lunedì 28 marzo 2011

Referendum. Mobilitarsi per il quorum

La volontà popolare sembra chiara, ma non basta. Per cancellare il nucleare, la privatizzazione dell’acqua e il legittimo impedimento sarà indispensabile una forte partecipazione al voto. Superando quella soglia del “50 per cento più uno” degli aventi diritto che resta inviolata dal 1997
di Sara Santolini

Sabato la manifestazione organizzata a favore dei referendum del 12 e 13 giugno ha portato in piazza 300 mila persone. Un grande successo, che va a sommarsi a quello della giornata per la dignità delle donne dal titolo Se non ora, quando? e del corteo per la difesa della Costituzione. Cos’hanno in comune queste tre iniziative? Oltre a coagulare l’impegno dei cittadini, anche quello di essere lontane dalle influenze partitiche, che invece sono presenti in quasi tutti gli altri aspetti della vita politica, economica e sociale. L’allontanamento degli italiani non è dalla politica in sé, ma dai partiti, che non sono in grado di rispondere a interessi diversi da quelli privati dei loro esponenti. E delle rispettive cordate.
Il fine ultimo della manifestazione era quello di focalizzare l’attenzione sui referendum - due sulla privatizzazione dell’acqua pubblica, uno sulle centrali nucleari in Italia e l’ultimo sul legittimo impedimento - di cui il Governo sembra non voler proprio sentir parlare e rispetto ai quali i partiti di opposizione, che pure potrebbero sfruttare il il crescente consenso su queste tematiche, non riescono a mettersi d’accordo al loro interno. I politici presenti sono intervenuti a titolo personale, ed erano in massima parte amministratori locali. Forse perché sono le elezioni amministrative quelle più vicine, ma forse anche perché chi è legato al territorio ha ancora un minimo di percezione di quali siano i temi che stanno davvero a cuore alla popolazione. La maggioranza assoluta dei presenti era però composta da singoli cittadini, oppure dagli aderenti ad associazioni senza alcun legame partitico. 
Al di là della manifestazione in sé la popolazione, secondo le rilevazioni statistiche, sembra essere favorevole all’abrogazione delle leggi in discussione. Il problema, a questo punto, è riuscire a raggiungere il quorum necessario perché il risultato referendario venga convalidato: il 50 per cento più uno degli aventi diritto. Si tratta di uno scoglio quasi insuperabile, viste le ultime consultazioni di questo tipo: dal 1997 in poi nessun referendum abrogativo in Italia lo ha raggiunto. Ma stavolta le questioni toccano al cuore la sensibilità di moltissime persone, e il Governo rischia di essere contraddetto dalla stessa volontà popolare che, stante il successo dell’attuale maggioranza nelle ultime tornate elettorali, invoca sempre di fronte alle critiche politiche e alle stesse inchieste giudiziarie. 
Anche per questo le votazioni per le elezioni Amministrative e i referendum sono stati separati, e nel secondo caso si è optato per metà giugno sperando che gli italiani “vadano al mare” e decidano, nonostante tutto, di lasciare ancora il loro Paese al volere dei partiti. Ed è proprio il quorum la preoccupazione di Ermete Realacci, presidente di Legambiente, che spera «che ai referendum su acqua e nucleare vada a votare più gente possibile indipendentemente dal raggiungimento del quorum che è molto difficile per come è fatta la legge italiana sui referendum che prevede appunto la partecipazione del 50% degli aventi diritto».
«Siamo in piazza per sostenere le ragioni della vita. L'acqua integra il diritto alla vita, è il bene comune per eccellenza. Immaginare di viverla come una qualunque merce, immaginare processi di privatizzazione è un delitto contro il diritto dei popoli», ha detto Nichi Vendola durante il corteo a favore di telecamera, il cui ddl regionale di ripubblicizzazione dell’Acquedotto Pugliese è però ancora lontano dall’avere valore di legge. E ha aggiunto: «Le furbizie del governo a proposito di moratoria nucleare non ingannano nessuno. Il 12 giugno andremo a dire sì non solo per l'acqua pubblica, ma anche contro il nucleare». Stavolta non si può che essere d’accordo, nonostante lui sembri già entrato in clima da campagna elettorale. 
D’altronde, l’espressione (o la non espressione) di voto è l’unica arma, se si esclude la mobilitazione di massa, che permette ai cittadini di difendersi dai suoi stessi governanti. Un’arma spuntata, ma che almeno in qualche caso può tornare a essere efficace. Soprattutto se si tratta di giudicare leggi specifiche come nel caso dei referendum, e non di mettere una semplice croce su un simbolo. Proprio per questo Mario Valducci, presidente della Commissione trasporti della Camera, ha già confermato nelle scorse settimane che in riferimento al 12 e 13 giugno «l'indicazione del Pdl sarà quella di astenersi». La maggioranza al governo cercherà dunque di tenere lontano l’elettorato dalle urne, fregandosene di quali siano realmente le sue reali preferenze.

