martedì 24 febbraio 2015

JOBS ACT, COME RENDERE (ANCORA PIU') INSTABILE UN PAESE

da La Voce del Ribelle:

Fare cassa. Tutto sommato è questa forse l’unica reale conseguenza del Jobs Act, una legge che si districa in milioni di diverse interpretazioni e paradigmi. Una politica che non vede però al di là del proprio naso e che proprio per questo rischia di essere controproducente per l’intero sistema.
Nelle aziende fino a 5 dipendenti si possono tenere sempre dipendenti a tempo determinato, per gli altri il 20% dei subordinati potrà rimanere a termine: parliamo di 3 persone nelle aziende da 15 dipendenti. L’impresa che dovesse tenerne di più, e che non abbia pensato di derogare la legge con una contrattazione anche semplicemente aziendale, incorrerà in una semplice multa (primo modo di far cassa), senza incorrere in alcun obbligo di trasformare i contratti a tempo in indeterminati.
Se poi il contratto dovesse a un certo punto trasformarsi in indeterminato, sarebbe comunque “a tutele crescenti” per tutti, al di là di quanto tempo si siede alla stessa scrivania. Il tutto dovrebbe durare 3 anni con un massimo di 5 rinnovi all’interno dei 36 mesi previsti dopo i quali si può reiterare il contratto una sola volta alla direzione territoriale del lavoro, senza che il sindacato ci metta bocca. Intanto gli ultimi dati disponibili (il rapporto del terzo trimestre del 2014 sulle dinamiche del mercato) mostrano un’Italia in cui il 70% delle assunzioni sono a tempo determinato.
Tutto si gioca in ogni caso su cosa sia più o meno conveniente per le imprese. I 500mila co.co.pro. in essere spariranno dal 2016 – con le opportune eccezioni di call center e similari - mentre secondo le dichiarazioni del premier i tre anni di sgravi contributivi e la certezza sui costi di una eventuale rottura del rapporto renderanno il contratto a tutele crescenti il più applicato in tutto il bel Paese. La verità è che, aspettando che i primi dati su come siano veramente andate le cose arrivino, nessuna azienda assumerà se non crede di averne bisogno. Non si parla però di reale necessità legata alla produzione, bensì di obbligo: un imprenditore che si è abituato a sottopagare i lavoratori a qualsiasi livello non ha alcun motivo di spendere di più per avere lo stesso risultato, tanto più se è riuscito a far passare in azienda il concetto di crisi economica come motivo di solidarietà con l’azienda e pluslavoro gratuito. Così può darsi che alcuni contratti a tempo determinato diventino a tutele crescenti anche grazie alla sicurezza che per “motivi economici” si può licenziare senza problemi, ma altri svaniranno nel nulla e altri ancora si trasformeranno in partite iva. A questo proposito, c’è da scommettere che il governo preveda un ulteriore aumento di queste forme capestro di collaborazione proprio per effetto della scomparsa dei contratti a tempo determinato: si tratta di uno dei modi più semplici e meno costosi per tenere tra le proprie fila i lavoratori, e continuerà ad esserlo anche con l’entrata in vigore del Jobs Act in assenza di una norma che ne vieti l’utilizzo che se ne fa ormai abitualmente. L’aumento delle tasse previste per tali forme di “lavoro autonomo” e la quasi sparizione del regime dei minimi, che entreranno in vigore nel 2016 proprio assieme alla scomparsa dei contratti a termine, la dice lunga su quest’altro nuovo modo di far cassa.
Nel frattempo bisognerebbe interrogarsi, piuttosto che sugli interessi privati di imprese o lavoratori, su quelli del Paese che le politiche le pensa e le attua. Il posto “fisso” crea stabilità sociale, consumo – con buona pace delle lobby economiche, e anche, perché no, una sorta di incoscienza sociale: difficile insomma che con la pancia piena e in assenza di una formazione all’altezza di questo nome ci si interroghi sulla giustizia del sistema in cui si è inseriti. Non a caso il “panem” era nell’antica Roma al primo posto tra le preoccupazioni di chi voleva assicurarsi il ben volere del popolo. Oggi la macchina dell’ipnosi generale sopperisce un po’ a questa mancanza ma non sia mai che nel lungo periodo, come da questa parte della barricata non possiamo che augurarci, tutto questo buttar all’aria le sicurezze economiche della gente comune non gli si ritorca contro.
Sara Santolin

mercoledì 18 febbraio 2015

IL CONDOTTO NERO CHE PORTA ALLA LIBIA

da ilribelle.com:

Ci sono delle regole che non ammettono eccezioni. “Segui il denaro” per capire le ragioni di certe politiche, che fa da corollario a un più specifico “segui il petrolio”, nel caso specifico odierno.
Senza voler essere esaustivi sulle problematiche della Libia, a proposito di “guerre utili”, seguire il filo nero dell’idrocarburo porta a leggere quello che è stato definito da più parti il “caos” libico come la creazione di una pagina bianca sulla quale poter scrivere un nuovo capitolo dell’imperialismo occidentale. Dopo i titoli d’effetto, i nomi in inglese dati ai decreti, l’uso di twitter e l’ostentazione di una cultura del web che si stenta a credere abbia davvero, Matteo Renzi cerca di imitare l’arte dell’occupazione “che non si vede” dagli Stati Uniti d’America. Tragedie in mare e barconi di immigrati clandestini, per quanto possano dare fastidio o al contrario provocare moti di solidarietà, non sono una ragione sufficiente a mobilitare mezzi e uomini (e soldi) verso la scatola di sabbia di Tripoli. Ma il petrolio, quello sì.
«State tutti sottovalutando la crisi di uno Stato che è ai confini della Ue e che non è solo un problema di migrazione clandestina, ma anche un terreno di conquista per la minaccia del terrorismo dell’Isis» – ha detto il nostro premier al Consiglio Europeo. «Non è una questione di sicurezza nazionale italiana, ma dell’intera Unione Europea». La soluzione? L’invio di forze di peace keeping italiane (si scrive "peace keeping" ma si legge "invasione di uomini e mezzi armati" certo non inviati al fine di distribuire caramelle ai bambini). D’altra parte già all’indomani dell’attentato di Parigi si era cominciato a preparare il terreno all’avvio di una guerra. E Hollande ha fatto in qualche modo eco a Renzi quando ha fatto uscire un comunicato nel quale dichiara – in solidarietà con al-Sisi, il Presidente egiziano che ha messo in atto una serie di ritorsioni belliche contro la Libia per l’uccisione spettacolo di 21 egiziani sulle spiagge libiche – quanto sia importante che “la comunità internazionale decida nuove misure”. Tutto dice: “guerra”.
E cosa c’entra l’Egitto? Rinsaldare il fronte interno, arrivare per primi sul territorio libico diviso e instabile forti dell'appoggio dell'alleato russo, proteggere e magari controllare il filo nero libico, appoggiare il governo "legittimo" contro i ribelli sono solo i motivi più evidenti. Fare la guerra in Libia per l'Egitto era solo questione di tempo, come dovrebbe esserlo per l'Italia che ha interessi molto simili a quelli egiziani e che ha ritirato la propria ambasciata forse proprio in vista dell'avvio di forze militari. L'Italia comunque non si muoverà da sola, presumibilmente per motivi soprattutto politici e per non irritare Obama: non l'ha fatto a Natale quando, incendiati dai ribelli i depositi petroliferi a Sidra, Tripoli ne invocò l'aiuto - e alla fine si rivolse a una società statunitense che ne guadagnò un contratto da sei milioni di dollari - tanto meno lo farà adesso.
L’Unione Europea tutta dipende in larga misura dal petrolio libico: l’85% del petrolio proveniente dalla Libia è venduto a Stati europei, prima fra tutti l'Italia, seguita da Francia e Germania. Certo ingaggiare una "guerra" è dispendioso, ma chissà che la Nato (leggi: gli USA) non voglia darci una mano: dal punto di vista statunitense la Libia è in posizione strategica per il controllo dell’Africa che il Pentagono esercita con AFRICOM, il commando nato nel 2008 a questo scopo  (l'unico Paese africano a non essere sotto la sua influenza è proprio l'Egitto). Terrorismo e petrolio sono i suoi pensieri fissi, filtrati per l'opinione pubblica con l'esportazione della democrazia, la creazione di forze di sicurezza da mantenere in loco e l'aiuto umanitario. Fin qui, tutto in regola. Se qualcosa c'è di "strano" è l'ufficiale silenzio della Cina - almeno per ora e supponiamo comunque non a lungo - che pure succhia petrolio dal deserto libico.
Sara Santolini

mercoledì 11 febbraio 2015

OGM, LA SCHIAVITU' DEL SEME

da La Voce del Ribelle:

Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso di Fidenato, un imprenditore agricolo del Friuli, famoso per la sua guerra a favore degli ogm. Egli si rivolgerà alla Corte Europea, nel frattempo però, visto che, come si legge sulla sentenza, i Ministeri della Salute, dell’Agricoltura e dell’Ambiente hanno «correttamente ritenuto che il mantenimento della coltura del mais Mon 810 senza adeguate misure di gestione non tutelasse a sufficienza l’ambiente e la biodiversità, così da imporre l’adozione della misura di emergenza», non potrà proseguire nel suo business. Intanto la Monsanto vede calare la vendita di sementi ogm e si dà alla tecnologia rilasciando una app gratuita per la condivisione di dati climatici tra agricoltori – dati che, gratuitamente, la Monsanto sfrutta per elaborare ogm appetibili sul mercato contadino. Brutta storia.
Non entriamo qui nella polemica sulla salubrità o meno degli ogm (da segnarsi i nomi di Monsanto, Novartis, Dupont), dei quali ancora non si conoscono gli effetti a lungo termine del consumo umano. Dubbi già li sollevano alcuni studi per verificare il possibile nesso fra modificazioni genetiche del frumento e celiachia, derivante dalla differenza della composizione degli amminoacidi della gliadina del frumento geneticamente modificato rispetto a quello naturale. La questione è stata anche oggetto di interrogazioni al Consiglio d’Europa mentre negli Stati Uniti l’anno scorso la U.S. Environmental Protection Agency ha aumentato il limite massimo di glifosato residuo negli alimenti, il diserbante più venduto al mondo, perché le colture ogm, in barba a tutte le previsioni di un minor utilizzo di pesticida per questo tipo di organismi venduti come più forti contro malattie e parassiti, ne hanno un gran bisogno. Lasciamo anche stare gli studi che collegano l’uso di pesticidi e malattie più o meno gravi, dall’acidità di stomaco al tumore. A livello ambientale quello che è certo oltre ogni dubbio è che l’immissione di sementi modificate mina la biodiversità – la cosa più semplice e importante che madre natura ci ha donato contro la carestia. Inoltre la proprietà intellettuale degli ogm è in mano a grandi multinazionali cui non interessa sconfiggere la fame nel mondo – dove c’è ancora abbastanza cibo da sfamare tutti – o migliorare le condizioni dei terreni o ancora proteggerli da malattie o mancati raccolti. Stiamo parlando di grandi imprese che legittimamente perseguono il loro tornaconto economico.
Non c’è nessuna questione etica – e dunque “facoltativa” – il problema deve essere legale. In Italia non si può vietare la coltivazione di ogm approvati dalla normativa europea. Va detto che sul territorio nazionale la cosa è molto limitata, viste le normative regionali a salvaguardia della biodiversità e della coesistenza tra coltivazioni ogm e tradizionali che rende molto difficile per un agricoltore scegliere questa via - ma attenzione: parliamo di coltivazione, non di utilizzo di ogm, come ad esempio mais e soia modificata per la produzione di mangimi per l’alimentazione degli animali di allevamento, anche in Italia.
Uno dei cavalli di battaglia di chi è a favore degli ogm è che questi aumenterebbero la produttività dei terreni, rendendo l’agricoltura più sicura a livello economico per gli agricoltori. Eppure gli ogm vengono usati soprattutto in USA, Argentina e Brasile dalle multinazionali, che controllano la maggioranza assoluta del terreno coltivabile, e che muovono così 18mld di dollari l’anno grazie alla vendita di mais e soia modificata - per lo più destinata agli allevamenti. Perché i piccoli allevatori non dovrebbero partecipare alla cuccagna? Perché diventerebbero schiavi delle multinazionali, semplici mezzadri in casa loro.
I contadini, imprenditori agricoli, allevatori italiani sono davanti a un bivio, e con loro la legislazione di questo Paese. Se l’approvvigionamento di cibo è uno dei problemi del futuro – con la Russia che pensa alla colonizzazione agraria dell’estremo Oriente siberiano e la Cina che punta agli ogm per l’alimentazione umana – lo è anche la sicurezza e la specificità alimentare. E, anche al di là di questo, non si tratta di romanticismo nostalgico rispetto alle tavole del passato – che pure fanno parte della nostra cultura - ma di semplice pragmatismo: il “Made in Italy” che si vende in tutto il mondo è fatto anche, per esempio, di cereali antichi. Quando tutto il grano, tutto il mais, tutta la soia, tutte le sementi del mondo saranno ogm, chi ci ridarà la nostra specificità agricola? Cosa fermerà l’aumento del prezzo delle sementi? Che fine farà la biodiversità e la sicurezza alimentare che ne deriva? Bisogna che anche l’imprenditore agricolo che vuole massimizzare il proprio profitto si interroghi sull’opportunità di darsi alla coltivazione di ogm, perché indietro non si torna.
Il contadino che voglia usare sementi ogm firma un contratto che lo priva di fatto della “sovranità” sul proprio terreno: non può utilizzare le proprie sementi ma deve comprarle, corredate da diserbanti e pesticidi, alla multinazionale di turno e, in caso di violazione del contratto, pagare una penale. Non solo: negli Stati Uniti già esistono ispettori che in base a segnalazioni di dubbia provenienza si aggirano nei campi per scovare quei contadini che utilizzerebbero sementi modificate senza autorizzazione. Non importa se il vento, gli uccelli o la mano umana – e di chi - abbiano messo ogm in mezzo a piante che non lo erano. In quel caso si è legati alla multinazionale di turno, da allora in poi, se si vuole continuare a produrre. Finché morte non ci separi.
Sara Santolini