martedì 30 novembre 2010

Rutelli e "Ritorno al (Fare) futuro"

da "La Voce del Ribelle":

Francesco Rutelli con un intervento su Fare Futuro Web scopre le carte e rivela quello che era chiaro a tutti: la rinascita del Grande Centro. Un terzo polo il cui motto potrebbe tranquillamente essere: trasformisti di tutto il mondo unitevi, visto che dovrebbe essere composto, oltre che da Casini, l’unico abbastanza lineare, da lui stesso e Fini, che di casacche ne hanno cambiate quanto nessun altro nel panorama politico italiano, ma vi ricordate gli infiammati confronti quando erano candidati a Sindaco di Roma?
Nessuna novità, però, nell’intervento di Rutelli: era palese a tutti che il piano fosse la creazione di un terzo polo, che lui ha l’ardire di chiamare “nuovo” quando è solo la riedizione del vecchio, con la partecipazione di chiunque condivida la linea politica dei poteri forti. Con la loro coalizione, magari estesa a Veltroni, non ci sarebbe nessun bisogno di governo tecnico Draghi-Montezemolo: il governo dei poteri forti e dei portavoce di Washington sarebbe politico, ma solo nominalmente.
Il futuro che vorrebbe fare la destra Mulino Bianco è solo una riedizione della politica fossilizzata al grande centro, grande centro di interessi verrebbe da precisare, in perfetto stile Prima Repubblica con leggero imbellettamento laico, anche se Fini non ha certo la statura, intellettuale e morale, di Spadolini. Non è, però, solo questa ipotesi di nuova DC che deve spaventare, c’è di peggio nell’intervento di Rutelli.
Solo il fatto che come esempio di “futuro” citi l’esperienza di Kadima (“Domani”), il partito nato dall’incontro tra Ariel Sharon e Shimon Peres in Israele, può già far capire come sarà orientata la politica estera italiana, e le “clamorose” novità di Wikileaks uscite al momento “giusto” su Putin e Berlusconi ne sono conferma.
Ma Rutelli riesce ad andare oltre, molto oltre, quando ci informa che il nuovo, si fa per dire, polo sposerà “il modello europeo dell’economia sociale di mercato, e i principi di una società competitiva, dinamica, libera, aperta”, cioè esattamente quello che ci ha portato all’attuale crisi. Bello il futuro che ci prospetta, a confronto anche la “vecchia” DC offrirebbe prospettive migliori: l’Europa di De Gasperi, infatti, voleva essere cosa ben diversa da quella che stiamo vivendo. 
Ma cosa aspettarsi da chi valuta il momento presente come: “una lunga, straordinaria fase storica mondiale di crescita del benessere e della longevità, di uscita dalla povertà per moltitudini di persone”, ma in che mondo vive Rutelli? Li legge i giornali? Ha sentito parlare di Grecia e Irlanda? Sbarcare da un barcone per cercare benessere in un’Europa sull’orlo del baratro non è “l’uscita dalla povertà per moltitudini”. Certo che sostenere questo e proporsi come alternativa credibile, non sembra molto convincente.
Eppure si pone, con i suoi sodali, come il “polo” che vorrebbe intercettare quel 40% di italiani che, secondo i sondaggi, paiono giustamente intenzionati a non votare: se questa è l’alternativa possiamo aspettarci una netta crescita del fronte del disgusto. O almeno lo speriamo, perché se gli italiani si bevono pure questa si meritano in pieno le sciagure presenti e quelle farefuture.
Rutelli pretende anche di sostenere che il suo polo, eterogeneo tanto quanto i poli esistenti, sia la via alternativa per andare oltre la destra e la sinistra, quando invece è ancora schiavo di quella logica, visto che vuole contrapporle il vecchio centro. Le nuove sintesi vanno trovate nelle estreme, il resto è solo minestra riscaldata.
Solo su una cosa Rutelli ha ragione: che il bipolarismo forzato, che però quando era incarnato da lui e Veltroni andava bene, abbia fallito, dimentica però che il centro ha fallito ancor prima e con gli effetti catastrofici che stiamo ancora subendo.  
Se questo è il dopo Berlusconi che ci aspetta ogni speranza di rinnovamento verso un “paese normale” è perduta, speriamo solo che nascano in fretta nuovi soggetti politici che escano dagli schemi dei poteri forti e siano realmente capaci di andare oltre la destra e la sinistra, proponendo qualcosa di realmente innovativo che sia in grado di aprire prospettive di futuro e non di ingabbiarlo in passato che ritorna.

Ferdinando Menconi

Paul, Mick e gli altri - un film di Ken Loach


Un film sugli effetti della privatizzazione selvaggia sui lavoratori


Questo film è un film-verità. Non aspettatevi dunque effetti speciali (non sarebbero serviti), una colonna sonora da brivido o altre cose di questo genere. Però è un film fatto bene, che è volutamente "semplice" a livello formale perché racconta la vita di tutti i giorni - anzi, il dramma della vita di tutti i giorni.

Paul, Mick e gli altri devono affrontare la privatizzazione del servizio ferroviario di manutenzione al quale lavorano da tanti anni. Il reimmettersi nel mercato del lavoro sembra una sfida stimolante, dove la paga oraria è più alta, se hai voglia di lavorare. Ma presto i nostri protagonisti si scontreranno con l'insicurezza, la mancanza di ferie e malattie pagate, l'assenza del rispetto dei protocolli di sicurezza che si troveranno a violare costantemente pur di mantenere il lavoro - fino alle più tragiche conseguenze.

Il film è stato ispirato dal fallimento di due società ferroviarie nate all'indomani della privatizzazione del comparto ferroviario in Inghilterra (Connex South Central e Connex South Eastern) per cattiva gestione.
Un pugno allo stomaco. Molto attuale.

Wikileaks. Una bomba, ma non è detto che esploda

da "La Voce del Ribelle":


Gli Usa accusano Assange di essere un irresponsabile. L’Europa minimizza. Berlusconi “si fa una risata”. E l’opinione pubblica? E i singoli cittadini?  


