mercoledì 29 settembre 2010

Il grande giorno dei voltagabbana

Completata la “campagna acquisti”, Berlusconi chiede la fiducia 
Venduti? Non sia mai. Tutt’al più ondivaghi. Uomini messi a dura prova dal perenne mutare delle vicende politiche e perciò indotti – loro malgrado, si capisce – a continui e sofferti ripensamenti. Certo: sono stati eletti in un partito e all’interno di uno schieramento, ma come tutti sanno qui in Italia non sussiste il cosiddetto “vincolo di mandato” e perciò, nel supremo interesse della libertà di pensiero, e quand’anche di coscienza, una volta eletto il parlamentare ha facoltà di collocarsi dove ritiene più opportuno. Dal primo giorno della legislatura fino all’ultimo. 
Da quell’attento osservatore che è, egli si informa, analizza, soppesa. Con tutta l’attenzione necessaria. Se ha dei dubbi non esita: si consulta con altri che lo possono aiutare a formarsi un giudizio. Per esempio, e per restare alle vicende di quest’ultimo periodo, si ritaglia un momento libero tra i suoi molti impegni e se ne va a Palazzo Grazioli per farsi una chiacchierata con Berlusconi. Oppure, più modestamente ma non meno utilmente, con qualcuno del suo entourage. Come si dice, sapere è potere. È importante, è essenziale, conoscere con esattezza la situazione, prima di tirare le somme.  Un bravo politico lo sa, forse meglio di chiunque altro. Ma la cautela è una cosa. L’inazione un’altra. La cautela è un merito. L’inazione una colpa. Alla fine di questo lungo cogitare, che richiede uno sforzo non indifferente e che proprio per questo gli fa così onore, egli non si sottrae all’indispensabile epilogo di una decisione. E se proprio si convince a cambiare di posto, transitando dall’opposizione alla maggioranza, o viceversa, non si lascia inibire dalle volgari accuse che taluni gli muovono: io un mercenario? Io un traditore? Giammai. Come è stato già osservato da illustri predecessori, se cambio casacca è proprio per non dover cambiare le mie idee. Anzi, i miei valori.
Il fenomeno, com’è ovvio, tende ad ampliarsi nei momenti di crisi. Il governo traballa, per un motivo o per l’altro, e l’incertezza del quadro complessivo obbliga i più sensibili a interrogarsi su ciò che sia giusto. Lo spettro delle elezioni anticipate li angustia. Mica perché temono di non essere rieletti. Figurati. Queste sono quisquilie, al cospetto degli interessi del Paese. La loro preoccupazione, che pencola pericolosamente sull’abisso dell’angoscia, è per la fase di incertezza che si aprirebbe. E che, specie in tempi difficili come gli attuali, priverebbe l’economia e la società di quella guida di cui hanno tanto bisogno. 
Pur tuttavia, essi non sono disposti a lasciarsi trascinare dalle emozioni. Vogliono pensarci ancora più a fondo. Consci della delicatezza del momento, si riservano il verdetto fino all’ultimo. In vista della votazione odierna, ad esempio, non possono ancora annunciare con certezza il loro orientamento. Con quella limpida e serena schiettezza che li accompagna, soprattutto nel loro impegno al servizio dei cittadini, lo affermano e lo ripetono: dobbiamo ascoltare il discorso di Berlusconi, prima di poter scegliere se concedergli oppure no la nostra fiducia. E anche ammettendo che egli ci abbia promesso qualcosa, nel caso in cui lo appoggiassimo, ciò non deve essere frainteso: non si tratta certo di un meschino scambio di favori. Bensì di un’attestazione di stima, da parte sua, che è la premessa ideale di un possibile incontro. 
Come ebbe a dire Mastella nel febbraio 2009, in occasione delle Europee e del suo rientro nelle file del centrodestra, «Berlusconi e Fini sono persone di grande correttezza, per me contano più i valori umani delle strategie». Un fulgido esempio, che non resterà ignorato nemmeno oggi.
Federico Zamboni

Il "Faraone" Bonanini e la solita storia. Stavolta alle Cinque Terre

domenica 26 settembre 2010

Roaming - 26 settembre 2010

Ecco i link di Roaming di oggi. Anche stavolta ho evitato il solito teatrino della politica italiana che, sostanzialmente, non cambia le cose.

