giovedì 30 aprile 2015

VERSO LA DITTATURA MADE BY RENZI

Di certo il voto non ha praticamente nessun valore nel mondo "Occidentale", legittimando di fatto una classe politica che da sola si è nominata tale e la dittatura dei partiti sulla cosa pubblica.

Eppure, i partiti politici si sentono attaccati da quello stesso voto che finora non ha fatto che confermarli al potere, potendo scegliere gli elettori solo tra una o l'altra compagine, facce della stessa medaglia. Forse la paura viene dal fatto che in Parlamento oggi siedono, pure tra contraddizioni e inadeguatezza, forze sostanzialmente fuori dal loro controllo.

Si parla del M5S, non tanto per la sua azione di governo quanto per il suo peso: nonostante il dissenso che esprimono si trasformi, dato il numero esiguo di seggi che gli sono stati assegnati, spesso in una sostanziale inutilità a livello parlamentare, la loro stessa presenza rappresenta per i partiti politici un rischio. Al di là dei problemi insiti nell'elaborazione di una azione politica e nella scelta degli onorevoli, il M5S rappresenta un pericoloso precedente. Da evitare a colpi di maggioranza. E, visto che ci siamo, perchè non occuparsi anche del Presidente della Repubblica, del Consiglio Superiore della Magistratura e della Consulta?

Così ci si avvia - incostituzionalità permettendo - verso una dittatura tutta renziana che, con buona pace di chi pensa che la "governabilità" sia più importante della "rappresentanza" e dunque che nessuna minoranza debba mettere i bastoni tra le ruote del governo - (il)legittimamente al potere (per motivi legati soprattutto alla legge elettorale che già ci ritrovavamo), dovrebbe essere trattata come tale.

martedì 24 febbraio 2015

JOBS ACT, COME RENDERE (ANCORA PIU') INSTABILE UN PAESE

da La Voce del Ribelle:

Fare cassa. Tutto sommato è questa forse l’unica reale conseguenza del Jobs Act, una legge che si districa in milioni di diverse interpretazioni e paradigmi. Una politica che non vede però al di là del proprio naso e che proprio per questo rischia di essere controproducente per l’intero sistema.
Nelle aziende fino a 5 dipendenti si possono tenere sempre dipendenti a tempo determinato, per gli altri il 20% dei subordinati potrà rimanere a termine: parliamo di 3 persone nelle aziende da 15 dipendenti. L’impresa che dovesse tenerne di più, e che non abbia pensato di derogare la legge con una contrattazione anche semplicemente aziendale, incorrerà in una semplice multa (primo modo di far cassa), senza incorrere in alcun obbligo di trasformare i contratti a tempo in indeterminati.
Se poi il contratto dovesse a un certo punto trasformarsi in indeterminato, sarebbe comunque “a tutele crescenti” per tutti, al di là di quanto tempo si siede alla stessa scrivania. Il tutto dovrebbe durare 3 anni con un massimo di 5 rinnovi all’interno dei 36 mesi previsti dopo i quali si può reiterare il contratto una sola volta alla direzione territoriale del lavoro, senza che il sindacato ci metta bocca. Intanto gli ultimi dati disponibili (il rapporto del terzo trimestre del 2014 sulle dinamiche del mercato) mostrano un’Italia in cui il 70% delle assunzioni sono a tempo determinato.