Cominciamo dalla domanda fondamentale: che conseguenze possono produrre, in termini concreti, le rivelazioni di Wikileaks? La risposta deve sdoppiarsi, tra le reazioni dei  governi e quelle dell’opinione pubblica. E poi, come vedremo, sdoppiarsi ancora, in una vasta ramificazione di distinguo successivi. Un labirinto nel quale più ci si aggira e più si smarrisce qualsiasi certezza di uscirne.
La prima lezione che emerge dai documenti riservati diffusi dall’organizzazione di Julian Assange, del resto, è proprio questa: il potere non ha nulla di limpido e le sue pratiche, dalla più grande alla più piccola, sono tortuose e ondivaghe, basate esclusivamente sul vantaggio che può derivare da questa o quella alleanza. Non c’è nessun valore degno di tal nome. Non c’è nemmeno quel tanto di simpatia istintiva che a volte lega le persone al di là di ogni considerazione razionale. Gli individui che governano il mondo, e la miriade di tirapiedi che gli reggono il gioco, costituiscono una macchina immensa e temibile, ma allo stesso tempo miserevole.
A prima vista può sembrare un’osservazione ingenua. Non lo è. Il cinismo è un’infezione, e come tale si diffonde. Ha inizio con la scusa della necessità di essere pragmatici (il fine giustifica i mezzi) e ben presto si trasforma in un abito mentale per cui l’unico criterio di valutazione è il tornaconto. Oggi vengono fuori i documenti relativi agli Stati Uniti, ma se accadesse lo stesso con quelli di qualsiasi altro Paese – a cominciare dall’Italia – la sostanza sarebbe analoga, se non proprio identica. D’altra parte, sarà anche vero che l’atteggiamento dei funzionari di Washington nei confronti dei leader stranieri è sprezzante, ma non è che sia così lontano dal vero. Semmai, ma solo perché la matrice è appunto statunitense, manca la stessa chiarezza nei riguardi del proprio Paese e dei propri vertici. La Russia di Putin è «virtualmente uno Stato della mafia»? Possibilissimo. E gli Usa cosa sono?  Sarkozy è un presuntuosetto, la Merkel una tipa rigida e poco creativa, e Berlusconi un satiro estenuato dalle sue party selvaggi? Possibilissimo anche questo, per non dire sicuro. E Clinton? E George W. Bush? E lo stesso Obama?
Ma torniamo alla domanda iniziale. Che conseguenze possono produrre, in termini concreti, le rivelazioni di Wikileaks? Almeno in superficie, come si vede dai primi commenti, assolutamente nessuna. Invece di arrabbiarsi per i contenuti, ci si lamenta del venir meno della riservatezza. La spiegazione è ovvia: ciò che allarma non è il disprezzo della Casa Bianca, ma il fatto che esso diventi di dominio pubblico. Hai visto mai che ci si trovi costretti a renderne conto ai propri concittadini, non propriamente entusiasti di sapere che il loro capo di governo è considerato, a seconda dei casi, un ometto o una donnetta. Hai visto mai che la popolazione non abbia appreso fino in fondo la lezione del disincanto e dell’opportunismo, e che abbia qualche soprassalto di orgoglio. Oppure, peggio del peggio, di nazionalismo antiamericano.
Vedi l’intervento di Frattini – che previa evocazione suggestiva (ma sballata) di un nuovo Undici Settembre, ovverosia di un nuovo attentato terroristico ai danni degli Usa – si lancia in un’appassionata filippica che ribalta completamente il senso dei fatti: «La vera vittima di Wikileaks sono gli Stati Uniti, è in atto un’azione per screditarli e noi dobbiamo fare di tutto per aiutare i nostri amici americani per tutelare le relazioni diplomatiche internazionali. Per l’Italia non ci dovrebbe essere nulla di preoccupante, in ogni caso niente può scalfire la solidità dei rapporti tra Roma e Washington». In altre parole: insultateci come volete, ma state tranquilli; da noi non avete nulla da temere. E se anche lo aveste, ad esempio per i rapporti tra Berlusconi e Putin, figuratevi se ve lo veniamo a dire con un minimo di franchezza.
L’unica speranza di un riscontro sostanziale, dunque, è nelle reazioni dei cittadini. Delle singole persone che potrebbero decidere di addentrarsi nella sterminata documentazione accessibile on line con l’obiettivo di pervenire a delle conclusioni precise. Purtroppo è una speranza flebile. Il problema, ancora un volta, non sta tanto nell’avere accesso alle informazioni ma nel saperle interpretare. Nel volerle interpretare. Altrimenti, al di là delle intenzioni di Assange e dei suoi, il rischio è che si risolva tutto in una curiosità epidermica. Una sorta di gossip della diplomazia internazionale, che suscita solo un interesse passeggero. E che forse, nella peggiore ma non nella più improbabile delle ipotesi, finisce addirittura per aumentare il senso di assuefazione al degrado circostante.


Federico Zamboni

lunedì 29 novembre 2010

La rivolta dei nuovi sudditi

Il Fatto 27 novembre 2010

Finalmente. Era ora. Era ora che i giovani, dopo decenni di sonnolenza, si svegliassero. Parlo di ragazzi normali, figli di un ceto medio che sta rasentando la soglia della povertà quando non c'è già entrato, non dei vetero-marxisti dei centri sociali.

La loro protesta si rivolge certamente contro la legge Gelmini (giusta nel principio di base -tagliare le unghie alle baronie- ma che di fatto blocca le carriere di assegnisti e ricercatori a progetto che per otto anni hanno sostituito in tutto e per tutto il titolare di cattedra, facendo lezione, tenendo corsi, presiedendo commissioni d'esame, conducendo e inventandosi laboratori e che ora, a 36, a 35 anni non solo si vedono bloccata la carriera ma, poiché queste categorie non hanno nemmeno diritto al sussidio di disoccupazione, si trovano letteralmente sulla strada dopo aver buttato via otto anni della loro vita), ma esprime anche, e forse soprattutto, un profondissimo disagio sociale che riguarda tutti i ceti ma che solo i giovani hanno le energie sufficienti per far emergere con forza.

Si sono sentiti in questi giorni, da parte della classe politica, alti lai perché la protesta si è rivolta contro le sacre «istituzioni democratiche che appartengono a tutti» (Schifani). E contro chi dovremmo protestare? Contro i chioschi dei giornalai? Perché queste istituzioni non sono affatto di tutti e non sono affatto democratiche. Sono "roba loro", dei partiti che le hanno occupate e le usano non per il "bene comune", come ripetono talmudicamente i loro esponenti, ma per i loro intrallazzi, per i loro giochi di potere, per i loro abusi, per i loro soprusi, per i loro clientes (e spesso per i loro crimini e la loro impunibilità) riducendo il cittadino, l'uomo libero che rifiuta di infeudarsi a queste camarille, a queste mafie, a suddito, senza diritti e senza parola.