Sara Santolini

venerdì 25 marzo 2011

La Ue prigioniera delle Banche

Il vertice europeo sul Fondo Salva Stati e sul patto di stabilità si chiude con un rinvio che lascia tutto com’è. E intanto l’annunciatissimo crollo a catena dei Piigs prosegue come da copione: dopo la Grecia l’Irlanda, e dopo l’Irlanda il Portogallo
di Valerio Lo Monaco 

Passata di fatto in secondo piano per le cronache concentrate sulla ennesima guerra di aggressione alla Libia, mascherata naturalmente da intervento umanitario, la situazione economica dell'Europa, e in particolare di alcuni Paesi che ne fanno parte, sta attraversando una fase di conferme di quanto andiamo scrivendo da mesi, anzi da anni. 
I fatti recenti, come ampiamente previsto da pochi (e tenuto nascosto da tutti gli altri) stanno purtroppo confermando ciò che anche un ragazzino di prima media avrebbe potuto capire: è impossibile risolvere una situazione economica debitoria accendendo un ulteriore debito, peraltro con interessi superiori a quelli della situazione partenza, per non parlare del fatto che non si rimuove la causa principale dei debiti crescenti.
Bastino tre sole notizie delle ultime ore prima di fare qualche, semplice, riflessione.
La prima è la parabola discendente dello stato economico del Portogallo, terza vittima sacrificale, dopo Irlanda e Grecia, nel copione già scritto in merito ai paesi Piigs della nostra Europa. Le dimissioni del premier Socrates, dopo la bocciatura subita nel parlamento portoghese in seguito alla presentazione dell'ennesimo piano di austerità - il quarto, solo nell'ultimo anno - riflette il fatto che la situazione è veramente molto grave. Film già visto, purtroppo: il popolo giustamente non ne vuole sapere di pagare per una crisi causata da altri, per giunta speculatori, scende in piazza a manifestare contro il piano di tagli previsto, e l'opposizione al governo di Lisbona cavalca l'onda della protesta per bloccare di fatto l'operato del governo in carica. Naturalmente senza avere in tasca lo straccio di una soluzione alternativa per rispondere ad attacchi finanziari e speculativi che piovono da altre parti del mondo sull'Europa intera. Il Portogallo deve essere costretto ad accettare gli aiuti imposti dall'Fmi ai tassi usurai di cui Grecia e Irlanda sono già consci. Non ci sono altre strade - così vogliono far credere - per uscire dalla crisi...
Altra notizia: oltre alla situazione in Grecia – dove aumenta la povertà e si tagliano servizi giorno per giorno, e malgrado questo salgono i rendimenti dei titoli pubblici, la popolazione è in collera costante e montante – oggi scopriamo che anche l'Irlanda (ne ha scritto ieri Stasi proprio qui) ha nuova e ulteriore necessità di chiedere eaccettare altri prestiti. Quelli ricevuti non bastano. Non sono bastati...
Terza notizia: il vertice recente di Bruxelles, che avrebbe dovuto decidere sul fondo salva stati e sul patto di stabilità, ha semplicemente rimandato la decisione. Naturalmente i problemi relativi alla situazione in Libia hanno pesato sull’incontro europeo, ma come chiamare, se non guerra, anche ciò che sta succedendo a livello economico nel vecchio continente? Eppure, a questo proposito, per ora c’è il silenzio. Mentre un numero sempre maggiore di popoli d’Europa inizia a urlare sempre di più.
Ergo? Tre cose in rapida successione. La prima: inesorabile, la crisi continua a montare, dunque gli opinionisti, i politici e gli analisti embedded stanno prendendo per i fondelli la popolazione di tutta Europa. Non solo non stiamo uscendo dalla crisi, non solo ci siamo ancora dentro, ma passo passo si sta procedendo ulteriormente verso il baratro. La seconda: gli aiuti imposti ai vari paesi non solo non sono risolutivi delle situazioni debitorie degli stessi, ma addirittura aggravano la situazione, tanto che, come nel più classico e perverso sistema dei debiti sempre crescenti, i paesi già aiutati hanno ulteriore bisogno di aiuto. La terza: in Europa non si ha idea di come cercare di risolvere la situazione. Si è alla mercé della finanza internazionale e non si ha lo straccio di una strategia, economica, politica, ideologica, filosofica, per sottrarsi al terribile gioco a perdere che questo modello impone a tutti i popoli che continuano a farne parte.
I popoli d'Europa, per quel che ci riguarda da vicino, brancolano nel buio, guidati da una classe dirigente inutile, incapace, colpevolmente prona alle Banche e all’Fmi.