Tutto si gioca in ogni caso su cosa sia più o meno conveniente per le imprese. I 500mila co.co.pro. in essere spariranno dal 2016 – con le opportune eccezioni di call center e similari - mentre secondo le dichiarazioni del premier i tre anni di sgravi contributivi e la certezza sui costi di una eventuale rottura del rapporto renderanno il contratto a tutele crescenti il più applicato in tutto il bel Paese. La verità è che, aspettando che i primi dati su come siano veramente andate le cose arrivino, nessuna azienda assumerà se non crede di averne bisogno. Non si parla però di reale necessità legata alla produzione, bensì di obbligo: un imprenditore che si è abituato a sottopagare i lavoratori a qualsiasi livello non ha alcun motivo di spendere di più per avere lo stesso risultato, tanto più se è riuscito a far passare in azienda il concetto di crisi economica come motivo di solidarietà con l’azienda e pluslavoro gratuito. Così può darsi che alcuni contratti a tempo determinato diventino a tutele crescenti anche grazie alla sicurezza che per “motivi economici” si può licenziare senza problemi, ma altri svaniranno nel nulla e altri ancora si trasformeranno in partite iva. A questo proposito, c’è da scommettere che il governo preveda un ulteriore aumento di queste forme capestro di collaborazione proprio per effetto della scomparsa dei contratti a tempo determinato: si tratta di uno dei modi più semplici e meno costosi per tenere tra le proprie fila i lavoratori, e continuerà ad esserlo anche con l’entrata in vigore del Jobs Act in assenza di una norma che ne vieti l’utilizzo che se ne fa ormai abitualmente. L’aumento delle tasse previste per tali forme di “lavoro autonomo” e la quasi sparizione del regime dei minimi, che entreranno in vigore nel 2016 proprio assieme alla scomparsa dei contratti a termine, la dice lunga su quest’altro nuovo modo di far cassa.
Nel frattempo bisognerebbe interrogarsi, piuttosto che sugli interessi privati di imprese o lavoratori, su quelli del Paese che le politiche le pensa e le attua. Il posto “fisso” crea stabilità sociale, consumo – con buona pace delle lobby economiche, e anche, perché no, una sorta di incoscienza sociale: difficile insomma che con la pancia piena e in assenza di una formazione all’altezza di questo nome ci si interroghi sulla giustizia del sistema in cui si è inseriti. Non a caso il “panem” era nell’antica Roma al primo posto tra le preoccupazioni di chi voleva assicurarsi il ben volere del popolo. Oggi la macchina dell’ipnosi generale sopperisce un po’ a questa mancanza ma non sia mai che nel lungo periodo, come da questa parte della barricata non possiamo che augurarci, tutto questo buttar all’aria le sicurezze economiche della gente comune non gli si ritorca contro.
Sara Santolin