Si è anche stigmatizzata la violenza di queste manifestazioni, che hanno riguardato un po' tutte le più importanti città, Roma, Firenze, Pisa, Milano, Palermo. A parte che tirar uova, dare qualche spintone, salire sui tetti sta ancora nei limiti del lecito, voglio ricordare che quando facevamo i cosiddetti "girotondi", manifestazioni assolutamente pacifiche, alcune di straordinaria imponenza come quella che organizzò, sul tema della legalità, Paolo Flores D'Arcais a piazza San Giovanni, il 14 settembre del 2002, raccogliendo un milione di persone che non erano certamente tutte di sinistra (la sinistra oggi, con le truppe cammellate, può portare in piazza al massimo trecentomila persone), non solo non abbiamo ottenuto nulla, ma siamo stati irrisi dalla destra e dalla sinistra. Quante volte ho sentito dire, in modo sprezzante, da uomini che si dicono di sinistra: «Non mi prenderai mica per un "girotondino"?». Alle destre poi non andavano nemmeno bene quelle manifestazioni pacifiche, contestavano il diritto di scendere in piazza, «pacificamente e senz'armi», che come dice la Costituzione è il primo diritto politico del cittadino. Pierluigi Battista disse in Tv che i "girotondi" erano «pieni di odio». A parte che l'odio è un sentimento legittimo, nei "girotondi" non c'era nemmeno quello, era Battista che, come si dice in psicoanalisi, «proiettava la sua ombra». È evidente quindi che per scuotere costoro, per costringerli a prestare una reale attenzione ai bisogni del cittadino ci vuole qualcosa di un po' più pesante e che qualche cazzotto ben dato, a mani nude s'intende, non è sprecato.

Col sessantotto non c'è nessun parallelo. I "sessantottini" erano figli annoiati della borghesia che cavalcavano, grottescamente, un'ideologia morente, il marxismo leninismo, e in piazza non ci andavano con le uova ma con le spranghe. Questi son giovani non ideologizzati che lottano per il loro futuro e le loro legittime aspettative di carriera. Quelli, figli della borghesia, invece scendendo in piazza la carriera se la preparavano. Tanto è vero che sono diventati tutti, come minimo, direttori del Corriere della Sera.

Massimo Fini

In Sicilia "no" alle trivellazioni in mare

da "La Voce del Ribelle":
Niente Petrolio off shore in Sicilia. Il ministero per lo Sviluppo economico ha respinto l'istanza della Petroceltic Italia Srl per la ricerca di idrocarburi nelle acque territoriali siciliane per, parole sue, "tutelare tanto l'ambiente marino, quanto il lavoro dei pescatori siciliani". Ma si tratta solo dell'atto finale di una politica iniziata già la scorsa estate: Stefania Prestigiacomo, il ministro dell'ambiente, a luglio di quest'anno aveva proposto al governo il divieto di trivellazioni nella fascia marina di 8 km da tutte le coste italiane e per 20 km dalle riserve marine. Ma non solo questo provvedimento non è sufficiente a far dormire sonni tranquilli, potrebbe essere stato dettato da motivazioni ben diverse dell'amore per le nostre coste.
Che il governo abbia deciso di intraprendere una politica attenta all'ambiente? In ogni caso vietare le estrazioni vicino alla costa non è abbastanza. Non bastano, infatti, 8 km - e nemmeno 20 - per limitare i danni sulle coste di un eventuale incidente in Sicilia (come abbiamo visto nel Golfo del Messico). Tutt'al più che in Italia ci sono già 66 concessioni di estrazione e altre 24 di esplorazione di nuovi pozzi - oltre che nel canale di Sicilia anche in Abruzzo, Marche e Puglia -  e che il nuovo provvedimento non intacca questi accordi. Inoltre sembra che in Italia non esista un protocollo obbligatorio per le attività petrolifere e per la loro sicurezza come in molti altri Paesi (ad esempio l'obbligo di avere un comando remoto per la chiusura della valvole) che riduca effettivamente il rischio di incidenti. 
Il primo provvedimento è stato preso, in realtà, sull'onda delle emozioni dell'opinione pubblica per una delle più grandi catastrofi naturali del mondo: l'incidente alla piattaforma petrolifera della British Petroleum nel Golfo del Messico. Negli USA Obama - dopo lo stop alle estrazioni all'indomani della fuoriuscita di greggio davanti alle coste della Louisiana e sotto la pressione delle compagnie petrolifere - ha già dato di nuovo il via libera alle attività di estrazione. Al contrario dopo quell'episodio la Regione Sicilia si è sempre detta contraria al rilascio di autorizzazioni per la ricerca e l'estrazione di idrocarburi vicino alle coste. Il che le farebbe solo onore, se la questione finisse qui. E invece la stessa Regione Sicilia è favorevole alle trivellazioni su terraferma. Eppure anche quelle sono pericolose e se non possono, in caso di incidente, danneggiare (direttamente) la pesca, possono rovinare l'agricoltura e il turismo nella stessa misura di eventuali versamenti in mare. Ma, a ben guardare, la Regione le sue buone motivazioni le l'ha. Dalle attività sulla terraferma guadagna l'85% delle royaltes, mentre da quelle in mare il 55% e solo se vicine alla costa. Inoltre sulle trivellazioni su terraferma la Regione Sicilia ha competenza esclusiva mentre su quelle in mare non ha voce in capitolo. Si tratta, insomma, di un motivo puramente economico - e politico. Lo stesso motivo per il quale, ad esempio, il Parco degli Iblei, che interesserebbe il ragusano, ancora non vede la luce. Si tratta dello stesso territorio in cui l'Eni stessa, di cui tutt'ora lo Stato è azionista di maggioranza, sta costruendo cisterne in attesa di cominciare a estrarre petrolio o gas naturale. 
Chiaramente l'attenzione per l'ambiente c'entra poco o niente con tutto questo. La politica si destreggia tra la necessità di accontentare l'opinione pubblica e il perseguimento di interessi economici privati. Proprio come nella questione del nucleare, della ricostruzione de L'Aquila, della crisi della Scuola pubblica...

Sara Santolini

sabato 27 novembre 2010

Il flauto magico - un film di Kenneth Branagh



Quando il teatro lirico incontra il cinema. 


Kenneth Branagh probabilmente verrà ricordato per aver portato il teatro lirico (e anche quello classico - citiamo ad esempio l'"Hamlet" e "Molto rumore per nulla") al cinema. 
In questo caso devo dirvi che l'opera entra in casa in punta di piedi, senza l'aria pomposa e pesante che di solito accompagna questo tipo di cose per chi (ancora) non sa apprezzare l'opera lirica. Ovviamente, però, se non amate la musica classica è meglio che lasciate stare. Idem se siete dei puristi dell'opera: il libretto è stato tradotto in inglese (il che è l'unica cosa che non mi piace di questo film) e la guerra tra Luce e Ombra, tema portante della trama, è molto simile a una delle grandi guerre mondiali, con tanto di moschettoni e mine. Non aspettatevi dunque un classico allestimento di quest'opera ma piuttosto preparatevi a passare due ore di musical. Quando si dice il genio: Mozart ha scritto "Il flauto magico" nel 1791 che comunque non ha niente da invidiare a parecchi molto più recenti "musical" anche di successo, che anzi hanno ancora molta strada da fare per raggiungere un simile livello.