Giornali e Talk show: ansa, ansa, giornaledivicenza, ilsecoloXIX, velino

Ior: ansa, ilsole24ore, sporcaitalia

Unicredit: ansa, IGN, Borsaitaliana, reuters

Intercettazioni: ansa, corrieredellasera, Repubblica

Medio Oriente: ansa, newnotizie, indies, ilgiornale,  rainews, blitzquotidiano


E, per tenere le fila:

Crisi e lavoro: ansa, ansa, ansa, ansa, ansa, ansa,

Missioni di "pace": ansa, ansa,

Nucleare e Iran: ansa, ansa,

Curdi: ansa,

Somalia: ansa,

ROM: ansa


A presto.

La Marcegaglia scopre il "rischio"

"Si corre il rischio che la disoccupazione aumenti". È il Centro Studi di Confindustria a dirlo, visto che "stima che il 2010 si chiuderà con 480 mila persone occupate in meno rispetto al 2008". E ancora "è l'ora delle riforme".
Lo riportano tutti i giornali. Ciò che non riportano con la dovuta accortezza, invece, non sono tanto gli altri dati - Pil previsto al ribasso; ripresa prevista per il 2013; sommerso oltre il 20% - quanto ciò che questo comporti.
In primo luogo l'assoluta inadeguatezza delle dichiarazioni che sentiamo da organi del genere, e dal governo, dagli ultimi tre anni in qua. In secondo luogo, e il che è ancora più importante, come una situazione del genere si collochi all'interno della attualità nel nostro Paese.
Sul primo punto inutile insistere: leggere, assecondare, riflettere e credere a dichiarazioni periodiche del genere è come farsi leggere la mano da una fattucchiera. 
Il secondo punto è invece quello più importante, e va interpretato insieme all'argomento dei debito pubblico del quale abbiamo parlato giorni addietro. Non serve una grande capacità di previsione per capire il motivo delle parole di Confindustria: le aziende sono in crisi, la situazione è grave, e servono riforme - le riforme suggerite dalla stessa Confindustria, guarda caso... - per superare la situazione.
Naturalmente, visto il pulpito dal quale viene la predica, si tratta di riforme che andranno, nel caso, a vantaggio delle aziende in primo luogo (stile Fiat?) e solo secondariamente, semmai, ai lavoratori oggetto della dichiarazione stessa. Oltre al fatto che resta da capire a quale prezzo. Per ora, il prezzo che i lavoratori stanno pagando rispetto alla situazione è quello della perdita dei loro diritti, se non del lavoro in toto.
In tempi di vacche grasse le industrie hanno elargito dividendi agli azionisti, in tempo di ristrettezze, al solito, il conto verrà pagato dai lavoratori.
È quello che sta accadendo in Germania. Proprio la Germania presa come esempio da vari personaggi, in virtù del suo notevole score nelle esportazioni. Tali risultati sono stati raggiunti soprattutto grazie a due situazioni: la riduzione salariale (con benestare dei sindacati locali) e la maggiore produttività. Si produce di più e si guadagna di meno. In altre parole, vivere diventa più difficile, e il senso stesso dell'esistenza va più verso lo schiavismo che verso la vita.