mercoledì 18 febbraio 2015

IL CONDOTTO NERO CHE PORTA ALLA LIBIA

da ilribelle.com:

Ci sono delle regole che non ammettono eccezioni. “Segui il denaro” per capire le ragioni di certe politiche, che fa da corollario a un più specifico “segui il petrolio”, nel caso specifico odierno.
Senza voler essere esaustivi sulle problematiche della Libia, a proposito di “guerre utili”, seguire il filo nero dell’idrocarburo porta a leggere quello che è stato definito da più parti il “caos” libico come la creazione di una pagina bianca sulla quale poter scrivere un nuovo capitolo dell’imperialismo occidentale. Dopo i titoli d’effetto, i nomi in inglese dati ai decreti, l’uso di twitter e l’ostentazione di una cultura del web che si stenta a credere abbia davvero, Matteo Renzi cerca di imitare l’arte dell’occupazione “che non si vede” dagli Stati Uniti d’America. Tragedie in mare e barconi di immigrati clandestini, per quanto possano dare fastidio o al contrario provocare moti di solidarietà, non sono una ragione sufficiente a mobilitare mezzi e uomini (e soldi) verso la scatola di sabbia di Tripoli. Ma il petrolio, quello sì.
«State tutti sottovalutando la crisi di uno Stato che è ai confini della Ue e che non è solo un problema di migrazione clandestina, ma anche un terreno di conquista per la minaccia del terrorismo dell’Isis» – ha detto il nostro premier al Consiglio Europeo. «Non è una questione di sicurezza nazionale italiana, ma dell’intera Unione Europea». La soluzione? L’invio di forze di peace keeping italiane (si scrive "peace keeping" ma si legge "invasione di uomini e mezzi armati" certo non inviati al fine di distribuire caramelle ai bambini). D’altra parte già all’indomani dell’attentato di Parigi si era cominciato a preparare il terreno all’avvio di una guerra. E Hollande ha fatto in qualche modo eco a Renzi quando ha fatto uscire un comunicato nel quale dichiara – in solidarietà con al-Sisi, il Presidente egiziano che ha messo in atto una serie di ritorsioni belliche contro la Libia per l’uccisione spettacolo di 21 egiziani sulle spiagge libiche – quanto sia importante che “la comunità internazionale decida nuove misure”. Tutto dice: “guerra”.
E cosa c’entra l’Egitto? Rinsaldare il fronte interno, arrivare per primi sul territorio libico diviso e instabile forti dell'appoggio dell'alleato russo, proteggere e magari controllare il filo nero libico, appoggiare il governo "legittimo" contro i ribelli sono solo i motivi più evidenti. Fare la guerra in Libia per l'Egitto era solo questione di tempo, come dovrebbe esserlo per l'Italia che ha interessi molto simili a quelli egiziani e che ha ritirato la propria ambasciata forse proprio in vista dell'avvio di forze militari. L'Italia comunque non si muoverà da sola, presumibilmente per motivi soprattutto politici e per non irritare Obama: non l'ha fatto a Natale quando, incendiati dai ribelli i depositi petroliferi a Sidra, Tripoli ne invocò l'aiuto - e alla fine si rivolse a una società statunitense che ne guadagnò un contratto da sei milioni di dollari - tanto meno lo farà adesso.
L’Unione Europea tutta dipende in larga misura dal petrolio libico: l’85% del petrolio proveniente dalla Libia è venduto a Stati europei, prima fra tutti l'Italia, seguita da Francia e Germania. Certo ingaggiare una "guerra" è dispendioso, ma chissà che la Nato (leggi: gli USA) non voglia darci una mano: dal punto di vista statunitense la Libia è in posizione strategica per il controllo dell’Africa che il Pentagono esercita con AFRICOM, il commando nato nel 2008 a questo scopo  (l'unico Paese africano a non essere sotto la sua influenza è proprio l'Egitto). Terrorismo e petrolio sono i suoi pensieri fissi, filtrati per l'opinione pubblica con l'esportazione della democrazia, la creazione di forze di sicurezza da mantenere in loco e l'aiuto umanitario. Fin qui, tutto in regola. Se qualcosa c'è di "strano" è l'ufficiale silenzio della Cina - almeno per ora e supponiamo comunque non a lungo - che pure succhia petrolio dal deserto libico.
Sara Santolini