La pellicola, supportata dunque dal nome del grande compositore, è piacevole e, nonostante le due ore, leggera. Chiaramente lo spirito dell'opera e i suoi simbolismi sono quelli mozartiani (di cui magari parlerò in un prossimo post).


Posto qui l'ouverture del flauto magico - che è anche l'inizio del film - che trovo fatta veramente bene. Buona visione.

venerdì 26 novembre 2010

L'uomo senza sonno - un film di Brad Anderson


Non ci crederete ma quell'attore magro da far paura nella foto qua sopra è Christian Bale (per intenderci il protagonista di Batman Begins)


Si tratta di un film di Brad Anderson assolutamente geniale. Il titolo orginale è "The machinist", data la mansione lavorativa di Trevor Reznik, il protagonista di questo thriller psicologico a tratti sfuggente.


Badate bene, dovrete prepararvi psicologicamente a passare 106 minuti di pura angoscia. Non saprete chi siete voi, chi sono gli altri, chi vi prende in giro e chi dice la verità. L'unica notizia certa sarà che all'inizio della pellicola Trevor non dorme da un anno - per questo è così magro e malconcio. Tutto il resto è da scoprire.


Ovviamente i nodi vengono al pettine solo alla fine, ma senza adrenalina, anzi finalmente, rendendo chiaro tutto, danno un senso di ineluttabilità che lascia senza parole. 

Ed ecco a voi la rettifica “a mezzo show”

da "La Voce del Ribelle":
Dopo la puntata di “Vieni via con me” con Mina Welby e Beppino Englaro, il Cda della Rai pretende di concedere uno spazio di replica alle associazioni pro-Vita  


L’ultimo attacco è arrivato ieri. Il Cda della Rai ha votato a maggioranza, e col sorprendente consenso del presidente Paolo Garimberti, un ordine del giorno che impone ai responsabili di “Vieni via con me” di ospitare, nella prossima e ultima puntata del programma, l’intervento delle associazioni pro-vita, nell’intento di «replicare al racconto di Roberto Saviano dedicato a Piergiorgio e Mina Welby, e all’elenco letto da Beppino Englaro e Fabio Fazio»
La reazione è stata immediata. E quanto mai puntuale. «Un programma di racconti, come il nostro, non ha la pretesa né il dovere né la presunzione di rappresentare tutte le opinioni. Non siamo un talk-show, non siamo una tribuna politica. Se ogni associazione o movimento che non si sente rappresentato da quanto viene detto in trasmissione chiedesse di dire la sua, non basterebbero mille puntate. La Rai dispone di spazi adatti per dare voce alle posizioni del movimento pro-vita, che del resto già ne usufruisce ampiamente. L'idea che ogni opinione, ogni racconto, ogni punto di vista, ogni storia umana debba essere sottoposta a un obbligo di replica ci pare lesiva della libertà autorale, della libertà di scelta del pubblico, e soprattutto della libertà di espressione».
Ineccepibile. 
Delle assurdità del pluralismo obbligatorio, e contestuale, abbiamo già scritto ampiamente il mese scorso (qui - 18 ottobre). In quel caso lo spunto erano le pressioni di Ghedini per impedire che andasse in onda il servizio di Report dedicato alle proprietà immobiliari di Berlusconi nell’isoletta caraibica di Antigua, visto che non era previsto «alcun contraddittorio». In altre parole: nulla può essere detto, su chicchessia, a meno che non gli si conceda un immediato e simultaneo diritto di replica. Il che equivale a esigere che sui giornali, ogni volta che si scrive qualcosa su qualcuno, si riservi una o più colonne per una comunicazione di segno contrario. A cura della persona di cui ci si sta occupando e con la medesima evidenza. 
Una sesquipedale idiozia. Che, come abbiamo sottolineato allora, confonde il giornalismo coi procedimenti giudiziari, nel presupposto di dover assicurare un’identica e preventiva tutela a tutte le parti in causa. Di questo passo, prima di esprimersi sul Tal dei Tali bisognerà notificargli la propria intenzione, specificare i termini in cui lo si farà e infine attendere (per quanto tempo?) che egli trasmetta le sue osservazioni al riguardo. Oppure, hai visto mai, che conceda il suo placet. 
Nel frattempo, se possibile, la situazione è peggiorata. Che quelle cose se le augurasse Ghedini, uomo di tribunale convinto che tutto inizi e finisca nelle norme, e nelle scappatoie, dei codici – per cui Berlusconi che se la spassa con la D’Addario, pagata da Tarantini, è nulla di più dell’ “utilizzatore finale” – era in linea col personaggio. Che lo stesso approccio dilaghi, dal ministro Maroni ai vertici Rai, trasforma la sortita occasionale di un avvocato aggressivo in un atteggiamento standardizzato, che mira a imbrigliare sistematicamente la libertà di espressione. Con la scusa della parità di trattamento si snatura l’identità dei singoli programmi, i quali vivono proprio della loro capacità di caratterizzarsi in un senso piuttosto che in un altro. Solo dei burocrati ottusi, o degli yes-men in malafede, possono sostenere che il pluralismo consista nel dare spazio ai diversi orientamenti nella stessa trasmissione
Il pluralismo, al contrario, si realizza nell’offrire una gamma quanto più possibile ampia ed eterogenea di contenuti differenti, lasciando che ciascuno sia libero di scegliersi quelli che preferisce. Il pluralismo è un dovere della Rai, non del cittadino. È un’opportunità di cui fruire se e quando si vuole, nella misura che si ritiene opportuna. Non una dieta obbligatoria che costringe chiunque a ingozzarsi di un tot di questo (ciò che piace al governo) e di un tot di quello (ciò che piace all’opposizione), solo perché ha ceduto alla tentazione di accendere la tivù.  

Federico Zamboni

Gelmini stop. Visto che si poteva fare?

da "La Voce del Ribelle":


di Sara Santolini


Ieri la riforma Gelmini ha fatto un passo indietro. 


Durante la votazione sulla riforma il Ministro della scuola e Angelino Alfano, forse per distrazione, votano con le opposizioni uno degli emendamenti, premendo il pulsante "sbagliato". Sono evidentemente nel pallone e poco dopo la maggioranza di governo è di nuovo "sotto" su un emendamento di Futuro e libertà alla riforma. La tanto agognata approvazione del decreto slitta dunque a martedì. La Gelmini, a questo punto, "minaccia" di ritirare la riforma qualora nelle prossime sedute vengano approvati degli emendamenti così profondi da stravolgere il senso della riforma. Allora, evidentemente, un modo per fermare la riforma c'è. E c'era anche prima di oggi, o no? (leggi nel Quotidiano)

giovedì 25 novembre 2010

Quei bravi ragazzi - un film di Martin Scorsese

Premio speciale per la regia alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia per Martin Scorsese nel 1990

Scelto nel 2000 per la preservazione nel National Film Registry 
della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.