Valerio Lo Monaco 

mercoledì 23 marzo 2011

Libia. Obama manda avanti gli altri


George W. Bush attaccava a testa bassa. Il suo successore si fa furbo e cerca di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo, scaricando sulla Nato e sull’Europa la responsabilità operativa e politica dell’attacco a Gheddafi. Una cautela di facciata, resa necessaria dalle difficoltà economiche e militari degli Usa 
di Valerio Lo Monaco 

Non sarà sfuggito a molti il comportamento anomalo del Presidente degli Stati Uniti in occasione di questa ennesima guerra di aggressione a uno Stato sovrano. Contrariamente  a quanto avvenuto in occasione di altri attacchi simili nel recente passato, per intenderci dalla caduta dell'impero russo ai giorni nostri – Jugoslavia, Iraq, Afghanistan... – in questo caso gli Usa, almeno dal punto di vista diplomatico, si stanno comportando in modo piuttosto differente dal consueto. E ciò, ovviamente, non dipende dal fatto che Obama sia una persona che ha ricevuto il Nobel per la Pace, considerando che allo stesso tempo ciò non gli ha impedito di continuare a bombardare gli afgani e di mantenere attivo il carcere di Guantanamo che pure, in campagna elettorale, aveva giurato di voler chiudere non appena eletto alla Casa Bianca. Il motivo per il quale, almeno a livello di comunicazione, non è un colonnello a stelle e strisce a guidare la missione in Libia risiede in ciò che spieghiamo da tempo proprio in queste pagine e in quelle del mensile: gli Stati Uniti non sono più la superpotenza che erano appena un decennio addietro. 
Non lo sono più dal punto di vista economico per i recenti fatti della crisi che poi hanno esportato in tutto il mondo, e non lo sono più neanche dal punto di vista militare considerati i risultati ridicoli, se non fosse che sono anche drammatici, dei pantani in Iraq e Afghanistan. Nel primo caso gli attentati sono all'ordine del giorno, il paese è tutt'altro che pacificato e democratizzato e la distruzione portata dall'intervento di qualche anno addietro - oltre alla morte diffusa - sono sotto gli occhi di tutti. Per il secondo caso, dopo dieci anni di aggressione e conflitti, la situazione è non solo irrisolta, ma pende fortemente per una vittoria definitiva dei resistenti afgani, che peraltro sono in procinto di riprendere i combattimenti con l'arrivo della primavera considerando che in inverno ciò non è stato possibile per motivi meteorologici.
Con quale faccia e supponenza avrebbe potuto presentarsi Obama alla guida di questa ennesima aggressione militare è facile immaginarlo. E infatti non lo ha fatto.
Ciò non significa, però, che gli Usa non abbiano interessi in Libia. Anzi. Ne hanno nella guerra in sé, visto che, ad esempio, ogni missile Tomahawk che si abbatte sulle coste africane frutta 1.5 milioni di dollari alle aziende Usa e fa crescere un Pil statunitense in asfissia da tempo, e ne hanno soprattutto per il post guerra, quando ci sarà da spartirsi il bottino. Questo riguarda materie tangibili, come gas e petrolio, ma soprattutto "materie" non immediatamente tangibili, ma allo stesso tempo importanti, come ad esempio il posizionamento geostrategico. 
Brutalmente: l'Africa e le sue risorse, che non riguardano solo il petrolio ma ad esempio tutti i materiali che servono per la costruzione di molte parti elettroniche utilizzate e smerciate dall'Occidente intero, devono essere controllate da una guida certa. E soprattutto "occidentale", ovvero l'esatto opposto di quello che sta invece avvenendo da tempo, cioè la Cina che sta estendendo a macchia d'olio la sua influenza nel continente nero.
Prendere la Libia significa gettare le basi per un nuovo disegno dell'intero Medio Oriente e dell'Africa, e delle merci e risorse che ivi risiedono o che da lì passano (vedrete, appena la Libia sarà statunitense il progetto South Stream verrà di nuovo colpito).
Il presunto e solo percepito silenzio di Obama va letto insieme alla pressione Usa, che pure c'è, affinché sia la Nato a prendere al più presto il comando delle operazioni e dunque il post guerra.
Il tutto, naturalmente, nel quadro di assoluta incapacità strategica dell'Europa e dei paesi che ne fanno parte, che da una situazione del genere, Italia in testa, hanno solo che da perdere. 
Non è un caso che Russia e Cina siano molto accorte, e si tengano a distanza, da ciò che sta accadendo. E la scelta, ancora una volta "atlantica" dell'Europa e dell'Italia, mostra per l'ennesima volta la totale incapacità dei governi di scegliere guardando un palmo di mano più in là della stretta attualità.
Del resto, solo per rimanere al nostro Paese, non è possibile sperare di meglio da parte di personaggi come La Russa e Berlusconi, e anche Napolitano, che non si vergognano di usare la parola "volenterosi" per definire la coalizione dei colonizzatori moderni.