mercoledì 11 febbraio 2015

OGM, LA SCHIAVITU' DEL SEME

da La Voce del Ribelle:

Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso di Fidenato, un imprenditore agricolo del Friuli, famoso per la sua guerra a favore degli ogm. Egli si rivolgerà alla Corte Europea, nel frattempo però, visto che, come si legge sulla sentenza, i Ministeri della Salute, dell’Agricoltura e dell’Ambiente hanno «correttamente ritenuto che il mantenimento della coltura del mais Mon 810 senza adeguate misure di gestione non tutelasse a sufficienza l’ambiente e la biodiversità, così da imporre l’adozione della misura di emergenza», non potrà proseguire nel suo business. Intanto la Monsanto vede calare la vendita di sementi ogm e si dà alla tecnologia rilasciando una app gratuita per la condivisione di dati climatici tra agricoltori – dati che, gratuitamente, la Monsanto sfrutta per elaborare ogm appetibili sul mercato contadino. Brutta storia.
Non entriamo qui nella polemica sulla salubrità o meno degli ogm (da segnarsi i nomi di Monsanto, Novartis, Dupont), dei quali ancora non si conoscono gli effetti a lungo termine del consumo umano. Dubbi già li sollevano alcuni studi per verificare il possibile nesso fra modificazioni genetiche del frumento e celiachia, derivante dalla differenza della composizione degli amminoacidi della gliadina del frumento geneticamente modificato rispetto a quello naturale. La questione è stata anche oggetto di interrogazioni al Consiglio d’Europa mentre negli Stati Uniti l’anno scorso la U.S. Environmental Protection Agency ha aumentato il limite massimo di glifosato residuo negli alimenti, il diserbante più venduto al mondo, perché le colture ogm, in barba a tutte le previsioni di un minor utilizzo di pesticida per questo tipo di organismi venduti come più forti contro malattie e parassiti, ne hanno un gran bisogno. Lasciamo anche stare gli studi che collegano l’uso di pesticidi e malattie più o meno gravi, dall’acidità di stomaco al tumore. A livello ambientale quello che è certo oltre ogni dubbio è che l’immissione di sementi modificate mina la biodiversità – la cosa più semplice e importante che madre natura ci ha donato contro la carestia. Inoltre la proprietà intellettuale degli ogm è in mano a grandi multinazionali cui non interessa sconfiggere la fame nel mondo – dove c’è ancora abbastanza cibo da sfamare tutti – o migliorare le condizioni dei terreni o ancora proteggerli da malattie o mancati raccolti. Stiamo parlando di grandi imprese che legittimamente perseguono il loro tornaconto economico.
Non c’è nessuna questione etica – e dunque “facoltativa” – il problema deve essere legale. In Italia non si può vietare la coltivazione di ogm approvati dalla normativa europea. Va detto che sul territorio nazionale la cosa è molto limitata, viste le normative regionali a salvaguardia della biodiversità e della coesistenza tra coltivazioni ogm e tradizionali che rende molto difficile per un agricoltore scegliere questa via - ma attenzione: parliamo di coltivazione, non di utilizzo di ogm, come ad esempio mais e soia modificata per la produzione di mangimi per l’alimentazione degli animali di allevamento, anche in Italia.
Uno dei cavalli di battaglia di chi è a favore degli ogm è che questi aumenterebbero la produttività dei terreni, rendendo l’agricoltura più sicura a livello economico per gli agricoltori. Eppure gli ogm vengono usati soprattutto in USA, Argentina e Brasile dalle multinazionali, che controllano la maggioranza assoluta del terreno coltivabile, e che muovono così 18mld di dollari l’anno grazie alla vendita di mais e soia modificata - per lo più destinata agli allevamenti. Perché i piccoli allevatori non dovrebbero partecipare alla cuccagna? Perché diventerebbero schiavi delle multinazionali, semplici mezzadri in casa loro.
I contadini, imprenditori agricoli, allevatori italiani sono davanti a un bivio, e con loro la legislazione di questo Paese. Se l’approvvigionamento di cibo è uno dei problemi del futuro – con la Russia che pensa alla colonizzazione agraria dell’estremo Oriente siberiano e la Cina che punta agli ogm per l’alimentazione umana – lo è anche la sicurezza e la specificità alimentare. E, anche al di là di questo, non si tratta di romanticismo nostalgico rispetto alle tavole del passato – che pure fanno parte della nostra cultura - ma di semplice pragmatismo: il “Made in Italy” che si vende in tutto il mondo è fatto anche, per esempio, di cereali antichi. Quando tutto il grano, tutto il mais, tutta la soia, tutte le sementi del mondo saranno ogm, chi ci ridarà la nostra specificità agricola? Cosa fermerà l’aumento del prezzo delle sementi? Che fine farà la biodiversità e la sicurezza alimentare che ne deriva? Bisogna che anche l’imprenditore agricolo che vuole massimizzare il proprio profitto si interroghi sull’opportunità di darsi alla coltivazione di ogm, perché indietro non si torna.
Il contadino che voglia usare sementi ogm firma un contratto che lo priva di fatto della “sovranità” sul proprio terreno: non può utilizzare le proprie sementi ma deve comprarle, corredate da diserbanti e pesticidi, alla multinazionale di turno e, in caso di violazione del contratto, pagare una penale. Non solo: negli Stati Uniti già esistono ispettori che in base a segnalazioni di dubbia provenienza si aggirano nei campi per scovare quei contadini che utilizzerebbero sementi modificate senza autorizzazione. Non importa se il vento, gli uccelli o la mano umana – e di chi - abbiano messo ogm in mezzo a piante che non lo erano. In quel caso si è legati alla multinazionale di turno, da allora in poi, se si vuole continuare a produrre. Finché morte non ci separi.
Sara Santolini

mercoledì 28 gennaio 2015

"SE MI GIRA MI FACCIO ANCHE VESCOVO"

da La Voce del Ribelle:

Libby Lane, 48 anni, femmina, è vescovo. La notizia è arrivata anche da noi dove “non si ha altra Chiesa all’infuori di quella cattolica” ma comunque alla stampa italiana sembra interessante che quella Anglicana abbia inserito la possibilità per le donne, già reverende, di diventare vescovo. 
E insomma, il fatto è questo: c’è una donna vescovo a capo di Stockport, nel Regno Unito. Una di quelle cose che a guardarle così, superficialmente, sembrano una grande trovata, una pietra miliare nell’emancipazione femminile, una di quelle novità capaci di far parlare per ore gli opinionisti di turno nei talk show, a blaterare di parità di genere e di quanto inserire donne “al potere” sia giusto, sacrosanto e positivo.
Lasciando a altra sede ma tenendo a mente la questione del maschilismo insito in tutte le religioni più diffuse, che elaborate da uomini in società patriarcali non potevano essere altrimenti, una donna vescovo non è forse un passo avanti nell’affermazione del “femminile” in un mondo governato da uomini, è al contrario una conferma di quanto questo mondo sia sempre stato e sia tutt’ora “maschile”. Interessante è una filosofia, una religione, una teoria, una politica elaborata da una “mente” femminile che trovi spazio, non l’ennesima mascolina personalità che gli uomini inseriscano tra loro. Il concetto è portato alle sue estreme conseguenze, ma rende chiaro come non basti mettere a fare il vescovo, il segretario di partito o il Presidente qualcuno con scritto F sulla riga del “genere” sulla carta d’identità per poter parlare di parità. Che impronta lascia una donna che per emergere si cala in abiti maschili, abbraccia un modo di fare, uno stile e un taglio che non gli è proprio, forza se stessa per uscire dagli stereotipi o al contrario vi si cala per inerzia? E siamo scuri che questa stessa domanda non possa essere posta anche a un uomo? Non c’è alcun progresso in quelle società che non lasciano libertà di scelta, che forzano le menti incanalandole in comportamenti, parole e costumi, rendendole schiave. La questione è di certo più ampia, e comprende fenomeni quali il consumismo, l’information overload, i notiziari show e la manipolazione dell’opinione pubblica, ma per quanto riguarda la parità di genere il problema affonda le sue radici così indietro nel tempo da sembrare un assioma insito nella creazione del mondo. Eppure, così non è. Sono esistite civiltà matriarcali così come patriarcali, dei e dee, padri-padroni e madri-matrigne. L’unica cosa che il genere umano avrebbe dovuto imparare da questa storia è che uomini e donne uguali non sono e che in situazioni diverse sono in grado di assumere il ruolo di sesso forte o debole, spesso a completamento piuttosto che a discapito dell’altro. Tutta questa ricchezza, tutta questa gamma infinita di possibilità, è però schiacciata dalla necessità che ha la società di vivere di tranquilli e prevedibili stereotipi nei quali sguazzare bellamente - e trovare facilmente target pubblicitari. Chiunque voglia uscirne spesso rischia di cadere in altri modelli ugualmente scomodi, malgrado gli sforzi: da “velina” a donna in carriera - ma anche da padre di famiglia a eterno ragazzino e così via. La verità è che si è confuso l’accesso alle opportunità con l’appiattimento delle differenze.
Perché un mondo in cui siamo tutti riportabili a categorie, più o meno particolari e particolareggiate, è estremamente rassicurante - e prevedibile.
Sara Santolini

lunedì 19 gennaio 2015

TUTTO PRONTO PER IL PATRIOT ACT EUROPEO?

da La Voce del Ribelle:

Paura. Una parola che si insinua nella mente come un germe inarrestabile. Soprattutto quando indotta. Come un tumore che si annida nelle parti più nascoste del corpo, viene alimentato da noi stessi, inconsapevolmente, dalla nostra voglia di chiarezza che porta a credere alla spiegazione più semplice. E poi, d'un tratto, dispiega i suoi effetti. Così è accaduto negli Stati Uniti all'indomani del 11 settembre 2001, così ci sono i primi segni possa accadere anche nella vecchia e "saggia" Europa. 
La pagina più nera in tema di libertà negli USA è stata scritta non con il crollo delle torri gemelle, bensì con l'entrata in vigore del Patriot Act. George W. Bush ci mise poco più di un mese a firmarlo, all'inizio facendolo passare come una legge transitoria e d'emergenza - e di "emergenze" senza fine in Italia abbiamo grande esperienza - e poi di volta in volta prorogata fino a oggi. Vennero rafforzati i poteri e le libertà d'azione di FBI, CIA e NSA, rimosse le restrizioni sul controllo delle conversazioni telefoniche, delle chat, delle e-mail, delle cartelle cliniche, delle transazioni bancarie, sulla segretezza dei colloqui tra detenuti e legali. Addirittura si arrivò a dichiarare legittime le perquisizioni effettuate senza avviso e presenza del diretto interessato e consentire arresti di non meglio definiti "combattenti" sulla base di semplici sospetti. Una legge dichiarata, nella parte in cui prevedeva tabulati telefonici e Internet di sospettati senza mandato della magistratura e notifica agli indagati, incostituzionale - e anche in questo in Italia siamo dei veterani. Il tutto utilizzando una definizione di "atti terroristici" un tantino troppo di libera interpretazione: "atti che appaiono tesi ad influenzare la politica di un governo con l'intimidazione o la coercizione".
Adesso, all'indomani dell'attentato al Charlie Hebdo, si invoca anche in Europa una legge che dia poteri tali agli Stati da far sentire al sicuro i cittadini. Una specie di Patriot Act nostrano, che "almeno" cancelli l'accordo di Schengen.
A questo punto bisogna fare un passo indietro. L'accordo, datato 1985, coinvolge a oggi 26 Stati: Grecia, Italia, Malta, Portogallo, Spagna, Francia, Svizzera, Liechtenstein, Lussemburgo, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Slovenia, Ungheria, Austria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia, Germania, Lituania, Lettonia, Estonia, Finlandia, Svezia, Norvegia e Islanda. L'accordo prevede che i confini siano liberamente attraversabili dai cittadini dei Paesi aderenti. Tale norma, e soprattutto il suo allargamento, ha fatto molto parlare. L'ultima volta che è salito all'onore delle cronache è stato quando con l'entrata di Polonia, Romania e Bulgaria (questi ultimi due al momento aderenti ma non ancora membri a tutti gli effetti) si è temuta una immigrazione in massa di cittadini dell'Est che, attratti dal luccichio dei Paesi più ricchi, sarebbero potuti venire a cercare occupazione "rovinando" il mercato del lavoro europeo - o peggio ancora pretendendo paghe all'altezza del loro nuovo Paese ospitante. Che il timore sia proprio questo lo dimostra il continuo rimandare la data dell'effettivo calo delle frontiere rumene e bulgare soprattutto per l'opposizione tedesca. Forse non è un caso che proprio Romania e Bulgaria abbiano il triste primato del più basso costo del lavoro in tutta Europa: tutto sommato è conveniente che rimangano a casa loro e che siano le aziende a delocalizzare, sfruttando la libertà di movimento di capitali a discapito di quella delle persone, questo il ragionamento.
In quest'ottica, forse non è un caso nemmeno che a invocare un cambio di Schengen - per carità, "solo" per proteggerci dal terrorismo - siano quei Paesi che in questi anni hanno visto una forte immigrazione di lavoratori dalle periferie d'Europa, in testa Inghilterra, Francia, Germania (nonostante le ultime "morbide" dichiarazioni in proposito della Merkel). E allo stesso tempo non è un caso che invece l'Italia si sia subito schierata con la libertà di circolazione, per non ritrovarsi tutti gli immigrati che usano il Bel Paese solo come ponte verso il Nord d'Europa rispediti al confine soprattutto ora che il lavoro scarseggia in Italia anche per loro.
La macchina in ogni caso si è messa in moto. Nelle stanze dei bottoni entro fine mese si incontreranno i ministri degli Esteri e i ministri degli Interni degli Stati membri. Temi caldi saranno le regole di Schengen, la condivisione di informazioni, la circolazione di armi, il controllo di Internet e l'istituzione di una banca dati dei passeggeri aerei.
Chissà che dopo aver sfilato per le vie di Parigi in nome di una libertà di espressione che non gli appartiene più, la folla non sfili a favore dell'annientamento delle libertà civili. Per pura, semplice, inoculata e terroristica paura.
Sara Santolini

lunedì 12 gennaio 2015

AVANTI, MARCH! IL MEGA SELFIE DI PARIGI

da La Voce del Ribelle:

Nel pomeriggio di ieri si è svolta la maxi manifestazione che ha riempito le vie di Parigi e alla quale ha partecipato oltre un milione di persone, che secondo alcune stime sarebbero state addirittura il triplo. Tra loro anche Benjamin Netanyahu, quel campione della libertà che di Palestinesi sulla coscienza ne ha ben oltre la manciata di uomini morti in Francia nel massacro dell'8 gennaio e che si affianca oggi ai Capi di Stato occidentali, anche loro non proprio innocenti verginelle. Tanto per mettere in chiaro "da che parte sta", il primo ministro israeliano.
Sulle strade si è radunata tanta, tanta gente comune. Già sabato i francesi erano scesi in piazza. A Tolosa in 80.000, a Nantes in 30.000, a Orleans in 22.000, a Nizza in 23.000. Numeri da far quasi impallidire quella della Rivoluzione Francese di fine '700, una folla che si muove in nome di quei valori che crede di proteggere e che invece non le appartengono più. Quando venivano venduti i giornali agli imprenditori e ai banchieri, si riduceva l'informazione a uno show, e poi, quando si tagliavano le risorse per la scuola e la sanità, si riducevano gli stipendi, si creava disoccupazione e contratti capestro, venivano (e vengono) ammazzati i figli e i loro padri con gli scarti del nostro modello di sviluppo, quando è stata venduta la nostra sovranità al migliore offerente, privandoci di quella libertà che solo l'informazione, la cultura, la salute, il pane e i diritti politici possono garantire, tutta questa massa di persone dov'era?
La risposta più semplice è che fosse schierata, sì, ma davanti alla tv - intendendo con questa tutto quel sistema di mezzi di comunicazione mainstream che hanno privato l'Occidente di una coscienza. Perché, se ce ne fosse, non passerebbe sotto silenzio in questi cortei, tanto per fare l'esempio più attuale, la storia della bimba kamikaze, due parole che solo a metterle insieme dovrebbero venire i brividi. Tanto meno l'opera di manipolazione delle emozioni, umane e comprensibili, dovute alle immagini del commando - sparate ovunque dal web alle tv, al fatto che si trattava di civili, per quanto antipatici potessero essere per l'Islam, gente che di per sé non aveva torto un capello a nessuno e che, parafrasando Massimo Fini, aveva dunque anche il diritto di "odiare chi gli pare".
I motivi e i mandanti dell'attentato a Charlie Hebdo, per quanto vogliano farci credere non sia così, devono ancora essere palesati. Un commando che sbaglia indirizzo e di cui un membro "perde" una carta d'identità è una roba che a inventarsela caccerebbero a calci qualsiasi sceneggiatore. Molti dunque rimangono i dubbi anche sugli esecutori materiali: chi sono, da dove vengono, se si tratti di semplici pedine, convinte di lavorare per un fine "più alto", e invece manipolate e usate per provocare l'opinione pubblica di un Occidente che non è in grado di ragionare con la propria testa.
In quel caso, la tragedia sarebbe ancora maggiore: saremmo tutti i deceduti di "Charlie Hebdo", musulmani e cristiani, civili e militari, uccisi e carnefici, vittime inconsapevoli della nostra stessa incomprensione del mondo. Dopo la grande crisi del 1930 e la depressione che ne seguì fu l'ingresso nella Seconda Guerra Mondiale a portare fuori dal pantano gli USA. A dirlo, o a ribadirlo, è stato il premio Nobel per l'economia Douglass North, secondo cui l'aumento del PIL è direttamente proporzionale all'aumento della spesa bellica. Per non parlare di quanto ha fruttato agli interessi produttivi statunitensi la ricostruzione della vecchia Europa. A quel conflitto ne seguirono altri: Corea, Vietnam, Panama, Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia.
Ora l'opinione pubblica è stanca ma «la guerra – come sottoscritto dall’economista statunitense Tyler Cowen - porta con sé un’urgenza a cui i governi altrimenti non riescono ad appellarsi». Nel 2013 la spesa è calata, a causa di austerity e ritiro degli USA dall'Afghanistan. Però, come si legge sul sito del Sipri, un istituto internazionale impegnato in ricerche su conflitto, armamenti, loro controllo e disarmo, «la spesa militare mondiale del 2013 è stata di 1.747 miliardi di dollari, equivalenti al 2,4% del prodotto interno lordo mondiale o a 248 dollari per ogni persona al mondo oggi». E, ancora, «il volume dei trasferimenti internazionali di armamenti convenzionali maggiori è aumentato del 14% nei quinquenni 2004-2008 e 2009-2013; nel 2009 Stati Uniti, Russia, Germania, Cina e Francia sono stati responsabili per il 74% del volume delle esportazioni e, con poche eccezioni, Stati Uniti ed Europa hanno dominato la classifica dei venditori negli ultimi vent’anni, anche se tra il 2009 e il 2013 la Cina si è collocata tra i principali fornitori occupando il quarto posto».
Una guerra, diciamoci la verità, potrebbe forse essere una risposta possibile alla crisi economica, anche in Europa. Di sicuro sposterebbe l'attenzione dei cittadini: di quelli greci che vogliono uscire dall'Euro e di tutti gli altri sull'orlo della rivolta civile. In Siria si combatte dal 2011 e i morti già 200mila. Gli americani già ci sono. Gli europei potrebbero approdare tra poco, quando la ragionevolezza lascerà definitivamente spazio alla paura.
Eppure, la risposta a tutto questo sarebbe semplice. Era scritta sul Partenone, simbolo della civiltà greca antica, quella che ha creato le basi culturali e politiche della vecchia Europa, già a giugno del 2011, e adesso assume un significato tutto "nuovo": People of Europe, rise up.
Sara Santolini