Un film di venti anni fa che sembra girato ieri. La pellicola racconta la vita da gangster di Henry Hill, un italo-irlandese che fin da ragazzo decide di entrare nel mondo dei "bravi ragazzi" mafiosi della sua città, attratto dal "rispetto" e la ricchezza che comporta l'entrare in quell'ambiente, a far parte della loro "famiglia", fino a quando non avrà qualcosa di più prezioso da preservare: la vita. 


La pellicola si può considerare in qualche modo madre del più recente "Casinò" (1995) nel quale Scorsese ha affinato il racconto in terza persona e i movimenti di macchina, particolari e efficaci, che ne contraddistinguono ormai le pellicole divenute ormai in molti casi vera scuola di cinema. Il cast è strepitoso (Joe Pesci vinse il premio oscar come miglio attore non protagonista) e l'atmosfera risulta assolutamente verosimile. La vita dei boss, i rapporti di forza, gli ammazzamenti e la mentalità dei gangster - così come le regole del gioco cui dovevano sottostare - sono raccontati con un occhio critico e attento ma mai inquisitorio. La fotografia, al solito nelle pellicole di Scorsese, è molto curata e la sceneggiatura asciutta, i cambi di macchina fluidi, veloci e precisi. 


Un tuffo nell'America degli anni 30. Uno dei tanti, memorabili, che Scorsese ha regalato al cinema.

Epidemiologia, la bestia nera del nucleare

da "La Voce del Ribelle":


Molti disconoscono gli effetti negativi delle centrali atomiche, sostenendo che non sono dimostrati. Per forza: basta non fare gli studi necessari


L’epidemiologia è definita come «la disciplina biomedica che si occupa dello studio della distribuzione e frequenza di malattie e di eventi di rilevanza sanitaria nella popolazione». In poche parole, la nemica numero uno di chi fa affari inquinando. E l’Italia ha un paio di primati, in questo senso: l’abbondanza di faccendieri senza scrupoli e la corrispettiva penuria di studi epidemiologici, che sarebbero d’intralcio ai vari business delle varie cricche affaristico-politiche. Altrove, ad esempio in Germania, le cose vanno molto diversamente.
Nell’ottobre scorso è stato infatti pubblicato uno studio epidemiologico relativo al rapporto tra nascite e prossimità alle centrali nucleari, in Germania e Svizzera. Gli estensori dello studio, Kusmierz, Voigt e Scherb, sono tra i maggiori scienziati tedeschi, e hanno operato per conto del “Centro di ricerca tedesco per la salute ambientale di Monaco”. Il fine era quello di capire se la mera vicinanza di centrali nucleari ha statisticamente un qualche effetto sulla salute dei cittadini, anche in assenza di incidenti conclamati.
Il punto di partenza è stato l’analisi degli effetti dell’incidente di Chernobyl sulle nascite in Ucraina e nelle regioni investite dalla nube radioattiva. Solo dieci giorni fa, al Festival della Scienza di Genova, il sedicente ricercatore Stuart Brand, ex ambientalista e ora nuclearista convinto, in un convegno organizzato guarda caso dall’ENEL sosteneva che nell’area di Chernobyl, dopo pochi anni dall’incidente, si sta così bene che la flora è ricresciuta rigogliosissima, tanto che ci si potrebbe aprire un parco nazionale… I ricercatori tedeschi rilevano tutt’altro, a partire dallo studio delle nascite.
In media nascono 105 femmine ogni 100 maschi. Da anni è accertato che gli effetti delle sostanze tossiche di origine nucleare hanno effetti devastanti sugli embrioni, specie quelli femminili, e quelle proporzioni sono state sovvertite nelle aree contaminate dalla nube della centrale sovietica. È stato stimato, non certo dall’ONU né dall’AIEA, che da sempre tentano di ridimensionare il problema, in un milione il numero di bambini e bambine mai nati in Europa a causa dell’incidente della centrale ucraina.
Ma la parte più interessante dello studio riguarda i cosiddetti “incidenti di basso livello”, generalmente derubricati come “guasti”. Quelli insomma di cui in genere non si ha notizia. È ad essi che vengono attribuite tutte le conseguenze sanitarie rilevate studiando le conseguenze sulla popolazione residente in un raggio di 35 chilometri da 31 centrali nucleari tedesche e svizzere, nell’arco di quarant’anni. In quelle aree si contano 20.000 aborti spontanei in eccesso rispetto alla norma e un netto aumento dei casi di tumore infantile o deformità.
Anche quando non esplodono, come in Russia, le centrali nucleari, è accertato, rilasciano nell’ambiente sostanze tossiche o radioattive. Anche le attività che si svolgono a corredo della produzione di energia hanno effetti sull’ecosistema e sulle popolazioni circostanti. La lista dei possibili “incidenti di basso livello” è lunga. A titolo d’esempio, sono considerati tali le perdite nel trasporto e smaltimento delle scorie, gli scarichi di acque contaminate nei corsi d’acqua, la presenza di agenti tossici nel vapore rilasciato in atmosfera che, è vero, non contiene CO2, ma proviene da acqua evaporata entrando in contatto con un nucleo radioattivo, quindi non certo adeguato per un aerosol collettivo.
È anche per effetto di studi di questo genere che in Germania si è deciso, con il consenso pressoché unanime dei cittadini, di non aprire altre centrali, anzi di dirigersi verso un generale smantellamento in favore di fonti alternative. E qui in Italia? Come detto, gli studi epidemiologici, troppo scomodi per chi lucra sulla distruzione dell’ambiente e della salute pubblica, sono pochi e quei pochi vengono chiusi in un cassetto. Sulla scia dell’ipotesi di un ritorno al nucleare, si è tornato a parlare di riaprire alcuni siti in Piemonte (Trino, Saluggia). In quell’area, l’ultimo studio epidemiologico risale al 2005, elaborato dall’Istituto Superiore di Sanità. Uno studio “preliminare”, e che tale è rimasto. Forse perché rilevava, proprio nel triangolo Vercelli-Stroppiana-Trino, il doppio delle morti per tumore e il triplo delle malattie di origine perinatale rispetto all’intera media piemontese.