Valerio Lo Monaco   

martedì 22 marzo 2011

Tifo da stadio per Silvio. Al processo Mills

Grottesca messinscena di un gruppo di sostenitori di Berlusconi. Che si radunano fuori dal tribunale di Milano e acclamano il presidente del Consiglio: peraltro assente, visto che si è ben guardato dal presentarsi in aula. Un caso esemplare di celebrazione “in contumacia” 
di Sara Santolini 

Ieri a Milano è ripartito il “processo Mills”, dal nome dell’avvocato inglese corrotto dal Premier. Neanche a dirlo Silvio Berlusconi non era presente in aula. Era però al Consiglio dei ministri per intervenire sulla crisi libica, cosa che, visto che non si è appellato al “legittimo impedimento” e ha dichiarato di voler intervenire alle prossime udienze, gli ha regalato una scusa quasi accettabile. Staremo a vedere come si comporterà in futuro. In compenso, al posto della sua parlantina, c’era un gruppetto di sostenitori, come ai tempi in cui si cantava “forza Italia” fuori dalla sede del partito. Tutti con una coccarda, stavolta azzurra, sulla falsariga dei festeggiamenti per il 150esimo dell’Unità d’Italia.
Una piccola folla che però fa parlare di sé e che giustifica il numero esiguo di partecipanti alla manifestazione proberlusconi con queste parole: «Se fosse stato presente in aula, saremmo stati ancora di più. Col freddo, con la pioggia con la neve, siamo sempre presenti con lui... ». L’evento è quantomeno grottesco. Si tratta di cittadini che fanno un tifo da stadio per un imputato. Non si tratta di chiedere giustizia, che sia a suo favore o no. Si tratta di acclamarlo a prescindere: i sudditi che si prostrano per confortare il sovrano in ambasce. E in contumacia.
Nei giorni scorsi sono stati allestiti dei veri e propri banchetti per raccogliere firme a supporto del Premier. Le finalità pratiche di questa iniziativa sono però oscure: le firme raccolte hanno lo scopo di richiedere non si sa cosa e non si sa a chi, visto che stiamo parlando di un processo regolare e legittimo. E visto che tutte le firme del mondo non potrebbero comunque evitarne lo svolgimento. Alcuni supporter, comunque, domandano a gran voce che vengano fatte indagini sulla Boccassini, Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano, che secondo loro sarebbe colpevole di occuparsi anche dei processi a carico del Premier. Come se le sue indagini non fossero partite da ben precise “notizie di reato” ma da semplici supposizioni o, peggio ancora, da antipatie del tutto personali. Un’ipotesi che forse è ancora peggiore di quella, anch’essa inaccettabile, del complotto, portata avanti con tanta foga dalla difesa berlusconiana.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, avvocati del Premier e parlamentari del Pdl, sono andati a salutare dopo la seduta i loro sostenitori dichiarando a favore di telecamera: «Mai ricevuta un'accoglienza così, questo significa che la gente sta iniziando a comprendere cosa sono questi processi». Due pesi e due misure, tanto per cambiare. Mentre le piazze, anche traboccanti, che contestano i metodi di questa politica non vengono considerate altro che “minoranze facinorose”, questo piccolo gruppo di tifosi è innalzato a campione virtuoso del popolo italiano. E pazienza se alla fine, a forza di urlare di fronte al tribunale inneggiando a Berlusconi e ai suoi due famosi avvocati, vengono fatti allontanare. 
La situazione è così imbarazzante che persino Minzolini, ieri sera, ha preferito glissare completamente sull’argomento. Non solo sul processo in sé, cosa che ormai dal Tg1 ci si aspetta, dopo che è stato capace di dare notizia (falsa) dell’assoluzione proprio l’avvocato Mills, ma anche sul circo Barnum di giornata. In questa messinscena, assieme a semplici cittadini, c’erano rappresentanti politici. In particolare il senatore Mario Mantovani, coordinatore regionale lombardo del Pdl. Che non manca di dichiarare: «Si parla in questi giorni di aggressione ai diritti umani: anche qui siamo di fronte ad una aggressione ai diritti di Berlusconi». Come se si trovasse di fronte a una sala torture, anziché davanti a un’aula di tribunale. 

Sara Santolini

giovedì 17 marzo 2011

Libia: spari presso Bengasi, si combatte ancora ad Agedabia

Speciale festival del Cinema di Roma 2010

E se vince Gheddafi?

Le truppe del Colonnello avanzano verso Bengasi e la vittoria dei ribelli appare sempre più incerta: mettendo i governi occidentali di fronte alla scomodissima alternativa tra un intervento militare a favore degli insorti e un’imbarazzante marcia indietro nei confronti del Raìs
di Sara Santolini

