lunedì 31 gennaio 2011

Berlusconi è innocentissimo. Parola di Silvio

da "La Voce del Ribelle":


Pressato dall’inchiesta sui festini a luci rosse, il premier punta tutto sui discorsi tv. Confidando che la maggior parte del pubblico, e dell’elettorato, non li analizzi pezzo per pezzo
di Davide Stasi 
I videomessaggi di Berlusconi stanno diventando un appuntamento abituale. Il presidente sta cercando con ossessiva regolarità di comunicare con i cittadini, forse nel tentativo di recuperare quella “luna di miele” con il popolo che sa essere finita da tempo. A dispetto dei sondaggi ad hoc, la gente da tempo è presa più dalla cassa integrazione, dalla scuola smantellata, dalle bollette e dai mutui da pagare, che non dal pietoso spettacolo della politica. Uno spettacolo che ormai viene contemplato distrattamente, come una soap opera di serie B, dove attori viziati e irraggiungibili intrecciano vicende e contrasti autoreferenziali, senza alcun contatto diretto con la realtà. 
Berlusconi dedica tre quarti del suo ultimo intervento a declinare tutti i meriti della sua azione di governo proprio per recuperare quel contatto. Parte dai successi elettorali, e arriva alle presunte riforme e leggi innovative messe in campo. Tutta fuffa. Ben confezionata, ovviamente, ma si tratta per la gran parte di mistificazioni. Una captatio benevolentiae che serve a preparare il terreno per il vero obiettivo: le inchieste giudiziarie.
A quel punto il suo discorso si fa furbesco. Ed eversivo. L’assunto è il solito: la magistratura sta agendo per fini politici, ossia per rovesciare il risultato delle elezioni. Da qui a dire che le indagini giudiziarie nei suoi confronti sono illegittime, che è illiberale perquisire le residenze presidenziali o indiziare chi le frequenta, ma anche non poter parlare al telefono liberamente, il passo è breve. Un modo astuto, e capzioso, per screditare un principio che per il presidente del Consiglio è il più duro da digerire: la legge, oltre che essere uguale per tutti, è superiore a tutto e a tutti. Anche ai risultati elettorali.
Anche i magistrati, qualora agissero per scopi politici, dovrebbero poi fare i conti, durante il processo, con la legge, ossia con tutte le procedure di garanzia riconosciute all’imputato, innocente fino a prova contraria. Dovrebbero cioè dimostrarne la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. E l’imputato innocente non dovrebbe temere alcunché, se non una qualche congiura alle sue spalle. Ma la tesi del complotto, cioè della falsificazione deliberata delle testimonianze e delle prove, vale per entrambe le parti. La domanda da farsi è se sia più credibile la presunta malafede dei magistrati, che dovrebbero persuadere decine di testimoni a mentire solo per incastrare Berlusconi, o se invece sia proprio quest’ultimo ad avere la spregiudicatezza morale e le risorse economiche necessarie a commettere qualsiasi abuso, pur di organizzare un catenaccio difensivo a copertura delle proprie malefatte. 
Dunque è tutto il presupposto che non regge. È la legge che consente di indagare su chiunque, di perquisirne le residenze, di indagarne e intercettarne i frequentatori. E il tutto viene fatto nel rispetto della legge, allo scopo di accertare e di reprimere eventuali reati. Queste facoltà e queste funzioni sono parte integrante del potere giudiziario, e negarle agitando il totem della sovranità popolare, e dell’investitura ricevuta dal centrodestra attraverso il voto, è semplicemente eversivo. E sta qui il vero problema di Berlusconi: non accetta che esista qualcosa al di sopra di lui. Concettualmente il principio di superiorità della legge gli è estraneo e, nella sua logica, chiunque giunga ad affermarlo compie una sorta di vilipendio, un’offesa irritante e inaccettabile. Anzi, irricevibile.
Per questo il Cavaliere ora grida nel vento mediatico. E indossa i panni della vittima che nonostante tutto tiene duro: «non sono mai fuggito», dice, «in 17 anni la persecuzione giudiziaria non ha partorito nemmeno un topolino». Vero solo in parte: i suoi procedimenti si sono conclusi con assoluzioni e archiviazioni rocambolesche, e a guardare bene il suo curriculum giudiziario ci si trova di fronte a un florilegio di amnistie, reati cancellati da un Parlamento al suo servizio da quindici anni, prescrizioni, assoluzioni con formula dubitativa, oltre a reati gravi precedenti alla sua “discesa in campo” (il che tra l’altro smentisce il paradigma della congiura contro l’eletto dal popolo).
Il messaggio, stavolta, si chiude con la disponibilità a rispondere solo al Tribunale dei Ministri. Che sarà composto da giudici milanesi, ma scelti a sorteggio. In pratica Berlusconi si affida alla fortuna per salvarsi nuovamente da quest’ultima vicenda giudiziaria che, in realtà, non è ancora la tempesta perfetta, ma solo il suo annuncio. Infatti, se l’inchiesta per concussione e prostituzione minorile lo porterà alle dimissioni, ripartiranno immediatamente i processi attualmente sospesi, molti dei quali già destinati alla prescrizione. Tranne uno, quello che più toglie il sonno al presidente, riguardante le stragi di mafia del 1992-1993. Secondo alcuni, la premessa alla fondazione di Forza Italia.
Davide Stasi

Rifiuti in Campania. Lo scandalo senza fine




giovedì 27 gennaio 2011

Masi dixit: a ciascuno la sua claque




Festa grande, a Wall Street


Per la prima volta dal settembre 2008 il Dow Jones torna al di sopra dei 12.000 punti. Ma l’economia reale non c’entra: a far volare i listini sono i capitali dalla Federal Reserve
di Federico Zamboni 

Stavolta non c’è nessun bisogno di scomodare gli economisti critici alla Paul Krugman o addirittura gli analisti “ribelli” della controinformazione: a spiegare che dietro l’ulteriore impennata di Wall Street ci sono gli enormi e reiterati finanziamenti della Federal Reserve, attraverso il meccanismo perverso del “quantitative easing”, sono i media tradizionali. Quelli che si guardano bene dal mettere in discussione i metodi e gli obiettivi dell’establishment economico-finanziario.
Come scrive il Corriere della Sera, «La Banca centrale ha deciso di confermare il programma di “quantitative easing” a sostegno della ripresa economica deciso nel meeting di novembre, del valore complessivo di 600 miliardi di dollari da usare entro la fine del secondo trimestre 2011, pari a circa 75 miliardi ogni mese, per riacquistare titoli di Stato e immettere liquidità sul mercato. La Fed ha ribadito che manterrà probabilmente i tassi a livello eccezionalmente basso per lungo tempo».  
In buona sostanza, quindi, ci troviamo ancora una volta di fronte a una crescita fittizia che viene indotta dall’esterno, attraverso una massiccia iniezione di liquidità. Non è affatto la Borsa in quanto tale, a migliorare. È invece la Banca centrale statunitense a creare fiumi di denaro dal nulla e a riversarli nel sistema. A riconoscere che tutto ciò ha ben poco a che vedere con l’economia reale, del resto, sono gli stessi esperti della Federal Reserve. Nel comunicato emesso alla chiusura del meeting del Fomc (il Federal Open Market Committee, che è a sua volta una struttura della Fed) si legge tra l’altro che «La ripresa economica sta proseguendo, anche se a un tasso che si è rivelato insufficiente a determinare un significativo miglioramento delle condizioni nel mercato del lavoro».
Appunto. Quello della Borsa – e delle banche – rimane un universo a sé stante, che si basa su logiche autoreferenziali e che interagisce col resto della società in modo del tutto asimmetrico. Quando le cose vanno “bene”, sull’onda della bolla speculativa del momento, i profitti restano appannaggio di chi traffica in titoli; quando vanno male, le conseguenze negative si ripercuotono ovunque. Basterebbe riflettere su questo, e prendere atto che si tratta di vizi strutturali e ineliminabili, per capire che si tratta di una dicotomia permanente. E a senso unico.
Non sediamo alla stessa tavola. Non siamo soci dello stesso club, sia pure confinati in una sezione periferica. Ogni volta che a Wall Street si festeggia bisognerebbe suonare l’allarme. E ricordare alla gente comune che o presto o tardi sarà lei, a pagare il conto. 