Davide Stasi

 Agenzia Iternazionale per l’Energia Atomica

Uova alla Gelmini (e ai politici che si accodano alla protesta?)



di Sara Santolini

mercoledì 24 novembre 2010

Irlanda, si raccoglie quel che si semina


da "La Voce del Ribelle":


La chiamavano “la tigre celtica”. La celebravano come un magnifico esempio di dinamismo economico. E adesso fanno finta di non capire che erano quelle, le radici del disastro attuale 
Tutti a parlare del temutissimo “effetto contagio”. Tutti col fiato sospeso ad aspettare di capire chi vincerà tra la speculazione, che prospera sulle sciagure altrui, e i governi che bene o male (più male che bene) devono garantire un minimo di stabilità alle popolazioni di cui sono a capo. E via con le meste riflessioni sul pericolo incombente. Via con gli aggiornamenti “in tempo reale” sulle reazioni dei mercati internazionali, tra indici di Borsa e quotazioni dell’euro. Via con le domande angosciate: basteranno i fondi straordinari messi a disposizione dalla Ue, a salvare l’Irlanda dal default? A chi toccherà, dopo? Al Portogallo? Alla Spagna? Persino all’Italia?
Come al solito, si discute delle conseguenze e si sorvola sulle cause. Ci si augura di arginare il disastro in corso – in attesa del successivo – ma non si fa nulla per arrivare alle questioni decisive, che non sono affatto specifiche ma di portata generale. Si riepilogano le caratteristiche della singola debacle, come in un’autopsia, ma si fa finta di non capire che il punto non è compilare una scheda riepilogativa da spedire in archivio, ma evitare che in futuro ci siano altre vittime per le stesse ragioni. O per ragioni sostanzialmente affini. 
Così come nel caso dei subprime e dei derivati, il crollo irlandese non è un incidente di percorso. È la logica, inevitabile conseguenza di due fattori precisi: il primo è la crescita forsennata, e palesemente “drogata” da politiche fiscali avventate, che è cominciata negli anni Novanta e che per molto tempo è stata celebrata come l’ennesimo miracolo economico da guardare con ammirazione o addirittura da prendere a modello. Bisognerebbe andare a rileggerli uno per uno, i titoli ad effetto e gli articoli pseudo tecnici che magnificavano l’ascesa, inarrestabile, di quella che era stata definita “la tigre celtica”. Bisognerebbe domandare a tutti quelli che per anni e anni si sono aggiunti al coro dei peana per quale motivo non siano stati più cauti. Ci credevano davvero, alla favoletta della crescita illimitata e ad altissima velocità? Non avevano mai avuto, guardando al passato e alla tristissima fine di altre esperienze analoghe, il dubbio che tanta rapidità non facesse, e non potesse fare, rima con solidità?
Nel febbraio 2003, ad esempio, nella “Lettera finanziaria” di Giuseppe Turani su Repubblica, si leggeva testualmente «Secondo la Banca Centrale Irlandese per i prossimi cinque anni il tasso d'incremento del Pil annuo si attesterà intorno al 4-5%. Percentuali decisamente più contenute rispetto a quelle registrate nell'ultimo decennio. Ma che comunque il resto dei Paesi del Vecchio Continente possono solo sognare».
Quanto al secondo fattore, che ovviamente è la speculazione, il silenzio è ancora più colpevole. La tendenza generale è considerarla un dato di fatto. Uno “spiacevole” effetto collaterale di quella bella, utile, irrinunciabile libertà economica che tutto regge e tutto fa crescere. Nessuno, a livello governativo, che abbia la forza di dire che la prima e vera ragione dell’instabilità non è altro che la finanziarizzazione dell’economia, che sovrappone alla ricchezza reale – fatta di cose concrete – un’immane sovrastruttura di elementi virtuali, che con la stessa facilità possono gonfiarsi a dismisura o scoppiare da un momento all’altro con effetti spaventosi. 
Ottusità? Malafede? Ce lo dicano loro. In un’intervista pubblicata proprio ieri su Repubblica.it (qui) l’ex rettore della Bocconi, Roberto Ruozi, fa sfoggio di ottimismo e prova a spiegarne i motivi. Se non che, in extremis, gli scappa la più inquietante delle ammissioni: «Sarà il buon senso che ci salverà. Intanto ci sono miglioramenti oggettivi: i sistemi bancari sono oggi in uno stato di salute migliore e non credo che ricadranno negli stessi errori. Sono state salvate una volta, con costi altissimi; sanno che non ci sarebbe una seconda volta. Quindi il problema del moral hazard dovrebbe essere risolto. E io credo che questo valga anche per i comportamenti di quel gruppo abbastanza ristretto di persone che governa la finanza mondiale. Saranno 100-150 persone, quelle che contano davvero».
Incredibile: «100-150 persone», e tutto il mondo ai loro piedi. A sperare che siano ragionevoli. A sperare che si accontentino di vampirizzare l’universo a piccoli sorsi, invece di cedere alla tentazione di trangugiarne il sangue tutto in una volta. 

Federico Zamboni

Okkupazioni? Giustificate, per una volta almeno

Studi di settore e piccole imprese in ginocchio

sabato 20 novembre 2010

Aung San Suu Kyi libera. Per interesse

da "La Voce del Ribelle":

In Occidente trionfa la retorica dell’eroina dei diritti umani. Ma in Birmania si gioca una partita di carattere economico e strategico, con gli Usa in prima fila

