i dimostranti che stando alle cronache fronteggiano gli agenti a colpi di sberleffi, insulti e quant’altro. I veri e propri scontri che vengono evitati, ma che rimangono nel novero delle possibilità che non si possono certo escludere. Basterebbe che qualcuno, da una parte o dall’altra, perdesse l’autocontrollo, o decidesse deliberatamente di passare a vie di fatto, e la tensione esploderebbe in pura violenza.


Detto così sembra un’ovvietà. Ma smette di esserlo se si esce dalla dimensione a scartamento ridotto degli avvenimenti di giornata e si collocano gli eventi in una prospettiva più ampia. Che è quella del rapporto tra governo centrale e popolazioni locali, in presenza di una divergenza insormontabile, e quindi di un dissidio insanabile, fra le due fazioni. La questione sul tappeto è di una brutalità elementare: il governo, forte del suo potere politico e della legalità delle procedure adottate fin qui, vuole costruire un’opera pubblica che sconvolgerà il territorio, e quindi la vita, dei cittadini che in quel luogo ci abitano; tali cittadini, in quanto diretti interessati allo scempio, cercano in ogni modo di impedirlo, senza però avere nessuna legittimazione formale a opporsi.


Una via senza uscita, come si vede. Che trova un sintesi perfetta, e involontaria, nelle due dichiarazioni che si ritrovano accoppiate in un “occhiello” a corredo di un articolo pubblicato sul sito del Corriere: «Il ministro Cancellieri: “Serve molto dialogo”. Ma Passera: “Il lavoro va avanti”». Cancellieri, in quanto ministro degli Interni e responsabile dell’ordine pubblico, auspica un chiarimento pacifico. Passera, in quanto ministro dello Sviluppo economico, ribadisce che quel chiarimento è un optional. Se arriva, tanto meglio; se non arriva, si tira dritto lo stesso. Esattamente come nel caso della riforma del lavoro: Mario Monti ed Elsa Fornero incontrano le parti sociali per discutere le misure che si preparano a introdurre, ma non esitano ad anticipare che l’eventuale, o probabile, contrarietà degli interlocutori non basterà a dissuaderli, in tutto o in parte. Che è come dire che i genitori, bontà loro, sono disposti a spiegare i figlioli per quali motivi li metteranno in castigo o gli taglieranno la paghetta, mentre ai rampolli non resta che uniformarsi a tali decisioni. A meno di esporsi a punizioni più drastiche, come si conviene a chi osa ribellarsi all’autorità paterna o materna.


In Val di Susa sta accadendo proprio questo. Mamma Politica, e papà Capitalismo, hanno stabilito che la linea No Tav deve essere costruita, e il massimo che sono disposti a concedere è di perdere un (altro) po’ di tempo a rabbonire quei cuccioli riottosi. Pazienza, se abbaieranno un (altro) po’. Pazienza, purché sfogando la propria rabbia finiscano con l’esaurirla. O col rendersi conto che è perfettamente inutile.


Lo schema, però, si presta anche a essere rovesciato. E anzi deve esserlo, prima ancora di qualunque altra decisione pratica. I manifestanti devono a loro volta comprendere che non esistono margini di autentico confronto, né possibilità alcuna di un accomodamento di reciproca soddisfazione. Non c’è nessun equivoco da dissipare. Non c’è nessuna mediazione da condurre in porto, sia pure faticosamente e dopo chissà quante liti.


Qui c’è solo un’imposizione, benché abbellita – o piuttosto incartata – con qualche strato superficiale di finta democrazia. La verità è ben diversa. Nel rispetto delle leggi vigenti, e al cospetto dei potentati che quelle leggi le hanno volute, i cittadini della Val di Susa non hanno scampo. E chiunque sostenga di no li sta ingannando: in attesa di ingannarne innumerevoli altri, via via che verranno assoggettati a chissà quanti espropri di terre, di diritti, di futuro.


Federico Zamboni