Federico Zamboni

mercoledì 26 gennaio 2011

Lasci perdere, Giovanardi




Efficientissimi. E non delocalizzati


La globalizzazione esiste per tutti, ma non tutti la interpretano con l’arroganza di Marchionne. Vedi due aziende leader come la statunitense SAS e l’italiana Elica
di Ferdinando Menconi

Contratti capestro, minacce di delocalizzazione e altre vessazioni varie, come se l’impresa non potesse più permettersi il lusso di avere dei dipendenti, compresi i dirigenti intermedi, trattati decentemente; mentre può permettersi quello di avere dei supermanager che costano più di mille operai. E verrebbe da domandarsi se non sarebbe più semplice prendere dei manager indiani, che costano sicuramente meno e, visti i risultati della Tata, sono almeno altrettanto bravi.
Il fatto è che siamo di fronte ad una imprenditoria che persegue il potere in quanto tale, meglio se arrogante e ricattatorio, e non più la sua finalità originaria di efficienza produttiva, di cui il lavoratore motivato è il primo tassello: un dipendente soddisfatto produce più e meglio di uno incatenato al pezzo, senza disporre neppure più di tempi adeguati per pisciare. 
Ci viene costantemente fatto credere che con la globalizzazione non si può fare altrimenti, che le uniche alternative sono delocalizzare o far accettare al lavoratore condizioni da terzo mondo, e che sono finiti i tempi di imprese come l’Olivetti, leader del settore prima che fosse sfasciata perché dava il cattivo esempio. L’Olivetti dove i dipendenti avevano meno orario e più salario di tutti gli altri lavoratori d’Italia, per non parlare di asili nido ed altri benefit ora scomparsi.
Che siano scomparsi perché insostenibili è quello che ci vogliono far credere qui. Fortune, che certo non è una rivista “comunista”, ha stilato la classifica delle 100 aziende dove si lavora meglio e, ma non ditelo a Marchionne, sono tutte aziende leader, con prodotti all’avanguardia ed ampi profitti. Prima fra tutte è risultata la SAS,che produce software in North Carolina, azienda che oltre ad alti stipendi e numerosi benefit è arrivata al punto di sostenere una dipendente nelle lunghe pratiche di adozione di un bambino russo, pagandole addirittura il baby sitting, mentre in Italia una donna è stata licenziata per aver donato il rene al fratello.
Forse è in questo la ragione della crisi del settore produttivo italiano: manager che conoscono solo arroganza e dipendenti che, giustamente, finiscono col vedere nell’impresa un nemico. A chi sostenesse che in Italia i metodi del North Carolina, che a Detroit naturalmente non vengono applicati, non sono trasferibili, va ricordato che nelle Marche esiste la Elica, azienda leader mondiale nelle cappe da cucina e fra le prime in Europa nei motori elettrici, che offe vacanze studio all’estero per i figli dei dipendenti, organizza incontri in fabbrica con artisti di fama internazionale e visite ai musei, a dimostrazione che la cultura può aiutare il fatturato.
Come mai Elica non sente il bisogno di delocalizzare o di ricattare gli operai? Come fa, nonostante questo, ad essere leader di settore, al contrario di Fiat? Sarà mica che è proprio per questo che lo è? Come mai vanno meglio le imprese come Google, che fanno partecipare in maniera sostanziale i dipendenti ai profitti della azienda? Verrebbe da dire come Fantozzi, quando frequentava la “pecora rossa” della megaditta: «ma allora ci hanno sempre preso per il culo». Ci hanno preso per il culo e stanno continuando a farlo. Ad esempio: il primo problema della Fiat, come impresa e non come centro di potere, non sono i lavoratori, ma Marchionne.

Ferdinando Menconi

martedì 25 gennaio 2011

Marcegaglia all'attacco

di Federico Zamboni

1 – W la crescita, a ogni costo
Confindustria preme sul Governo e minaccia di «fare altre scelte». Un vero e proprio richiamo ad assecondare un disegno strategico a favore della grande impresa

Emma Marcegaglia se ne va in tivù, chez Fabio Fazio, e torna a criticare il Governo, secondo uno schema e un approccio già utilizzati in precedenza. Prima concede qualche riconoscimento per ciò che è stato fatto nella fase iniziale della legislatura, poi sferra l’attacco e accusa Berlusconi & C. di essere ormai sprofondati nell’inerzia: «Nei primi mesi della crisi hanno tenuto i conti pubblici a posto, e abbiamo visto invece cosa succede in Portogallo e Spagna, ma ora serve di più: da sei mesi a questa parte l'azione dell’Esecutivo non è sufficiente».
Basterebbe la premessa, per capire dove si andrà a parare. Ma la presidente di Confindustria si premura di dirlo lei stessa: «L’Italia deve concentrarsi sulla crescita, tornare a produrre benessere per le persone. Invece c'è una totale disattenzione. Si parla di tutto tranne che di questo». Siccome non se ne parla, mancano le iniziative concrete. Le misure in grado di rilanciare tanto la produzione di beni e servizi quanto la domanda interna. Siccome il Pil ristagna, la situazione non solo non migliora ma tende a peggiorare. E questo significa «non riuscire a riassorbire la disoccupazione, non aumentare i consumi e gli stipendi, vuol dire meno benessere, meno solidarietà e meno attenzione». Le difficoltà materiali finiscono col riverberarsi su altri piani: «La mancanza di crescita incattivisce le persone: è un tema economico, ma anche morale ed etico».
Nulla di particolarmente nuovo, appunto. Già nel settembre scorso la stessa Marcegaglia aveva lanciato un avvertimento analogo: «Il governo deve andare avanti, deve governare, ma sappia che tutto il mondo delle imprese e i cittadini stanno esaurendo la pazienza». Le repliche non si erano fatte attendere. Bossi aveva sbraitato uno dei suoi soliti rimbrotti generici: «È facile parlare in questo che è un paese dove molti parlano e pochi sanno cosa fare: questo governo ha dimostrato di saper fare ed è quindi già qualcosa in mezzo a tanti parlatori». Cicchitto era stato decisamente più articolato, anche se altrettanto banale: «La dottoressa Marcegaglia dimentica alcune cose: in primo luogo, che la bassa crescita caratterizza l'economia italiana da molti anni a questa parte. In secondo luogo, di tutto può essere accusato questo governo tranne il non aver fatto una serie di provvedimenti, che se vuole potremmo elencare nel dettaglio, a favore delle imprese». 
Se ci si ferma alla superficie appare davvero una querelle di poco conto. Di qua c’è un’associazione privata che sollecita maggiore supporto dallo Stato; di là c’è un Esecutivo che ha pochi margini di manovra e che sostanzialmente non ha nessun’altra strategia che non sia quella di limitare i danni causati dalla crisi e sperare che le cose si aggiustino da sé, sull’onda di una ripresa mondiale che coinvolga l’Occidente anziché metterlo ancora più in difficoltà. 
Guardando più in profondità, invece, si può cogliere un significato di ben altra portata, che va molto al di là degli attriti fra i due contendenti e che rinvia al cuore del rapporto tra politica ed economia. Quando la Marcegaglia afferma che «nelle prossime settimane occorre verificare se questo governo è in grado di andare avanti e fare le riforme, altrimenti bisogna fare altre scelte», sta ponendo una questione di sistema. I potentati economici che si riconoscono in Confindustria hanno bisogno di referenti politici che ne accolgano le istanze fondamentali, da non confondersi con specifiche richieste quali, ad esempio, la concessione di incentivi a questo o quel settore merceologico.
Il messaggio, quindi, è che il governo in carica verrà sostenuto oppure no in conseguenza della sua disponibilità ad assecondare un disegno complessivo. A Confindustria non interessa che a Palazzo Chigi ci sia o non ci sia Berlusconi. La sua priorità è che la guida “politica” del Paese si muova in una direzione compatibile, se non proprio coincidente, con un certo modello di produzione e di consumo. E, ancora prima, di acquisizione dei profitti e di distribuzione (si fa per dire) dei redditi e dei patrimoni. Il monito della Marcegaglia non è rivolto solo a Berlusconi e all’attuale maggioranza. Riguarda l’intero mondo dei partiti e serve a ricordare, a chi se lo fosse dimenticato, che la crisi in corso deve servire a rafforzare la grande impresa e il grande capitale. 
E se questo implica ricorrere a soluzioni pasticciate come i governi “di responsabilità istituzionale” o palesemente tecnocratiche, come lo fu il governo Ciampi e come potrebbe esserlo oggi un governo Draghi o Tremonti, su questo si darà battaglia. In una guerra che nella sostanza, se non anche nella forma, sarà senza quartiere. 