Esulta, la comunità internazionale. Aung San Suu Kyi, dopo quasi vent’anni di arresti domiciliari, è finalmente libera. La giunta militare birmana aveva deciso di scarcerarla subito dopo le elezioni, avvenute il 7 novembre scorso. E così è stato.
L’ex Segretaria della Lega nazionale per la democrazia, il partito da lei fondato per ostacolare i soprusi del regime militare e promuovere i diritti umani, può di nuovo partecipare alla vita pubblica e politica. Anche se non avrà il diritto di ricoprire cariche parlamentari, perché il governo ha approvato una legge per impedirlo a chi è stato in prigione, San Suu Kyi non ha affatto intenzione di abbandonare il suo attivismo. Anzi, ha subito esposto le posizioni che adotterà in futuro. «Voglio lavorare con tutte le forze democratiche», dice, «voglio ascoltare la voce del popolo, e dopo decideremo cosa fare. Lavoreremo per un modello di vita più elevato. Dovete ribellarvi in nome di ciò che è giusto: se vogliamo ottenere quel che desideriamo, dobbiamo farlo in un modo che sia adeguato. Sono a favore della riconciliazione nazionale, a favore del dialogo, e quale che sia la mia autorevolezza intendo utilizzarla a questo fine. Ma spero che ciò che potrò fare non sia basato solo sull'autorità morale, voglio far credere di far parte di un movimento efficace».
Ciò detto, non perde tempo. Dopo aver salutato la folla di sostenitori che si era precipitata per acclamare la sua liberazione, tiene la prima riunione con i dirigenti della Lega Nazionale per la democrazia. Anche se non si ha notizia degli argomenti di discussione, tutto lascia intendere che la giunta militare avrà del filo da torcere. Ma non è detto. Suu Kyi, probabilmente, con l’appoggio dei paesi occidentali, sosterrà la revoca delle sanzioni, uno strumento che in passato aveva sostenuto con tenacia e che ora, invece, ritiene possa nuocere alla popolazione, e non alla giunta a cui erano rivolte.
Eppure, fino ad un anno fa era irremovibile. Quando il senatore Jim Webb, in visita ai leader birmani, dichiarò che Suu Kyi, «pur non volendo correre il rischio di fraintendere le sue opinioni (...), non è contraria a un alleggerimento di alcune sanzioni», il Premio Nobel per la Pace, rettificò immediatamente quanto affermato da Webb. Attraverso il suo avvocato fece sapere di non essere «responsabile delle sanzioni verso il regime militare»e di non poter «decidere in merito a una revoca». Cosa sia cambiato da allora, è un mistero. Il dato di fatto è che l’atteggiamento di Suu Kyi è fin troppo in sintonia con quello americano. Infatti, gli Stati Uniti che da sempre sostengono le sanzioni come metodo per indurre la Birmania al rispetto dei diritti umani, hanno deciso di cambiare rotta e di aprire un canale diplomatico con la giunta.
«Le sanzioni rimangono una parte importante della nostra politica, ma da sole non hanno prodotto i risultati sperati per il popolo birmano», dice il Segretario di Stato americano Hillary Clinton.
Come mai tanta premura? È poco credibile che gli Sati Uniti abbiano a cuore la tutela dei popoli. Un esempio tra i molti che si potrebbero riportare, è il sostegno ad Israele. Nonostante quest’ultimo, come ampiamente dimostrato, violi costantemente i diritti umani dei palestinesi, gli Usa lo proteggono con il veto all’interno del Consiglio di Sicurezza, impedendo così che siano presi provvedimenti a suo carico. Con queste premesse, è legittimo dubitare che l’attenzione degli Stati Uniti per la Birmania sia davvero disinteressata. Soprattutto se si considerano i fatti recenti. La vicenda dell’attivista birmana torna alla ribalta nel 2009. Avendo ospitato un cittadino americano che si era introdotto nell’abitazione dove la donna stava scontando gli arresti domiciliari, Suu Kyi riceve un’ulteriore condanna per aver violato l’isolamento.
I media, di conseguenza, concentrano l’attenzione sulla Birmania e sulla violazione dei diritti umani da parte della giunta. Guarda caso, però, due mesi prima il governo birmano aveva concluso con la Cina un accordo per la costruzione di un gasdotto doppio di petrolio e gas, che parte dal porto oceanico di Kyaukpyu, sulla costa occidentale del Myanmar e, attraverso il paese, arriva nella provincia dello Yunnan, in Cina. In questo modo Pechino eviterà di trasportare il petrolio ed il gas proveniente dal Medio Oriente, attraverso lo stretto di Malacca, una zona molto trafficata, pericolosa, e ben sorvegliata dagli Stati Uniti che, in caso di conflitto, potrebbero facilmente bloccarlo.
Allora, per evitare che la presenza della Repubblica popolare in Birmania, sia un ostacolo alle strategie di dominio Usa nell’area dell’Oceano Indiano, Washington decide di destabilizzare la zona. Facendo leva sulla logica perversa dei diritti umani, di cui Washington e l’Occidente intero sono agguerriti sostenitori, nonché creatori, e giocando con la solita immagine di potenza “salvatrice” che esporta pace, libertà e democrazia, è assai probabile che gli Usa abbiano intenzione di entrare nella politica di  Myanmar con l’obiettivo di sottometterla ai propri interessi. Ma chissà se la Cina starà a guardare.

Pamela Chiodi

venerdì 19 novembre 2010

"Immanuel Kant" di Thomas Bernhard - uno spettacolo di Alessandro Gassman

Se è innegabile la bravura di Alessandro Gassman come attore, da domani non potrete fare a meno di apprezzarlo anche come regista teatrale. Il testo che ha scelto, "Immanuel Kant", la dice lunga sulle sfide artistiche che il neo direttore del Teatro Stabile del Veneto ha deciso di affrontare. Thoman Bernhard, infatti, è innegabilmente un grandissimo autore, ma assolutamente - e altrettanto innegabilmente - di non facile fruizione. Rendere il Kant, una delle opere meno "teatrali" di Bernhard, addirittura divertente è il merito più grande di Alessandro Gassman in questa regia.

Il tema portante dello spettacolo, che si svolge interamente in alto mare, è l'imminente perdita della vista del padre della filosofia moderna. Immanuel Kant, spinto da sua moglie (invenzione teatrale dell'autore), è in viaggio proprio per cercare di recuperarla grazie alla medicina americana. Sulla nave egli stesso riuscirà a vedere dove questo viaggio porta l'umanità intera, in qualche modo illuminata dalla sua filosofia ma più spesso incosciente e ignara.


Lo spettacolo è piacevole ma non superficiale: suggerisce degli spunti di riflessione niente male. 


I personaggi, tutti, vivono una solitudine viscerale che ne altera le caratteristiche spingendole fino al grottesco e rendendone possibile l'elezione a simboli dell'uno o dell'altro modo di vedere e vivere la vita. 


Il cantante jazz che lavora come cuoco a bordo e terrorizza i suoi sottoposti approfittando del suo potere; i due aiuti-cuoco che continuano a prendere porte in faccia - ma a ridere di soppiatto del loro capo, se ne capita l'occasione; il cardinale omosessuale che non sa assolutamente niente della Chiesa cattolica e che insegue un povero pretino, sottoposto sì, ma che si rivela l'unica possibilità del cardinale di non inanellare continue figuracce e dunque di avere un rapporto decente col resto degli ospiti; l'ammiraglio che soffre di mal di mare e che ostenta una cultura che non ha per darsi un contegno; il collezionista d'arte ormai finito per età e debolezza di orecchio che capisce nulla di quello che gli viene detto; lo steward, più attento al cibo e a bere fino a ubriacarsi in attesa di tuffarsi verso il nuovo mondo che lo aspetta che al suo lavoro; il servo di Kant, Ernst Ludwig, un uomo deforme e subalterno che sembra fino alla fine solo una specie di traduttore dei versi del pappagallo domestico del suo padrone; la milionaria pazza, ricca "figlia del capitalismo" sola al mondo con i suoi soldi, il suo egocentrismo e la sua curiosità per la conoscenza che si ferma però al più becero dei gossip; la signora Kant, che lotta tra frivolezza e quella che per lei è una necessità di spessore - tutti i personaggi sono inadeguati nel ruolo che la vita ha dato loro e soprattutto in questo viaggio si parlano addosso senza nessuna possibilità di riscatto o evoluzione. 


È un dialogo tra sordi in cui Kant, il padre della ragione, è il personaggio cardine, al di fuori e al di sopra della realtà degli altri ma, in quanto tale, interprete dello stato reale dell'intera umanità. Eppure anche lui è un disadattato, un uomo che non sa vivere tra gli uomini, il cui sapere è in balia della memoria e della sapienza di Federico, un pappagallo che Kant costringe il suo servo a portarsi sempre dietro. 