L’esercito di Muammar Gheddafi avanza verso Bengasi. Davanti al colonnello che recupera terreno sui ribelli, la diplomazia internazionale stenta a trovare un'intesa sulla gestione della crisi. D’altra parte, ognuno ha i suoi interessi e nessuno è disposto a sacrificarli in nome di una rivoluzione che, oltretutto, non gli appartiene. 
I ministri degli Esteri del G8 hanno elaborato un piano di reazione che prevede una serie di sanzioni economiche e l’istituzione di una No fly zone. Ma le sanzioni, qualora venissero applicate, non avrebbero nessuna influenza nei confronti dell’esercito del colonnello, soprattutto non in tempi stretti. Inoltre la riunione ha il gusto della farsa: nella dichiarazione finale i delegati degli Stati più industrializzati del mondo, e per questo più potenti anche a livello politico, rimandano ogni decisione finale al Consiglio di sicurezza dell'Onu, votandosi in pratica all’immobilismo. 
Le crescenti probabilità che la fine di Gheddafi sia lontana da venire impongono alla diplomazia un salto mortale per recuperare, se non una certa neutralità, almeno una posizione meno dura nei confronti del Colonnello che ridurrà gli ultimatum nei suoi confronti, al solito, a dei semplici “severi avvertimenti”. L’Italia, tra i Paesi con i maggiori interessi economici in Libia, dopo aver temporeggiato prima di allinearsi con l’Europa contro i metodi del Raìs ora si affretta a verificare che i propri rapporti col governo libico non siano compromessi. Scaroni, l’amministratore delegato Eni, ha sottolineato che la società italiana, al momento costretta a interrompere l’estrazione del greggio in quelle zone, ha rapporti diretti con la National company libica per lo sfruttamento del combustibile fossile, e non direttamente con il governo libico che, qualunque sia in futuro, in ogni caso «avrà una natural company con dei contratti e dei rapporti con noi, quindi non vedo ragioni perché i rapporti debbano essere compromessi». Questo dovrebbe mettere gli interessi di Eni al riparo da qualsiasi problema diplomatico tra Italia e Libia. 
In ogni caso si tratta della questione che ci sta più a cuore. Per questo abbiamo tergiversato davanti a un governo capace di sparare sul suo popolo in rivolta, creando un pericoloso precedente. Noi, ma non solo noi. La missione europea di ritorno da Bengasi, che considera il Consiglio libico di transizione un valido interlocutore, si è risolta in una grottesca parata. L’Ue non ha preso nessuna decisione e gli insorti hanno perso la speranza in un intervento esterno. Non che questa sia una strada obbligata e comunque percorribile. Ma ci vorrebbe un minimo di coerenza per potersi continuare a presentare a livello internazionale con la necessaria credibilità. Invece che con la faccia tosta di chi si spaccia per una grande potenza senza avere né una politica precisa né una dignità morale.
«Credo che sia una vergogna la posizione da codardi assunta dal mondo occidentale». Questo è quello che pensa Ali Tarhouni, un esponente degli insorti. In particolare se la prende con gli Stati Uniti, accusati di ergersi a difensori degli oppressi solo a parole: nel 2009 Obama pronunciò al Cairo un discorso nel quale «fece un appello per la democrazia e la libertà» che però non sembra trovare alcuna applicazione nel caso libico. «Ora», ha continuato Ali Tarhouni, «il minimo che possa fare è appoggiare la no-fly zone. Il sangue del popolo libico non è a poco prezzo, a noi costa caro versarlo». Ma non è questa un’argomentazione che possa toccare le corde statunitensi. Poi ha aggiunto: «Come tutta la popolazione libica, sono molto deluso da Obama. Gheddafi presto o tardi dovrà andar via e il popolo si ricorderà di chi si è dimostrato amico ed è stato dalla sua parte nelle ore del bisogno». 
Quest’ultima, forse, è l’unica carta che rimane agli insorti per convincere gli Usa a fare, ufficialmente e concretamente, qualcosa in loro favore. In altre zone calde del pianeta la Casa Bianca è intervenuta perché aveva ben altri interessi che “l’esportazione della democrazia” – peraltro imposta con mezzi militari e quindi tutt’altro che democratici – facendo  comunque vivere a quei Paesi una situazione che probabilmente i libici non hanno alcuna voglia di sperimentare. Sono solo questi i criteri che comprende questo Occidente: il ricatto, l’interesse economico, la strategia di alleanze basate solo sulla convenienza. Null’altro.
Nonostante tutto, il popolo libico non cede. «Credetemi», ha concluso Ali Tarhouni «non abbiamo paura di Gheddafi e delle sue forze. Sappiamo che cadrà, è questione di ore, giorni o forse mesi. Ma il problema è quante vite porterà via con sé». Allora, però, la vittoria sarà solo nostra.