2 -  L’etica secondo Confindustria
Il caso Ruby diventa in parte un problema di marketing internazionale e in parte il pretesto per una sottile manipolazione. In nome dell’Italia «che lavora, che produce, che investe» 

Forse non riesce davvero a fare altrimenti, Emma Marcegaglia: cresciuta com’è a pane e impresa, nella ricca azienda di famiglia, si deve essere convinta che lo scopo ultimo dell’esistenza sia aumentare il fatturato e i conseguenti profitti. O in subordine, se per caso non si ha la fortuna di essere i padroni e di partire da una situazione di privilegio, dedicare comunque tutte le proprie energie al lavoro che si svolge, facendone l’asse portante della propria vita.
Così, nel parlare del caso Ruby e dello stile di vita cui esso si collega, la presidente di Confindustria lamenta soprattutto la cattiva pubblicità che ne deriva sul piano internazionale, offuscando il valore e i meriti di tutti quelli che invece vivono in altro modo: «Dai giornali esteri emerge un'immagine non positiva per l'Italia. Io sottolineo sempre, quando sono all'estero, che invece c'è un'altra Italia che va a letto presto, si sveglia presto, che lavora, che produce, che investe, che fa impresa e si impegna e che non è abbastanza valorizzata». 
Insomma: l’alternativa ai festini di Arcore, veri o presunti, sarebbe una condotta disciplinata e operosa, interamente votata alla crescita economica sia individuale che collettiva. Invece di tirare tardi – e di sprecare preziose energie conversando con anfitrioni del calibro di Lele Mora ed Emilio Fede, o godendosi la compagnia di leggiadre fanciulle di età incerta ma di indubbia avvenenza, e di spiccata propensione alle relazioni sociali – bisogna limitare le distrazioni al minimo e restare concentrati sui propri impegni. Una cena leggera, quel minimo di svago che serve a rilassarsi un po’, e infine un bel sonno ristoratore. Tutt’al più, prima di chiudere gli occhi, è concessa, o consigliata, un’ultima consultazione dell’agenda personale o di un buon manuale relativo al proprio settore di attività: com’è noto, il cervello elabora le informazioni ricevute anche nottetempo e la mattina successiva è bello risvegliarsi con la mente già pronta a riprendere a pieno regime.
Emma Marcegaglia lo vorrebbe così, il suo Paese Ideale. Tutta una popolazione «che va a letto presto, si sveglia presto, che lavora, che produce, che investe, che fa impresa e si impegna». E che però, a differenza di quel che accade oggi, è anche «valorizzata» come merita. In ogni momento e in ogni contesto. Da quello ristretto e quasi oscuro dell’ambiente di lavoro a quello via via più ampio e rilucente della società circostante, fino all’eventuale apoteosi mediatica di qualche trasmissione televisiva (a reti unificate?) in cui si premiano coloro i quali si siano maggiormente distinti in questa o quella fase dell’economia nazionale. Dal primo dei manager all’ultimo degli operai: tutta una moltitudine di individui che condividono il medesimo imperativo: lavorare di più, produrre di più, guadagnare di più. E alcuni di loro, i migliori, consacrati pubblicamente e innalzati a eroi dello Stato Italiano. O magari dell’Italia SpA, se nel frattempo – com’è giusto – si sarà trasformata la nazione in holding. A responsabilità limitata, beninteso. 
Scherzi a parte, la questione è serissima. Per un verso fa ridere, questa smania economicistica che pretende di fare dell’impresa il perno su cui tutto deve ruotare, ma per l’altro inquieta, considerate le sue implicazioni e le sue conseguenze. E, soprattutto, la manipolazione che vi si cela. Nelle parole della Marcegaglia, infatti, si intrecciano aspetti positivi come la dedizione, l’alacrità e lo spirito di sacrificio e obiettivi a dir poco opinabili come il successo aziendale. La tesi che si cerca di far passare è che l’economia liberista poggia su basi etiche e che, anzi, i suoi valori fondanti coincidono con quelli della società nel suo complesso. Il bravo cittadino è per forza di cose un cittadino che si impegna con tutte le sue forze nella crescita economica, intesa nel senso attuale del termine. Ovverosia votata all’espansione illimitata della produzione e del consumo. Immolata sull’altare del profitto e dell’accumulazione. E segnata dalle tipiche, e inevitabili, ripercussioni negative sull’ineguaglianza sociale. 
Nella contrapposizione evocata dalla Marcegaglia, tra i dissoluti cultori del bunga-bunga e le commendevoli formichine del Pil, c’è il tentativo di restringere il campo della morale a queste due sole opzioni: o dalla parte di Ruby, e dei suoi amichetti impenitenti, o da quella di Emma, e dei suoi amiconi imprenditori. Dimenticando, o facendo finta di dimenticare, che di regola sono proprio i più ricchi – vedi lo stesso Berlusconi, e prima di lui Gianni Agnelli, e via via chissà quanti altri nei “piani alti” del potere e del lusso – a non brillare per sobrietà. Oltre a essere sbagliato in se stesso, nel suo postulare che si sia tanto più apprezzabili quanto più ci si consacra a traguardi di natura economica, il messaggio è insidioso e ambiguo e strumentale: perché richiama tutti al senso del dovere, in nome della pseudo morale di cui si è detto, ma sorvola sul fatto che a trarne il maggior vantaggio saranno, come al solito, soltanto alcuni. 
Il che è ingiusto, e quindi immorale, di per sé. 
Federico Zamboni