In fondo è il pappagallo chiuso nella sua gabbia il vero protagonista di tutto il viaggio perché unico vero mezzo di comunicazione, contenitore di tutta la sapienza che l'essere umano saprà portarsi dietro anche in questo ultimo necessario viaggio, fatto nella sola speranza di non perdere la vista. Attraverso di lui - e con la complicità di tutti i personaggi che saliranno sulla nave - l'arte, la religione, il capitalismo, il denaro, la subordinazione, l'inganno, tutto quello che vive nell'uomo moderno - e, possiamo dire, contemporaneo - viene messo a nudo attraverso la rappresentazione a tratti grottesca del viaggio verso "il nuovo mondo". 
Da vedere.




autore Thomas Bernhard
traduzione Umberto Gandini
scene Gianluca Amodio
costumi Gianluca Falaschi
musiche originali Pivio&Aldo De Scalzi
light design Marco Palmieri
suono Massimiliano Tettoni
regia Alessandro Gassman


con
Manrico Gammarota Immanuel Kant
Mauro Marino Milionaria
Paolo Fosso Signora Kant
Emanuele Maria Basso Ernst Ludwig
Giacomo Rosselli Ammiraglio
Nanni Candelari Collezionista d'Arte
Massimo Lello Cardinale
Giulio Federico Janni Primo Cuoco, Cantante
Marco Barone Lumaga Steward
Davide Dolores Cantante, Musicista, Secondo Cuoco, Cameriere
Matteo Fresch Prete, Venditore
Massimiliano Mastroeni Cantante, Musicista, Terzo Cuoco, Cameriere


Parole sante, Santità. Dopo di che?


Il Papa sollecita l’abbandono di «stili di vita improntati a un consumo insostenibile, dannosi per l’ambiente e per i poveri». Giustissimo. Ma adesso bisogna che anche la Chiesa ne tragga tutte le conseguenze 
Tutto bene, se ci fermiamo alle parole in se stesse. Tutto benissimo. Benedetto XVI pronuncia una serie di frasi perfettamente condivisibili e, proprio perché lo fa in uno stesso discorso, dà l’impressione di volerne sottolineare l’intima e imprescindibile connessione. Non si tratta di indicazioni che si possono recepire solo in parte ma che vanno accettate – o rifiutate – nella loro interezza. Prese nel loro insieme, infatti, identificano un sistema di pensiero, e di comportamento, opposto a quello dominante. E implicano, pertanto, degli aut aut. Delle incompatibilità, per dirlo in italiano.
Afferma il pontefice: «La crisi economica in atto, di cui si è trattato anche in questi giorni nella riunione del cosiddetto G20, va presa in tutta la sua serietà: essa ha numerose cause e manda un forte richiamo a una revisione profonda del modello di sviluppo economico globale. Malgrado la crisi, consta ancora che in Paesi di antica industrializzazione si incentivino stili di vita improntati a un consumo insostenibile, che risultano anche dannosi per l'ambiente e per i poveri». Stando così le cose, prosegue il Papa, «occorre puntare in modo veramente concertato su un nuovo equilibro tra agricoltura, industria e servizi, perché lo sviluppo sia sostenibile, a nessuno manchino il pane e il lavoro, e l'aria, l'acqua e le altre risorse primarie siano preservate come beni universali»
Si potrebbe continuare, ma il succo è questo. Primo: la crisi è la diretta e inevitabile conseguenza del modello di sviluppo. Secondo: bisogna farla finita con gli stili di vita che spingono al consumismo sfrenato, che non è solo deprecabile sul piano etico ma è insostenibile su quello pratico. 
Eccellente, dal nostro punto di vista. Sono cose di cui siamo convinti da molto tempo – ovverosia da ben prima di cominciare a scriverne sistematicamente sulla Voce del Ribelle – e che sono ormai patrimonio di un versante culturale che, per quanto ancora limitato come numero di sostenitori, può contare su un approfondimento teorico di prim’ordine. Proprio perché questo approfondimento c’è già stato, però, sappiamo benissimo che quelli enunciati da Benedetto XVI sono solo i punti di partenza di un percorso che deve (sottolineato: deve) approdare a ulteriori conclusioni e proseguire nella pratica. Le ulteriori conclusioni vertono sul rifiuto tassativo dell’economia finanziaria, incentrata sullo sfruttamento usurario dei capitali e sulla speculazione di Borsa. La pratica consiste nel dare l’ostracismo a chiunque operi in direzione contraria, ivi incluso il gigantesco apparato mediatico che quei modelli di comportamento li veicola, e li rafforza, in modo più o meno esplicito. Traduzione: ai talk show non si interviene, perché il fatto stesso di intervenire significa legittimare non solo la trasmissione in se stessa ma la linea editoriale di chi li mette in onda. Un minuto prima si riflette ponderosamente sul degrado morale della nostra società, così futile ed egoistica; un minuto dopo parte la raffica degli spot. La ponderosa riflessione fa da traino all’apoteosi di ciò che stava denunciando. E chi pensate che avrà maggior effetto, nella mente degli spettatori?
I talk show sono solo un esempio, naturalmente. Ma servono appunto a dare un’idea di quel che significa passare dalla teoria alla pratica. Rompendo gli indugi una volta per tutte. Prendendo le distanze in via definitiva, non solo sul piano delle enunciazioni astratte ma su quello delle decisioni concrete, e quotidiane. Nella gravissima situazione in cui ci siamo venuti a trovare, e dalla quale non esiste via d’uscita se non l’impoverimento di massa a vantaggio di oligarchie sempre più ristrette, non ci si può permettere più alcuna dilazione e alcun accomodamento. Il tempo dei tatticismi è finito. Quello delle strategie a lunghissimo termine, così tipiche del Vaticano, anche. 
Le parole del Papa, se non vogliono limitarsi a essere chiacchiere, devono tradursi in una sollevazione dell’intero mondo cattolico contro un modo di pensare e di essere che è l’antitesi stessa dei suoi valori. Come tutte le prese di posizione drastiche costringerà le persone a schierarsi, privandole del comodo alibi della distinzione “ad assetto variabile” tra ciò in cui si crede nel chiuso della propria coscienza e ciò che si finisce col fare sull’onda dei condizionamenti sociali. In una prima fase, probabilmente, le chiese si svuoteranno. Ma non sarà un gran male. Al contrario: sarà come sgomberare la propria casa di tutto il ciarpame che l’ha riempita a poco a poco, per fare posto a qualcosa di migliore. Qualcosa che forse sarà in grado di influenzare davvero la società e forse no. Ma che certamente, almeno, sarà più limpido e coerente.

Federico Zamboni