Sara Santolini

venerdì 11 marzo 2011

Islanda, un monito un esempio

da "La Voce del Ribelle":


Una nazione minuscola che ha avuto la forza di ribellarsi allo strapotere bancario. Una rivoluzione, che passa anche da un nuovo testo costituzionale, finalizzata a impedire che gli interessi del Paese vengano sacrificati a quelli delle oligarchie della finanza internazionale
di Alessio Mannino 


Piccola e dimenticata, l’Islanda ci fa da monito. L’isola solitaria fra il Polo Nord e la Gran Bretagna, appena 300 mila anime, una piccola patria di pescatori, ha osato l’inosabile: ribellarsi alla plutocrazia globale. 
Ecco la storia. Alla fine del 2008 la crisi finanziaria si abbatte come un ciclone sugli islandesi, che nell’ottobre decidono di nazionalizzare la banca più importante del paese, Landsbanki. Seguono a ruota la Kaupthing e la Glitnir. I debiti degli istituti falliti sono in gran parte con la City di Londra e con l’Olanda. La moneta nazionale, la corona, è carta straccia e la Borsa arriva a un ribasso del 76%. Il governo conservatore di Geir H. Haarden chiede l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, che approva un prestito di 2 miliardi e 100 milioni di dollari, integrato da altri 2 miliardi e mezzo di alcuni Paesi nordici. Le proteste popolari si susseguono in un crescendo che porta alle dimissioni del primo ministro nel gennaio 2009 e a elezioni anticipate nell’aprile successivo. Dalle urne esce vincitrice una coalizione di sinistra, che non riesce a frenare la caduta dell’economia. L’anno si chiude con una diminuzione del 7% del Pil. 
Il nuovo esecutivo propone la restituzione dei debiti a Regno Unito e Olanda mediante il pagamento di 3 miliardi e mezzo di euro, somma che pagheranno tutte le famiglie islandesi mensilmente per i prossimi 15 anni al 5,5% di interesse. Nel gennaio 2010 il capo dello Stato, Ólafur Ragnar Grímsson, si rifiuta di ratificarla e dà soddisfazione al popolo che reclama un referendum sulla questione. Il risultato della consultazione che si tiene a marzo è schiacciante: il 93% dei votanti dice no. La ragione è semplice: perché dover pagare tutti gli effetti di una crisi di cui sono responsabili i banchieri, protetti e coccolati dall’Fmi e dal sistema finanziario che tiene sotto ricatto il paese? La rappresaglia non si fa attendere: l’Fmi congela immediatamente gli aiuti. 
Solo a questo punto il governo di sinistra, coi forconi puntati davanti al parlamento, si decide al gran passo: denuncia e fa arrestare i bankers. L’Interpol emana un ordine internazionale di arresto contro l’ex-Presidente della Kaupthing, Sigurdur Einarsson. In questo clima da resa dei conti, lo scorso novembre si riunisce un’assemblea costituente per scrivere una nuova Costituzione che rifondi il piccolo Stato islandese sottraendolo allo strapotere del denaro virtuale. Il criterio con cui essa viene eletta vuol dare il segnale di un rinnovamento reale, profondo: si scelgono 25 cittadini senza appartenenza politica tra i 522 che hanno presentato la loro candidatura, per la quale era necessario solo essere maggiorenni ed avere l’appoggio di trenta persone. La nuova magna charta sta per essere presentata proprio in questo periodo. 
Nulla si è saputo da noi di questa Rivoluzione d’Islanda. Pacifica ma dura e determinata. A rileggerne i punti fondamentali, nel paragone con l’immobilismo conservatore che vige dalle nostre parti c’è di che farsi venire un brivido lungo la schiena: dimissioni in blocco di un governo, nazionalizzazione delle banche, referendum perché il popolo decida sulle decisioni economiche fondamentali, carcere per i responsabili della crisi, riscrittura della costituzione da parte dei cittadini. L’unica ombra che grava sul corso politico dell’isola è la richiesta di ingresso nell’Unione Europea. Perché voler buttare nel gelido mare del Nord tutto il magnifico lavoro fatto finora, esempio per gli uomini liberi d’Europa, per aderire a un superstato controllato da banchieri e manager delle multinazionali? Perché i fieri islandesi non provano a perseverare nella retta via, imitando i loro ovini e cavalli, lasciati liberi di in ampi pascoli senza recinti e senza cani da guardia?
Alessio Mannino

giovedì 10 marzo 2011

Più donne nei CdA. Ma con calma

da "La Voce del Ribelle":
La pantomima delle “quote rosa” è assurda di per se stessa, ma la maggioranza di governo ci aggiunge del suo: il rinvio della piena applicazione delle nuove norme, sulla presenza femminile nei consigli di amministrazione, al 2021
di Sara Santolini 