Belgio: la piazza scuote la politica



di Sara Santolini

Sul web esiste un sito dedicato interamente al conteggio dei giorni, le ore, i minuti, i secondi che il Belgio sta passando senza avere un governo. Se visitate la pagina in proposito (all’indirizzo http://lerecorddumonde.be/) troverete la classifica, relativa a un primato mondiale assai singolare, nella quale si indicano i tre Paesi che per più tempo sono rimasti sprovvisti di un Esecutivo insediato regolarmente e coi pieni poteri. (leggi nel Quotidiano)

lunedì 24 gennaio 2011

Spazio alle Class action, finalmente

da "La Voce del Ribelle":
Una sentenza del Tar del Lazio riconosce l’utilizzo di questo strumento contro gli enti pubblici. Peccato che non sia previsto anche il risarcimento ai cittadini danneggiati

di Sara Santolini


L'anno scorso il Codacons aveva promosso una azione collettiva contro il ministero dell'Istruzione. Venerdì scorso, per la prima volta, il Tar del Lazio ha accolto questo tipo di ricorso contro la Pubblica amministrazione, dichiarando illeciti i provvedimenti che permettevano di avere delle classi di ben 35 alunni. Per la legge italiana, infatti, il numero massimo dipende dagli standard di sicurezza. (leggi nel Quotidiano)

Ideona Pdl: abbassare la maggiore età

 da "la Voce del Ribelle":
Se il problema sono le minorenni che svolazzano intorno al premier, ecco qua la soluzione. Si fanno diventare maggiorenni in anticipo. E con effetto retroattivo
di Davide Stasi

Il non meravigliarsi più di nulla è un tratto distintivo di chi scrive su queste pagine e di chi usualmente le legge. Eppure stavolta il regime tele-pluto-monocratico vigente in Italia ha fatto il miracolo, andando oltre le più pessimistiche aspettative, e dunque spiazzandoci. La notizia, nella sua comica tragicità, è semplicemente questa: il PDL ha espresso l’intenzione di abbassare per legge il limite d’età oltre il quale si è maggiorenni. Con effetto retroattivo.
La notizia parte da un’intervista dell’onorevole, si fa per dire, Gaetano Pecorella, uno dei tanti avvocati della corte di Berlusconi. In un’intervista a “Il Mattino” di Napoli, dopo qualche discettazione cavillosa, dichiara che Berlusconi avrebbe avuto «un rapporto a pagamento non con una quattordicenne, ma con una a cui mancavano sei mesi per essere maggiorenne». Eravamo lì lì, insomma. «Un conto è avere rapporti sessuali con una dodicenne, altro con una di diciassette anni e sei mesi, che partecipa a concorsi di bellezza e balla nei night», ha rincarato.
Quando l’intervistatrice gli fa notare che “quasi maggiorenne” non è “maggiorenne”, e che le attività di una persona non rilevano su quanto stabilisce la legge rispetto alla maggiore età, il quadro si fa ancora più chiaro. Dopo aver ribadito, con gran cavalleria, che Ruby, pur se minorenne, era tutt’altro che una santa, precisa:«sono dell’idea che oggi l’età per diventare maggiorenni sia troppo alta rispetto alla maturità raggiunta dai giovani. In Italia siamo già passati dai 21 ai 18 anni, mentre in altri paesi il limite è inferiore».
Tutta questa pantomima potrebbe far pensare a una provocazione di cattivo gusto. Ma che si tratti in realtà di un ballon d’essai per preparare il terreno a un “lodo Ruby”, dopo il fallito “lodo Alfano”, e così salvare il padrone, è fin troppo evidente. E a confermarlo è giunto poco dopo il capogruppo PDL alla Camera, Fabrizio Cicchitto (tessera n.2232 della Loggia P2, fascicolo 945, data di iniziazione 12 dicembre 1980), che ha dichiarato all’ANSA: «l'ipotesi di abbassare la maggiore età è fra le questioni sul tavolo». Dunque fanno sul serio, non stavano scherzando, anche se sembra incredibile.
Di per sé può essere vero che i giovani oggi siano già maturi ben prima dei diciotto anni. Solo che, anche sforzandosi, non si può astrarre la proposta di Pecorella dal contesto della cronaca giudiziaria attuale. Siamo cioè all’apoteosi della spudoratezza. Qualche anno fa si cercava di coprire le leggi salva-Berlusconi con qualche parvente decenza, spacciandole per riforme di interesse generale. Una maschera gettata di recente, quando si è iniziato a parlare apertamente del lodo Alfano come di una legge per “lasciar lavorare il premier”. Quindi, appunto, ad personam.
Ed esattamente come era una balla per il lodo Alfano che in altri paesi le alte cariche dello Stato godessero di immunità dai processi, così è una balla colossale che in altri paesi la maggiore età sia inferiore ai diciotto anni. O meglio, è vero, ma solo in Iran, Isole Samoa, Isola di Man, Kyrgyzstan, Scozia, Turkmenistan, Uzbekistan, Cuba, El Salvador, Corea del Nord, Missouri (USA) e Tagikistan. Eccezion fatta per Scozia e Missouri, non certo stati-modello per evoluzione civile e democrazia. E forse, proprio per questo, potrebbe avere un senso logico se l’Italia li imitasse.
La proposta, quand’anche cadesse nel dimenticatoio, è infatti un segnale chiaro, se qualcuno avesse ancora dei dubbi, del livello di oscenità in cui una classe dirigente corrotta fino al midollo e irresponsabile ha precipitato il paese. Qui si va oltre Ruby, le orge, la maggiore età, Berlusconi e il miserrimo quadro della cronaca politico-giudiziaria quotidiana. Qui si tocca l’apoteosi della furberia tartufesca e di una viltà tragicomica. Qui, diciamolo apertamente una buona volta, siamo davanti a gente palesemente colpevole su tutta la linea, con una paura fottuta di non poter fare più i propri comodi, e per questo saldamente determinata a farla franca. Solo da questi presupposti poteva uscire una proposta tanto spudorata.
Viene da chiedersi quanta pazienza abbia ancora il popolo italiano. E fino a che punto permetteremo a questi ometti di abusarne con tanta impudenza. Cosa ancora dobbiamo subire affinché la misura si colmi davvero? A guardare i più recenti sondaggi, gli italiani sembrano in maggioranza pronti a sottostare davvero a tutto, oltre ogni limite. Evidentemente, sono ancora come li aveva percepiti Mussolini, quando disse: «il popolo è femmina, e ama farsi fottere». Se è così, Berlusconi è l’uomo giusto al posto giusto, e regnerà su questo ridicolo paese fino all’ultimo secondo della sua vita.