Naturalmente l'export della Germania reggerà fino a che ci saranno altri Paesi in grado di assorbirlo, ovvero di spendere per poter comperare. Oltre non potrà andare. E visto come sono messi gli altri Paesi europei non è che si possa stare tanto allegri: pensate che l'exporti tedesco vada forte in Grecia, ad esempio?
Per quanto ci riguarda, pertanto, la strada che la Marcegaglia, con ii capelli vaporosi e spettinati dai venti contrari dell'economia, indica, è quello di un forte intervento statale per modificare, in sostanza, le regole del lavoro nel nostro Paese. La direzione è chiara, e punta verso oriente. Precisamente verso la Cina, per intenderci.
Marchionne ne ha già dato ampi esempi pratici. E presto, se il governo dovesse seguire Confindustria, potremmo trovarci nella bufera di riforme che neanche a dirlo saranno lacrime e sangue per tutti. Contrattualizzati in primis: gli altri, i lavoratori a tempo, sono già carne da macello. Dove il governo è potuto intervenire direttamente in parte lo ha già fatto (dipendenti statali, istruzione, sanità, pensioni) e continuerà a farlo. Cadendo, poi arriverà l'altro governo, ci proverà, e cadrà di nuovo e così via, indefinitamente. Dove dovrà invece contrattare con le "parti sociali" proverà a fare lo stesso. E anche in questo caso non si preannuncia nulla di buono: la dimostrazione nei confronti di Bonanni di giorni addietro è una efficace sintesi e anticipazione di ciò che accadrà a breve e maggior raggio.
Unitamente a questo, ipotizzare oggi - e su quali basi ridicole lo abbiamo visto - come fa il rapporto di Confindustria, che una ripresa almeno decente la si vedrà solo dal 2013 (previsione ridicola, poggiata sul nulla ondivago delle previsioni chiaroveggenti) significa però, anche dal punto di vista della quiete pubblica, lanciare una bomba sugli italiani. In particolare modo su quanti, già in cassa integrazione, possono mettere una pietra sopra alla speranza di vedersi reintegrati in azienda alla fine del tempo massimo per i sussidi pubblici. Su quanti sperano di veder migliorare le proprie condizioni economiche a breve dopo averle viste crollare nei tre anni precedenti. Su quanti si apprestano a entrare nel mercato del lavoro, o cercano di trovare impiego già da tempo senza riuscirci. 
Facile, in una situazione del genere, immaginare la direzione che prenderanno gli italiani (sommerso ed evasione, quando praticate dai "piccoli" e non dai "grandi", sono una faccia di questa medaglia, quasi una sorta di autodifesa nei confronti di uno Stato che drena denaro e non è in grado di dare alcuna risposta né servizi). La tecnica del "si salvi chi può", se è umanamente comprensibile, non è affatto detto che rappresenti la soluzione migliore. Ma così sarà. Le aziende lo stanno già facendo, e ora tocca ai lavoratori. Un tutti contro tutti. Tra poveri. Settore per settore. Per un tozzo di pane.
Valerio Lo Monaco 