Quote rosa. Già il nome che è stato appiccicato (anche) al provvedimento per l'aumento legale e obbligatorio delle donne nei Consigli di Amministrazione delle società quotate in Borsa, in discussione in questi giorni, tradisce una mentalità fondamentalmente maschilista. E non si tratta di una sterile querelle sui termini: l’espressione giusta per un provvedimento di questo tipo, se il nostro fosse un Paese evoluto, sarebbe "quote di genere". In caso contrario la legge sembra quasi prevedere una discriminazione nei confronti degli uomini, che non avrebbero una percentuale di presenza garantita loro come le colleghe donne. 
Il ricorso alle quote può essere considerato utile solo qualora sia semplicemente un mezzo, sia pure artificioso, per smuovere una situazione stagnante, laddove esista una vera e propria assenza di uno dei due sessi nelle posizioni di potere di uno Stato. Ma non possono in nessun caso essere definitive. Inoltre il vero segnale della discriminazione femminile non è solo la mancanza di donne nei posti dirigenziali, ma soprattutto il divario di stipendio con gli uomini, a parità di funzioni. E anche se questa differenza si attestasse a un livello inferiore ai due punti percentuali, come rilevato in Italia dall’Università Bocconi, si tratterebbe comunque di discriminazione. Che, in quanto tale, bisogna considerare inaccettabile. Qualora la mancanza di donne in tali Consigli sia frutto di discriminazione, e non una semplice scelta effettuata in base ad altri parametri, esistono infatti delle sanzioni, a livello europeo, che prevedono ammende fino a 50 mila euro e la reclusione fino a sei mesi. 
Nonostante i vantaggi di immagine per il governo e soprattutto per Berlusconi, che a causa delle note vicende del bunga-bunga ha perso parecchi punti nella stima soprattutto dell'elettorato femminile sia di destra che di sinistra, la Commissione finanze al Senato martedì ha bloccato la legge rinviandone la piena entrata in vigore nientemeno che al 2021. Dieci anni tondi tondi. Nell'inevitabilità del provvedimento, è stato approvato l'emendamento Germontani che prevede un rinnovo graduale dei Cda con un aumento progressivo del numero di donne in Consiglio. Il tutto ben diluito nel tempo. Ma ieri, a Palazzo Madama, sono scaturite nuove ipotesi. Andando incontro ai desideri di Confindustria, Abi (Associazione Banche Italiane) e Ania (Associazione Nazionale Italiana Assicurazioni) il governo potrebbe prevedere un adeguamento in tre step successivi, uno per ogni rinnovo del Cda, prolungando il raggiungimento del tetto del 30% almeno al 2018. Un’altro ritardo riguarda l’entrata in vigore della legge. Invece dei sei mesi dalla pubblicazione in Gazzetta, come previsto dalla Commissione, la legge entrerà in vigore solo dopo un anno. Infine le aziende che non si adegueranno alle quote non incorreranno nella decadenza immediata degli organi, come previsto inizialmente, ma in una serie di diffide e sanzioni successive.
Tutto fumo negli occhi, in ogni caso. Basti pensare che in Italia la presenza femminile nel Parlamento non supera il 20 per cento, e che al di sotto del 30 non può avere alcuna influenza sulla politica. È singolare inoltre che il governo, che si appresta a cancellare ogni tipo di controllo nei confronti dell’iniziativa economica, con la riforma (e lo snaturamento) dell’articolo 41 della Costituzione, pretenda poi di imporre vincoli preventivi alla composizione dei Cda di quelle stesse imprese che sono e restano private.
Visti i legami tra importanti società e governo, la decisione di rimandare l’entrata in vigore della legge e di edulcorare le sanzioni in caso di mancato recepimento, non può essere un caso. Spesso i consiglieri di diverse società sono legati a doppio filo alla politica di modo che il leader del momento possa controllarle attraverso di loro, e perseguire così i propri interessi. Finora si trattava per la maggior parte di uomini. L’introduzione delle quote, come ogni altro cambiamento, va bene ai nostri politici, e alle associazioni di imprese, solo qualora non alteri gli equilibri esistenti e mantenga saldo e intatto il sistema di potere già affermato. Per questo, forse, chi di dovere si sta domandando dove trovare donne da collocare in questi posti strategici, soprattutto nel caso in cui abbia nel proprio parco delle persone di fiducia solo, o soprattutto, uomini. E in particolar modo ora che le donne in stile “Papi girl”, di per sé utilissime allo scopo perché in nome della carriera e dei soldi facili assicurerebbero fedeltà cieca obbedienza eterna al proprio benefattore, sono almeno temporaneamente "bruciate". Ovvio: accantonate le Minetti di turno, per trovare una risposta soddisfacente c’è bisogno di tempo.

Sara Santolini

mercoledì 9 marzo 2011

Quote rosa.

Quote rosa. Solo il nome con il quale è noto il provvedimento per l'aumento legale e obbligatorio delle donne nei Consigli di Amministrazione delle società quotate, tradisce una mentalità fondamentalmente maschilista. E non si tratta di una sterile querelle sui termini: la parola giusta per un provvedimento di questo tipo, se il nostro fosse un Paese avanzato, sarebbe "quote di genere". 