Davide Stasi

venerdì 21 gennaio 2011

Federalismo in vista. Comuni in allarme




L’Italia di Arcore non è la nostra Italia



Accantoniamo per un attimo la politica e persino la morale. Chiediamoci solo se abbiamo qualcosa a che spartire con la Combriccola di Arcore. Sforziamoci di non vomitare
di Alessio Mannino 

Intercettazioni e fatti alla mano, Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, sarebbe un vecchio puttaniere che paga minorenni per fare sesso, ricattabile da legioni di favorite di corte a cui stacca assegni e elargisce appartamenti, e mentitore con funzionari di Polizia a cui rifila balle da comicità vanziniana. 
Al di là del piano giudiziario, che per il Rubygate dovrà accertare i reati di concussione e favoreggiamento della prostituzione minorile, quest’uomo “malato”, come lo ebbe a definire l’ex moglie Veronica Lario, non ci scandalizza per la volgarità che rigurgita da Arcore, per lo squallore dei servi che lo circondano, per le scenette da commedia sexy che lo ecciterebbero, né per il fatto che le notti voglia passarle con belle figliole (disposte a tutto pur di arraffare quattrini e sistemarsi in televisione o in politica, regni di Sua Emittenza il Cavaliere). Siamo sicuri che, sotto sotto, tutti, ripetiamo tutti i maschi italiani medi, mediocri, mediamente assuefatti a tette e culi da macelleria provano invidia per festini, orge e dopocene a luci rosse. Il potere persuasivo e assolutorio della fica è il più irrazionale, il più umano, troppo umano strumento di consenso che esista: meglio un giorno da lenoni che cento da pecore. E anche se in questo caso ha come effetto giustificare un anzianopuer aeternus che non si rassegna all’età, la debolezza della carne non è una colpa. Insomma, al netto di ragazzine sotto i diciott’anni e di regali da cui potrebbe essere condizionato, si faccia fare pure tutti i bunga bunga che vuole, quell’ometto patetico. 
Ma per cortesia non ci tratti tutti, l’intero popolo italiano, per una massa di coglioni. Lui, assieme ai suoi scherani senza un briciolo di onestà e rispetto per sé stessi nel fargli da scudo contro ogni evidenza e ogni dato di realtà. La loro mancanza di integrità non deve farci passare per fessi negando spudoratamente tutto, inviando videomessaggi con annunci ufficiali di avere la fidanzata (chi se ne frega!), imbastendo una campagna di difesa il cui regista è quel viscido manipolatore di Alfonso Signorini, e, cosa più grave di tutte, arrivando a minacciare punizioni ai magistrati che indagano su di lui. Non ci sta risparmiando nulla, questo Berlusconi da basso impero. Il cerone mediatico che ammorba l’aria: questo è quello che non sopportiamo perché soffoca ogni residuo senso della serietà, della credibilità, della dignità nel nostro paese. 
Si è fatto talmente osceno, lo spettacolo del berlusconismo in decadenza, che perfino il Vaticano ha dovuto rompere il corrivo silenzio durato fino a ieri. Il Segretario di Stato della Santa Sede, cardinal Tarcisio Bertone, ha colto la palla al balzo del “turbamento” del presidente Napolitano per lanciare una condanna ammonendo ad una maggiore moralità, legalità e giustizia. Era ora, che la Chiesa avesse un sussulto di memoria per la sua missione. Se c’è qualcuno che può e deve fare la predica, quello è proprio il Papa. Anche perché gli conviene, visto lo stretto rapporto, politico ed economico, che lega le due sponde del Tevere. E visto che, pur senza eccessi partigiani alla Ruini, la Cei di Bagnasco, un po’ come ogni Cei che alla stessa stregua della Fiat è sempre filo-governativa, finora ha appoggiato il governo di centrodestra. Difatti, fino a ieri, salvo i severi giudizi diAvvenire e Famiglia Cristiana, l’atteggiamento era stato cauto, attendista, secondo la consolidata tendenza all’indulgenza interessata, all’ipocrisia istituzionalizzata, secondo la quale – lo ha egregiamente sintetizzato l’intellettuale cattolico Vittorio Messori - «è certamente meglio un politico puttaniere ma che faccia buone leggi di un notabile cattolicissimo che poi fa leggi contrarie alla Chiesa» (Il Giornale, 19 gennaio 2010). Ma ora si è oltrepassato il limite della decenza, e la Chiesa ha dovuto ricordarsi di essere cristiana, oltre che cattolica eromana
Da parte nostra, non ci curiamo dei peccati ma del fatto di essere rappresentati, nostro malgrado, da un bugiardo recidivo affetto da laidezza senile. È l’Italia dei Berlusconi, dei Fede e dei Mora. L’Italia della menzogna, della ruffianeria e della miseria umana. Non è la nostra Italia. 

Alessio Mannino

giovedì 20 gennaio 2011

Speciale "Noi Italia" - 100 statistiche


Speciale "Noi Italia, 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo" dell'ISTAT che«offre un quadro d’insieme dei diversi aspetti economici, sociali, demografici e ambientali» della nostra società. 

Neet. Quelli che non studiano e non lavorano  



Donne e lavoro. I casi opposti di Italia e Giappone

Abbasso il complottismo. Degli altri.

da "La Voce del Ribelle":
Il Giornale di Berlusconi paventa la presenza dei “servizi deviati” dietro le inchieste su Ruby. Ma a ruoli invertiti liquiderebbe le accuse come delle solenni idiozie
di Federico Zamboni
 Promesso: parleremo di Berlusconi e delle sue festicciole “rilassanti” in quel di Arcore, ma solo di sfuggita. Non è che ci interessi più di tanto riepilogare le accuse, pesantissime, e le repliche, risibili. Come ha scritto giustamente Ferdinando Menconi nel suo articolo di martedì, «se ci si occupa di culi e tette ci si dimentica dei seri problemi del paese ed anche la vergogna FIAT passa in secondo piano». Inoltre, dopo tutti questi anni, non c’è davvero bisogno dell’ennesimo scandalo vero o presunto, per giudicare il presidente del Consiglio e il suo raffinato entourage, costellato di gentiluomini alla Emilio Fede e alla Lele Mora e di serissime giovinette che basta guardarle.
Gli sviluppi degli ultimi giorni sono solo uno spunto, che serve a introdurre e a contestualizzare le reazioni da parte di Berlusconi e dei suoi. Con l’avvertenza, però, che quelle reazioni sono a loro volta un esempio tra i tanti possibili, non appena si volesse abbandonare la stretta attualità. Nel suo insieme, infatti, il fenomeno attraversa l’intero quadro politico, e mediatico, e può riguardare le questioni più diverse. Il classico malvezzo bipartisan (anzi: omni-partisan) che conferma come le differenze tra i diversi schieramenti siano relativamente secondarie e si iscrivano in uno stesso approccio alla politica e all’informazione. Al di là di tutte le divergenze, e dei veri e propri dissidi, l’humus culturale ed etico è analogo. Impregnato di una disonestà intellettuale che si è ormai trasformata in un riflesso condizionato e che, proprio come avviene nei mentitori patologici, a forza di essere utilizzata per manipolare gli altri ha finito col manipolare anche quelli che se ne servono. 
Prendiamo le accuse di complotto, appunto. Se le sollevano gli avversari vengono liquidate all’istante come se fossero vaneggiamenti da psicotici: dietrologia è diventata una parolaccia, e dietrologo un insulto, sbattuti in faccia a chiunque provi a guardare al di là del suo naso e a squarciare il velo (i mille, i centomila veli) delle versioni ufficiali. Esattamente all’opposto, chi grida al complotto a proprio vantaggio pretende che le sue denunce ricevano la massima attenzione. Che diamine: sta svelando un ignobile intrigo – che oggi colpisce lui ma che domani potrebbe colpire chiunque altro – e tutte le persone dabbene, anzi tutti i cittadini che hanno a cuore la democrazia e la libertà, se ne dovrebbero indignare con lui. E fare tutto il possibile acciocché non si ripeta mai più.
Un articolo pubblicato dal Giornale un paio di giorni fa, a firma di Andrea Indini, titolava  “Inchiesta su Ruby, spunta l’ombra dei servizi deviati”. Letteralmente. E nel testo si ribadiva il messaggio: «Il sospetto è concreto. Si parla di “manine”. Si teme che “la Boccassini abbia e stia ricevendo alcuni incoraggiamenti”». In un altro articolo, sempre sul Giornale ma questa volta di Mario Giordano, si ridicolizzava il contenuto delle intercettazioni, nel presupposto che «al telefono non siamo mai sinceri. Siamo sempre sbrigativi. A volte volutamente cinici, come quelli che ridevano sul terremoto, a volte un po’ cazzoni». La conclusione, non propriamente inedita, è che chiunque si basi sulle conversazioni registrate è un emerito idiota che non coglie la differenza, pur così evidente, tra le chiacchiere fini a se stesse e le rivelazioni ancorate alla realtà. Meglio «un po’ cazzoni», che sotto processo. O addirittura in galera.
Ma a ruoli invertiti, naturalmente, i giudizi cambiano. Fino a ribaltarsi. Il famigerato «Facci sognare» rivolto da D’Alema a Consorte, che gli annunciava l’ormai prossima acquisizione di BNL, diventa oro zecchino. L’equivalente di una confessione in piena regola, che attesta l’intreccio di interessi, occulti, tra i finti ex comunisti dell’ex Pci e gli altrettanto finti ex comunisti di Unipol. Come si diceva tanti anni fa, nella celebre rubrica a ricostruzioni contrapposte sul Candido di Guareschi, “visto da destra e visto da sinistra”. Per chi lo denuncia a propria difesa il complotto è una minaccia reale e per nulla inverosimile. Altrimenti è complottismo. Ordito da poteri oscuri ma terribilmente concreti, e magari con lo zampino dei soliti “servizi deviati”. 
Bingo: il vero complotto è quello dei complottisti. 