sabato 25 settembre 2010

Beccati le scorie, che ti “incentivo”




Nucleare: 52 siti per stoccare le sostanze radioattive 

Le nuove centrali atomiche sono ancora tutte da costruire, e a quanto sembra l’inizio dei lavori previsto per il 2013 dovrebbe slittare di un altro anno, ma intanto ci si dà da fare per trovare i siti in cui stoccare le scorie radioattive. La Sogin, la Società Gestione Impianti Nucleari che fa capo al Tesoro, ha individuato 52 aree che avrebbero le caratteristiche adatte alla bisogna. Dove si trovino esattamente, però, non è dato saperlo. L’elenco rimane segreto, pare per volontà dello stesso Berlusconi, e il poco che ne trapela sono le indiscrezioni (o le ipotesi) che stanno rimbalzando sui media a partire da ieri. Con beneficio d’inventario, le zone prescelte si troverebbero disseminate qua e là per la penisola – dal Monferrato alle colline emiliane, dalla Maremma al Viterbese, dal Molise alla Basilicata – escludendo invece la Sicilia e la Sardegna.
Al di là della collocazione geografica, l’aspetto più interessante, e inquietante, è un altro. Secondo il Corriere della Sera, «la scelta del deposito nazionale per le scorie non sarà imposta, e avverrà d'accordo con le Regioni, con una sorta di asta: la comunità che accetterà i depositi radioattivi sarà infatti compensata con forti incentivi economici». Detto in sintesi: corruzione di Stato. Corruzione in senso lato, ovviamente, ma pur sempre basata sul medesimo principio, per cui si usa il denaro per ottenere la “collaborazione” di chi opera in ambito pubblico. A suon di quattrini si induce qualcuno a fare ciò che altrimenti non avrebbe mai fatto. Consci che nessuno, o quasi, è entusiasta dell’idea di piazzare nel proprio territorio una massiccia quantità di materiale radioattivo, che in teoria sarà custodito con ogni cura ma all’atto pratico chissà, i governanti si preparano a far leva sull’interesse economico, particolarmente forte in tempi di crisi e, comunque, assai più pressante che in passato a causa degli obblighi di autofinanziamento degli enti locali.
Anche se non mancano le voci di protesta, al solo profilarsi dell’installazione dei centri di stoccaggio, va da sé che per i novelli apostoli del nucleare non c’è molto di cui preoccuparsi. La strategia è la stessa adottata in innumerevoli altri casi. Da un lato, prendere tempo e lasciare che l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica si attenui, o scompaia del tutto. Dall’altro, scansare il dibattito politico di più alto livello, e di portata nazionale, muovendosi nell’ambito del sottogoverno e delle trattative in loco. La faccia oscura dell’autonomia indiscriminata. Dell’autodeterminazione che precipita nell’autodistruzione, a forza di comportamenti che appaiono vantaggiosi nell’immediato e che, perciò, sorvolano sulle conseguenze di più lungo periodo. 
Cerca cerca, l’amministratore compiacente lo trovi di sicuro. Oggi è alla guida di un paesino, domani non gli dispiacerebbe passare a qualcosa di più grande. La Provincia. La Regione. Magari il Parlamento. Tutto si può fare, specie se si mantiene lo sconcio delle liste elettorali approntate dalle segreterie nazionali e calate dall’alto. Parallelamente, del resto, non si può nemmeno fare troppo affidamento sulle capacità di giudizio della popolazione. Quando le risorse scarseggiano, tanto sul versante privato impoverito dalla recessione, quanto su quello pubblico a corto di gettito proprio e di trasferimenti erariali, il desiderio di migliorare le cose per mezzo di aiuti esterni può facilmente diventare il peggiore dei consiglieri. Di qua c’è un beneficio sicuro, vuoi sotto forma di posti di lavoro, vuoi in termini di fondi da destinare ai servizi pubblici; di là c’è un rischio imprecisato, impalpabile, negato da “esperti” di gran nome, puntualmente ospitati (amplificati) dai grandi network televisivi.
Il gioco è fatto. Ottenuto l’appoggio cinico dei politici del territorio, e l’avallo ingenuo dei residenti, si può tornare sotto i riflettori e annunciare urbi et orbi che tutto quanto è andato per il meglio. La decisione è stata presa in modo trasparente e democratico. E quanto agli incentivi, beh, sono il giusto riconoscimento per chi ha accettato di farsi carico di un problema di interesse collettivo. 
Federico Zamboni

I dati (incompleti) sulla disoccupazione. Altro che 27%

Un'altra settimana densa di avvenimenti (secondo i media di massa)

da "La Voce del Ribelle" quotidiano:

giovedì 23 settembre 2010

La Casta "procede". A proprio favore

Per il bene dello Stato ci si accapiglia. Per quello della Casta, invece, tutti d'accordo. 