Nonostante il ddl non potrebbe che fare del bene a questo governo, a terra in ogni caso nella stima soprattutto dell'elettorato femminile sia di destra che di sinistra, la Commissione finanza al Senato ieri ha bloccato la legge rinviandone l'entrata in vigore al 2021. Oggi, se ne parla a Palazzo Madama. Il fine era probabilmente un'altro. Nell'inevitabilità del provvedimento, è stato approvato l'emendamento Germontani che prevede un rinnovo graduale dei Cda con un aumento progressivo del numero di donne in Consiglio diluito nel tempo. 
Visti i legami tra Cda di importanti società e governo, rimandare questa data non può essere stato un caso. Spesso consiglieri di diverse società sono legati a doppio filo alla politica in modo che il leader di turno possa controllarle attraverso di loro, e fare i propri interessi. Finora si trattava per la maggior parte di uomini. Per questo forse chi di dovere si sta domandando dove trovare donne da mettere in questi posti strategici se nel proprio parco persone di fiducia ci sono solo, o soprattutto, uomini e in particolar modo ora che le donne stile “Papi girl” sono, almeno temporaneamente, "bruciate". E per trovare una risposta soddisfacente, chiaramente, c’è bisogno di tempo.


Sara Santolini

Italiani in bolletta

Dati ufficiali di Bankitalia: si chiedono più prestiti e si versano meno soldi sui conti correnti. È la conferma di una crescente difficoltà ad affrontare le necessità della vita quotidiana, destinata ad aggravarsi col rialzo dei tassi di interesse annunciato dalla BCE
di Massimo Frattin 

Aumentano sensibilmente le difficoltà finanziarie delle famiglie italiane. A onta di chi  squaderna pagine di un futuro solare, l’ultimo bollettino Moneta e Banche emesso da Bankitalia lascia poco spazio a interpretazioni di altra natura. A gennaio, infatti, risulta un aumento delle richieste di prestiti bancari da parte delle famiglie, nell’ordine di un più 5%, contestualmente ad una diminuzione dei soldi depositati sui conti correnti pari all’1,7%. Il che significa, come è facile evincere, che i soldi, la moneta sonante per affrontare la quotidianità, sono sempre meno.
E non è che si tratti di un improvviso mutamento di scenari. Solo a fine dicembre 2010 l’Istat aveva segnalato enormi difficoltà da parte di un terzo delle famiglie italiane a reggere una spesa imprevista di 750 euro. E rappresentano ormai una costante diffusa in molti comuni d’Italia le iniziative legate al microcredito famigliare, con sinergie fra enti politici e associazioni quali la Caritas, per sostenere chi stenta sempre di più a fare fronte a bisogni primari come alimentazione, scuola e bollette.
In questo scenario arriva come un fulmine a ciel sereno l’intenzione, da parte della Bce, di aumentare i tassi di interesse. Una volontà in cui sembra di leggere una consapevole premeditazione delle conseguenze negative sulla società nel suo insieme. Come più volte dichiarato sui mezzi di informazione da parte del presidente della BCE, Jean Claude Trichet, siamo vicini ad un “necessario” adeguamento al rialzo dei tassi, fermi da due anni e mezzo. Come se questi due anni e mezzo fossero stati una festa per tutti. Ma l’aumento, che sembrava annunciato per settembre, pare sarà anticipato ad aprile, sulle spinta delle richieste dei grandi gruppi bancari, alle prese con difficoltà di bilancio.
Così, per l’ennesima volta, e in una maniera che appare ancora più scandalosa alla luce del pesante calo economico delle famiglie evidenziato proprio da Bankitalia, si va ad apportare nuova linfa ai gruppi bancari attaccando proprio il sistema famigliare in piena crisi. Inutile aggiungere poi che nei Paesi in difficoltà a causa del debito pubblico questa misura avrà una ripercussione doppia, dal momento che aumenteranno non solo i tassi dei prestiti privati, ma anche gli interessi debitori nazionali, con conseguenti prevedibili inasprimenti fiscali o ulteriori tagli nei servizi.
Riassumendo: per quanto concerne le banche, in gennaio hanno già aumentato i tassi di interesse sui mutui passando dal precedente 3,18 al 3,36; hanno fatto lievitare i tassi sul credito al consumo di quasi mezzo punto percentuale rispetto a dicembre; ed hanno ribassato gli interessi riconosciuti sui conti correnti, passati dallo 0,36 allo 0,35 per cento. Questo proprio mentre le famiglie hanno sempre meno soldi e sono costrette a fare sempre più debiti. E cosa fa la BCE? Aumenta il costo del denaro. 
È come se fornisse il badile per scavarsi la fossa. Sotto la sbandierata intenzione di contenere le spinte inflazionistiche – attorno al 2% – la “super banca” di Francoforte condiziona pesantemente l’intero sistema di vita, lavoro e risparmio dei cittadini. Dopo essersi arrogata il diritto di contestare gli aumenti salariali concessi dalla tedesca Volkswagen ai propri operai, adesso la Bce colpisce la famiglia e la società produttiva, le due entità maggiormente danneggiate dall’aumento dei tassi, utilizzandole come ultima risorsa alla quale attingere per sovvenzionare i grandi potentati. 
Motivo di più per sollevare la questione della reale utilità degli organismi centrali e della loro funzionalità rispetto ai bisogni della popolazione.

Massimo Frattin