Federico Zamboni


"Cara Medea" di Antonio Tarantino - uno spettacolo di Francesca Ballico

Un incontro davvero fortunato quello tra un testo, una recitazione e una regia di altissimo livello quello che fino al 23 gennaio è in scena al Teatroinscatola di Roma. Si tratta di "Cara Medea", uno spettacolo di Antonio Tarantino diretto e interpretato da Francesca Ballico. 


Lo spettacolo inizia lentamente per poi prendere il ritmo dei pensieri e dei ricordi, sulla strada. Qui, Medea è carne da macello: una prostituta, sola, che anela la comunicazione, che risponde al telefono e rimane delusa quando non c'è nessuno ad ascoltarla, che raccoglie le monete a terra e compone un numero velocemente perché ha l'urgenza del racconto, dello sfogo senza speranza. 
Con il passaggio delle macchine, che non si fermano mai a guardare, come rumore di fondo, Medea racconta a un Giasone lontano brandelli della sua vita, che spezza, finché la comunicazione non si interrompe, con una risata grottesca che sottolinea ogni passaggio probabilmente troppo doloroso per essere preso sul serio senza farsi ancora del male. 


Francesca Ballico è una di quelle attrici che sulla scena si trasformano, diventano altro da sè,  e mettono lo spettatore in contatto con un'altra realtà, piuttosto che con un personaggio. In questo caso riesce a recitare in lingua polacca, croata, albanese, rumena, russa, italiana e in dialetto friulano senza perdere in nessun momento la credibilità, lasciando che il pubblico empatizzi con naturalezza.
Quello che alla fine rimane è, come deve essere, una sensazione, quel nodo allo stomaco che accompagna ogni tragedia. E quando l'attrice, alla fine dello spettacolo, raccoglie gli applausi, si è già trasfigurata, è già irriconoscibile perché tornata a essere sè. Ma rimane nell'aria quel senso di urgenza e dolore che nessuna cronaca, seppure reale, potrebbe mai trasmettere: la sensazione di aver vissuto quella storia, da qualche parte e in qualche tempo.
Questa è una Medea che ha visto e vissuto la guerra, il dolore, la migrazione, la menzogna, la follia. L'unica cosa che le rimane sulla strada è la parola, la lingua che cambia percorrendo i confini dell'Europa dilaniata dalle guerre, nel tentativo di farsi capire senza riuscire a farlo in alcun modo. Ma Medea insiste, tragicamente, e riattacca la cornetta solo quando le parole le tornano indietro, pesanti come pietre. Struggente e bellissimo.


Riporto le parole della regista e interprete:


"Medea la barbara, la straniera, porta la voce di lingue sconosciute, la ferita della carne degli uccisi, il sacrificio dei figli, fatti a pezzi per Giasone, il moderno, lo scaltro, il pragmatico. Nella versione di Antonio Tarantino dietro i nomi del mito si arrabattano due disgraziati, offesi dalle guerre, rovinati dal vino cattivo, e dalle prestazioni sessuali consumate tra i camion nelle strade di frontiera. 
La mia Medea non riesce a farsi capre, il suo linguaggio diventa ridicolo come l'ostinazione a comunicare il suo orgoglio, la vanità di avanzi di seduzione, la rabbia, le sue inutili recriminazioni ad un Giasone altrettanto impotente, che le spilla due lire tra i campi di confine. Una babele di lingue che segna il cammino di migrante, tra le guerre che hanno dilaniato i confini dell'Europa. Parole sconosciute che si affastellano, si sbriciolano progressivamente fino a diventare sillabazioni inopportune, grottesche. Inadeguate al racconto. La linea cade, la comunicazione si interrompe, e riprende in un flusso caotico, dal quale traspare la storia di due eroi di rango più basso, una storia che non ha asilo nel mondo civile, che non sa difendersi, risibile. 
Seguirò il suo cammino tra i confini, sbriciolando il Polacco, il Friulano, il Croato, l'Albanese, il Rumeno, e il Russo e l'Italiano sgraziato e inopportuno di chi adesso qui, racconta le sue improponibili vicende tra una fellatio e l'altra. Un modo questo, di usare la bocca e farsi capire ovunque".

mercoledì 19 gennaio 2011

Forex: il miraggio dei soldi facili


Semplicissimo, a sentir loro: ti mandano il manuale a casa, tu te lo leggi (intelligente come sei) e cominci a darti da fare nella compravendita di valute estere. Dopo di che... 
di Marco Giorgerini 