Basilea 3, la notizia della non notizia

Non è (solo) un gioco di parole. Anche se molti non se ne sono accorti poiché i media non ne hanno parlato più di tanto, domenica scorsa si è svolto un incontro importante tra i governatori della varie Banche Centrali. In particolare, si stanno gettando le basi per lo "storico" accordo Basilea III. Il primo e il secondo accordo - oramai tutti dovrebbero ammetterlo, anche se i guru dell'economia non lo faranno mai - sono stati un fallimento: le libertà delle Banche che hanno portato alla crisi attuale derivano infatti, in buona parte, proprio dalla fatiscenza e dalla mancanza morale ed etica di tali accordi.
Ora è il turno del terzo round. Facile riassumere quanto detto, poiché è di una pochezza disarmante (dunque, come accennato nel titolo, una "non notizia"): il punto saliente è l'abbassamento del rapporto tra capitale reale detenuto da una Banca e quello irreale delle sue attività ponderate per il rischio. Ovvero la riserva frazionaria.
Chiariamo subito, poiché la cosa è semplice (ma sconcertante). I più (ancora!) non lo sanno - oppure lo sanno ma la cosa non li indigna più di tanto - ma una Banca è tenuta per legge (...) a detenere una somma minima di denaro contante, o comunque di facile mobilità, rispetto alla somma complessiva che può utilizzare e mettere in circolazione, sotto forma di vari prodotti, tutti immateriali - occhio che questo è il punto cardine - per le proprie varie attività.
Ebbene fino a ora tale somma doveva essere pari al 2 per cento. Che significa? Esempio classico: se una Banca vendeva mutui per 100 milioni di euro, doveva averne in tasca, in modo fisico, due. Solo due. Non più di due. Su cento venduti.
In altre parole, siccome la stragrande maggioranza delle transazioni finanziarie avviene sotto forma immateriale, mediante assegni o molto più spesso trasferimenti di cifre da un conto all'altro con un semplice click di un mouse - ovvero numeri scritti, non altro che numeri - la Banca poteva "permettersi" di detenererealmente solo il 2 per cento di moneta di tali operazioni.
Facile intuire il motivo per il quale una situazione del genere può generare insolvenza immediata della Banca stessa: se solo buona parte dei suoi correntisti andassero tutti insieme agli sportelli ritirando i propri soldi in forma contante la banca fallirebbe all'istante. O farebbe una serie di operazioni, avallate dai governi, per evitare proprio tale possibilità (già oggi ci impongono quasi di utilizzare solo assegni, carte di credito, bancomat e transazioni on-line, no?).
Gli accordi di Basilea III prevedono che tale riserva sia spostata verso l'alto, e precisamente al 7 per cento in luogo del 2 per cento come avveniva fino a ora. Il tutto, a scaglioni, per una entrata a regime solo nel 2019.
Di qui la notizia vera, che in realtà per i lettori più attenti non lo è: anche con queste nuove regole, le Banche sono autorizzate, vista l'esiguità dell'aumento della riserva frazionaria, a continuare a fare né più né meno che quello che hanno sempre fatto: strozzinaggio legalizzato. Per di più con denaro che di fatto non hanno, che creano dal nulla, scrivendo mere cifre su un pezzo di carta o su un monitor di un computer. Tutto perfettamente legale.
Attraverso il meccanismo di questa leva, le Banche hanno potuto, e potranno ancora, accumulare un attivo enorme nei propri bilanci, pari a un valore molte decine di volte superiore rispetto al reale capitale che detengono.
Il tutto nel sonno costante di un mondo che vive all'ombra di questa verità, e che imperterrito continua a bersi le sciocchezze che gli vengono raccontate dai media di massa. Ivi inclusa questa di Basilea III, delle "nuove regole" che non cambiano in realtà i presupposti di base di un sistema marcio e fraudolento.
Per fare un esempio terra terra e alla portata di tutti, il caso italiano in seguito alla crisi dei mutui subprime del 2007 è emblematico: ci avevano detto, dalle nostre parti, che tale crisi non avrebbe intaccato l'Europa e l'Italia, che le nostre Banche erano più stabili eccetera. A conti fatti e aggiornati a oggi, invece, tale crisi è costata all'Italia, oltre al resto, una contrazione del Pil di cinque punti percentuali. Con quello che ne ha conseguito, ne consegue, e ne conseguirà. Ovvero un disastro.
Oggi cosa si fa? Si modificano di un poco le regole ma si mantiene la barra a dritta verso la stessa direzione. Le Banche potranno continuare a fare "carne di porco" con i prodotti finanziari, potranno continuare a vendere denaro che di fatto non hanno dietro usura e in senso generale potranno continuare ad andare nella direzione stessa che ha causato la crisi del 2007 e che causerà la prossima imminente ondata.
Brutalmente: ancora oggi, le Banche sono di fatto insolventi, ma continuano ad operare, e a succhiare sangue alla gente, come se fossero stabili. Ancora oggi possono arrogarsi il diritto di imporre regole a loro uso e protezione - provate ad andare in banca, senza preavviso, e a prelevare una somma di denaro dal vostro conto che superi un limite minimo imposto dalla banca stessa. Ancora oggi, il mondo è governato da loro, e dai loro vassalli politici e industriali.
Valerio Lo Monaco