Chiunque navighi in internet incappa prima o poi nella pubblicità di Forex, il mercato di compravendita delle valute estere. Le pagine web che lo pubblicizzano sono numerose, e si va dalle testate giornalistiche ai siti commerciali. I banner, inserzioni pubblicitarie che campeggiano sul web, si differenziano per l'aspetto ma non per le promesse: guadagni astronomici in una manciata di giorni. 
Capita così di vedere la foto di Andrea, commesso trentaduenne, che esclama sereno: «Ho chiuso 3500 euro lo scorso mese con il Forex. Ricevi con me, una formazione gratuita». Il fantomatico Andrea, di cui non è noto neppure il cognome, ha evidenti lacune grammaticali e sintattiche (ah, i traduttori automatici!) ma il suo sorriso assicura che arricchirsi è una cosa da ragazzi. Un altro annuncio pubblicitario del gruppo Forex mostra l'immagine di una donna, bellissima, con sotto la scritta «perché lavorare di + per guadagnare di +? 2h al giorno sono sufficenti per approfittare del tuo tempo libero». Rimangono immutati analfabetismo e promesse grandiose. Naturalmente non mantenibili. Secondo le statistiche il settanta per cento dei trader, ovvero coloro che comprano o vendono strumenti finanziari, non solo non guadagnano ma perdono sonoramente.
Forex, abbreviazione di Foreign Exchange Market, si fonda proprio sul trading online. È un gigantesco mercato telematico, il più grande al mondo, in cui circolano circa 1500 miliardi di dollari al giorno. Aperto ventiquattr'ore su ventiquattro dal lunedì al venerdì, apparentemente semplice da comprendere nei suoi meccanismi fondamentali, ottiene la fiducia di chi vuole “guadagnare facile”. Spesso questi sognatori sono proprio quelli che, ignari di qualsiasi nozione di economia, si affidano speranzosi al sorriso dei vari Andrea che ammiccano dovunque sul web. Gli esperti si riferiscono a loro parlando di “parco buoi” e intendono, per citare le parole del trader fondatore del sito faretradingonline.com, gli «operatori con la testa piena di convinzioni sbagliate che perdono comunque vada». 
Di buoi ce ne sono molti, ma spesso non si tratta solo di illusi che hanno fatto tutto da soli e che pagano il prezzo della loro ignoranza in materia economica. Ad attizzare la loro cupidigia, e ad attirarli nel recinto delle bestie da portare al macello, sono i professionisti che giocano sporco. Quelli che promettono guadagni facili alla portata di chiunque, quando invece dovrebbero fare l’esatto contrario. Così come in Borsa, infatti, muoversi nel mercato Forex è rischioso per definizione. Esso si basa su oscillazioni disancorate da ogni elemento concreto, senza le quali non potrebbe mantenersi in vita. Non a caso passò periodi difficili fino al 1973, anno in cui il valore del dollaro fu svincolato da quello dell'oro. Più di recente,  il mercato è salito agli onori della cronaca per un crac da sessanta milioni di euro. Nel novembre scorso l'indagine condotta dalla guardia di finanza ha portato all'arresto di diverse persone appartenenti alla società IBS Forex, incriminate per truffa aggravata, falso in bilancio e bancarotta fraudolenta. Appena un anno prima la stessa società fallì dopo aver accumulato un deficit di oltre quarantacinque milioni di euro. 
La pubblicità che da tempo invade il web non riguarda la IBS Forex nello specifico, ma avvantaggia il mercato di cui anch'essa fa parte. Dal sito della Forex si ricava soltanto che la società ha un indirizzo a Londra e una sede in Olanda, mentre sappiamo che la IBS Forex ha sede a Como. Quest'ultima, si legge nel verbale della Gdf, «approcciava i potenziali clienti proponendogli forme di investimento che avrebbero reso eccezionali guadagni». Proprio lo stesso meccanismo che regola le inserzioni pubblicitarie su pagine web che, tra l'altro, non hanno niente a che fare con temi economici.
L'articolo 20 del d.l. 206/2005 definisce ingannevole «qualsiasi pubblicità che in qualunque modo […] sia idonea a indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta». Per il momento l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, l'ente che stabilisce quali sono i casi di pubblicità ingannevole, non si è espresso in merito all’allegro mercatino on-line delle valute. L'impressione, però, è che gli annunci promozionali di Forex siano precisamente descritti dall'articolo appena citato, fino a diventare un caso da manuale: pubblicità ingannevole per un mercato ingannevole.

Marco Giorgerini 


Licenziato e mazziato. Se non ti sbrighi


martedì 18 gennaio 2011

Ué, leghisti: quelli lì van censurati!


Demagogia di infimo ordine ma non per questo meno insidiosa. Un assessore della Provincia di Venezia sollecita l’ostracismo contro chi si disse a favore di Cesare Battisti
di Sara Santolini

Raffaele Speranzon, assessore allo sport, alla cultura e alle politiche giovanili della Provincia di Venezia, iscritto prima al MSI, poi ad An e infine nelle liste del Pdl, ha avuto ieri il suo minuto di gloria. Era già stato notato dai giornali dediti al gossip per la sua amicizia con la Arcuri ma adesso, finalmente, è sotto i riflettori non per le compagnie che frequenta ma per le cose che dice. Da bravo politico.
Speranzon, che sul sito del Comune di Venezia viene descritto come un giovane che «ha partecipato a decine di assemblee (spesso senza essere invitato…) nelle scuole della provincia», probabilmente con l’intento di sottolineare il suo attivismo politico, ha presentato ieri al Municipio, riprendendola da un consigliere leghista di Martellago, Paride Costa, una proposta che, oltre a essere aberrante, non gli compete. Obiettivo: attuare un vero e proprio boicottaggio delle opere di tutti quegli scrittori che nel 2004, quando Cesare Battisti fu arrestato in Francia, firmarono una petizione per il suo rilascio.«Scriverò agli assessori alla Cultura dei comuni del veneziano – ha tuonato Lorenzon – perché queste persone siano dichiarate sgradite e chiederò loro, dato anche che le biblioteche civiche sono inserite in un sistema provinciale, che le loro opere vengano ritirate dagli scaffali: è necessario un segnale forte dalla politica per condannare il comportamento di questi intellettuali che spalleggiano un terrorista». Poi ha rincarato la dose chiamando tutti a prendere posizione: «ogni Comune potrà agire come crede, ma dovrà assumersene le responsabilità». 
Non è la prima volta, che succede qualcosa del genere. Altri tentativi analoghi sono già saliti all'onore delle cronache, a volte promossi da politici del partito berlusconiano “dell’amore” e “della libertà”, e più spesso da leghisti, che fanno dell’autodeterminazione dei popoli un loro vessillo ma che tendono a non rispettare, nei fatti, la libertà di esprimersi di chiunque non sia d’accordo con loro. È il caso di Morgan, che ha pagato le sue ammissioni sull’uso della cocaina con il niet nei confronti del suo concerto al Teatro Romano di Verona da parte del sindaco Flavio Tosi, il politico leghista già noto per le sue vicende giuridiche legate alla promozione di sua moglie a una carica dirigenziale per la quale pare non solo che lei non abbia un titolo di studio adeguato ma che nemmeno sia stato indetto un concorso. Oppure quello di Marilyn Manson, al centro delle polemiche sul possibile divieto del concerto milanese al Mazda Palace di qualche anno fa, alle quali però buona parte dei consiglieri aveva giustamente obiettato che «ognuno di noi può avere l'opinione che preferisce su Marilyn Manson, ma vietare un concerto, per di più in un luogo privato, è un atteggiamento illiberale, è un gravissimo gesto di censura culturale».
Queste iniziative, del resto, dovrebbero essere escluse a priori. Come non dovrebbe sfuggire a chi abbia fatto della politica un mestiere, la funzione amministrativa e quella legislativa non coincidono. Un sindaco, un assessore, un consigliere e chiunque abbia un mandato della stessa natura, non può creare delle leggi a suo piacimento, ma limitarsi a operare nel rispetto di quelle esistenti. Dare giudizi morali o di merito su questo o quel libro, spettacolo, cantante o autore, fino a promuoverne la censura, non rientra nelle sue competenze. Che hanno invece lo scopo di far sì che ogni cosa si svolga nel rispetto della convivenza civile e delle leggi. 
A meno che non ci siano effettivi e insormontabili problemi di ordine pubblico, non c’è alcun motivo per cui una manifestazione, una presentazione di un libro o un evento non abbiano luogo. Indipendentemente dal fatto che i loro contenuti piacciano o meno al sindaco di turno. Il potere legislativo, a norma degli articoli 70 e 117 della Costituzione, spetta sostanzialmente al Parlamento e, in maniera residuale, alle Regioni. Detto questo, bisogna ricordare che nemmeno questi soggetti possono legiferare in contrasto con la Costituzione, che per essere modificata ha bisogno di un procedimento particolare e più complesso. Quanto alla censura, almeno per ora continua ad essere anticostituzionale. L’articolo 21 recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Chiaramente tale diritto implica l’impossibilità di subire minacce o altre conseguenze negative, a maggior ragione se da parte delle pubbliche istituzioni, per l’aver esercitato tale libertà.
La censura è censura, e non basta qualche equilibrismo verbale per renderla più accettabile. Nonostante Speranzon si rifiuti di chiamare così la sua proposta e anzi affermi che «l’iniziativa serva per non far passare sotto silenzio il caso-Battisti, nel rispetto dei familiari delle vittime che hanno perso i loro cari e della giustizia», la sostanza non cambia. Lo scopo è colpire chi ha semplicemente espresso la propria opinione (sgradita) allo scopo di scoraggiare altri da riprovarci in futuro. Ed è l’ennesima manifestazione di una deriva moralista - e non certo etica. Con l’aggravante, nel caso specifico, di strumentalizzare il dolore delle vittime come difesa preventiva contro ogni tipo di critica. 

Sara Santolini

lunedì 17 gennaio 2011

Marchionne è l’effetto. Non la causa


Con tutta la sua boria, l’Ad della Fiat rimane solo una pedina di un gioco diretto da altri. Ma potrebbe avere un pregio: mostrare il vero volto, brutale, della globalizzazione
di Alessio Mannino 

Cosa rappresenta in fondo il tecnocrate Sergio Marchionne? La brutale messa a nudo dell’essenza della modernità: l’industrialismo che rende l’uomo “una merce” (Marx), uno “schiavo salariato” (Nietzsche). 
C’è poco da scandalizzarsi e far le verginelle di fronte al diktat dell’amministratore delegato Fiat: non ha fatto altro, dopotutto, che imporre con ferrea consequenzialità la logica del mercato industriale. E questa logica si chiama globalizzazione: le imprese si muovono fra gli Stati senza avere più una patria, obbedendo esclusivamente alla convenienza aziendale in termini di minor costo del lavoro e maggiori aiuti pubblici. Ovvero delocalizzando la produzione là dove è possibile spremere più soldi ed erodere diritti acquisiti ai lavoratori (turni più pesanti, pause ridotte, stretta sulle malattie, scioperi di fatto vietati, sindacati padronali) e sfruttare la finzione democratica dei governi, alle prese con opinioni pubbliche agitate e insofferenti, facendosi finanziare gli investimenti con cui mantenere i posti di lavoro, pur se a condizioni ottocentesche (la multinazionale di Torino ha assunto la gestione dell’americana Chrysler con un prestito e la benedizione di Obama, e le unionsstatunitensi, proprietarie di maggioranza, hanno volentieri chinato il capo come le nostre Cisl e Uil, che però non possiedono il becco di un’azione Fiat). 
In altre parole, il marchionnismo si presenta a noi come l’ultimo stadio dello sviluppo dell’industria moderna. Dalle prime conquiste sociali a cavallo fra Otto e Novecento al welfare state costruito negli ultimi sessant’anni, il mondo capitalistico si era illuso di aver trovato un equilibrio soddisfacente fra esigenze del profitto e diritti del lavoro. Statuti dei lavoratori, contratti nazionali, sindacalizzazione, garanzie crescenti: il paradiso delle riforme sembrava aver vinto e non dover essere più messo in discussione. E invece, con una marcia iniziata trent’anni or sono negli Stati Uniti, paese apripista di ogni cambiamento, col neo-liberismo della Scuola di Chicago e il progressivo affermarsi delle multinazionali, l’illusione è andata via via tramontando. Fino ai nostri giorni, quando la globalizzazione, una sorta di dato naturale accettato da tutti, destra e sinistra, critici e integrati, ha fornito l’argomento forte, l’arma decisiva al ricatto aziendalista: o ci si adegua, o si perde tutto.
 La Fiom, con cui personalmente ci siamo sentiti in dovere di schierarci contro l’indegno referendum di Mirafiori, rappresenta l’ultimo baluardo contro la deriva ultra-industrialista ma anche la sacca di colpevole miopia della cosiddetta sinistra radicale: dov’erano i Landini quando cominciava l’opera di disgregazione con l’acquiescenza alle criminali politiche dell’Fmi e del Wto, all’euro grimaldello della finanza predona, al Trattato di Lisbona, all’ideologia mondialista (che i vetero-marxisti sognano ancora nella versione “buona”, e strafallita, dell’internazionalismo egualitario e universale, già rifiutato da Stalin e abbandonato da Mao)? 
Nell’Italia di oggi, che aggiunge sempre un po’ di cialtroneria nel calarsi le braghe al modello americano, si compie l’incubo che il vecchio Marcuse descriveva a proposito degli Stati Uniti fin dagli Anni Sessanta del secolo scorso nel suo “L’uomo a una dimensione”: «una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata». Come non pensare ai discorsi rassicuranti, minimizzatori, ragionevoli, appunto, ascoltati dai politici e dai sindacalisti marchionnisti in questi giorni: tutti buoni padri di famiglia che convincono i figli riottosi a prendere atto che non c’è altra via alla rassegnazione, se si vuole salvare il salvabile. Con la coscienza a posto perché si fa credere che sono gli stessi lavoratori a decidere la propria sorte attraverso un “democratico” voto di fabbrica - con il coltello puntato alla gola. Tutto ciò nel quadro di una società che procede imperterrita nel miraggio di un benessere generalizzato che sta mostrando giorno dopo giorno la sua miserevole evanescenza. 
Dopotutto, Marchionne ha un merito storico: aver strappato la maschera di democrazia sociale ad un sistema produttivo che torna alle origini e svela la sua vera natura dura, insensibile, alienante. Il collaborazionismo fra capitale e lavoro è crollato. Quelli che un tempo si chiamavano “padroni” ritornano ad essere tali, e questa volta senza un’opposizione di massa. E i lavoratori sentiranno nuovamente sulla loro pelle il peso della schiavitù. L’industrial-capitalismo dal volto umano è stato una parentesi della Storia. Ora si apre un’era di oppressione tanto più pesante quanto più dipinta come priva di alternative e truccata coi mezzucci referendari, in cui starà agli schiavi, ai sudditi, agli sfruttati il compito di non copiare gli errori del passato. Per esempio contrapponendo al neo-liberismo dispotico un neo-marxismo anacronistico e inservibile, e soprattutto reiventando una missione liberatrice adatta ai nostri tempi. 
Noi proviamo a tratteggiarne appena i contorni con la seguente formula, tutta da elaborare: no alla globalizzazione tout court (di capitali, merci, uomini e diritti); sì a un’organizzazione sociale fondata sulla cooperazione (cooperative di produttori, in cui capitalisti e lavoratori non si distinguano più se non per soglie di proprietà, comunque controllate e garantite dallo Stato). Se il marchionnismo porterà la frustrazione che bolle in pentola a nuovi approdi di questo tipo, sarà stato un’operazione-verità – perdonateci, amici operai – non solo prevedibile, ma utile. Un male necessario. 
Alessio Mannino