mercoledì 22 settembre 2010

Rifiuti? Perdiamoli di vista

Noi, in Italia, abbiamo almeno una buona intenzione: la semplificazione normativa. Non che non ce ne sia bisogno - chiunque abbia avuto a che vedere con la giustizia italiana o con la burocrazia sa bene che spesso si rischia di perdersi in leggi, leggine e cavilli - ma, come capita spesso, nella politica una buona intenzione maschera un business che finisce per ritorcersi contro la gente comune, invece di facilitarle l'esistenza. Così chi aveva pensato che fosse buona la notizia che il Codice Ambientale avrebbe subito una riforma e una sorta di "semplificazione" normativa, ha dovuto subito ricredersi. Queste modifiche al Codice sembrano infatti costruite ad uso e consumo di chi la legge proprio non la vuole seguire: sembra fatta per semplificare la vita all'affare - ma anche al malaffare - dello smaltimento dei rifiuti a discapito di tutti gli altri. (...)

lunedì 20 settembre 2010

La morte del Tenente Romani scoperchia un "caso" grosso così

A corrente alternata, almeno per quanto concerne i media tradizionali, arrivano notizie poco confortanti da Iraq e Afghanistan, che sono argomenti correlati, considerando che fanno parte della medesima strategia militare che Obama ha ereditato da Bush (e con lui praticamente tutta l'Europa). Le ultime notizie in ordine di tempo parlano per il primo caso di due autobombe esplose simultaneamente nel centro di Baghdad, nel secondo caso del clima di altissima tensione alle elezioni in Afghanistan: diverse vittime in seguito ad attacchi talebani nelle zone dei seggi (morti anche alcuni scrutatori).
A queste si aggiunge la morte del tenente del nostro esercito, che di per sé, oltre alla tristezza intrinseca relativa al fatto che un ragazzo trentaseienne perde la vita per una guerra utile agli scopi Usa, dice in realtà una cosa molto più importante, anche se i media paiono (...) non accorgersene.
Il tenente Romani, infatti, faceva parte di un contingente italiano molto particolare. E sconosciuto all'opinione pubblica. Si tratta della Task Force 45, che al di là del nome straniero (in yankee style) è un vero e proprio commandos delle forze speciali italiane. Si tratta, in sostanza, di veri e propri incursori che hanno la specificità di andare a caccia di uomini: azioni mirate per snidare e uccidere i nemici. Aspetto ulteriore: dipendono direttamente dalla Nato e a essa si riferiscono, e sono insomma svincolati dalla classica trafila di comando dei nostri militari tradizionali.
Questi ultimi, come vulgata vuole, sono in Afghanistan come forze di pace e hanno regole di ingaggio ben precise. Sappiamo bene, ormai, dell'ipocrisia intrinseca del voler definire un contingente militare in operazioni di invasione e occupazione di un Paese straniero come "forze di pace" nel momento in cui questa "pace" è imposta con la forza da un soggetto terzo (Usa e alleati) secondo i criteri di quest'ultimo e non secondo la volontà del popolo autoctono. Ma ben oltre l'ipocrisia di tale definizione, è importante mettere a fuoco il fatto che nel nostro Paese i cittadini non erano a conoscenza della presenza sul campo di militari italiani con regole d'ingaggio e consegne molto diverse da quelle che l'opinione pubblica, nella maggioranza, ha pur, almeno a parole (e voti) accettato.
La Task Force 45 è un corpo speciale che è lì per fare la guerra, non per mantenere la pace. In violazione della nostra Costituzione e in violazione del normale diritto del popolo italiano di conoscere esattamente come stanno le cose.
Il nostro Governo, e il Ministro La Russa, si sono insomma ben guardati dal rivelare che dei nostri militari sono lì per fare la guerra ai talebani. E la questione, malgrado quanto si possa pensare, non è di lana caprina. Perché oltre a evidenziare la reticenza del nostro governo nel dire la verità, apre in realtà una questione di legittimità grande come una casa.
Beninteso, che nella storia vi siano state e vi siano tuttora una serie di situazioni "governative" ai limiti della legalità - quando non oltre - di cui l'opinione pubblica non è a conoscenza è cosa risaputa. Ma è cosa molto grave soprattutto nel merito di una situazione, quella militare, da sempre molto controversa nell'opinione pubblica (per i partiti la cosa, oltre a vane parole, non è controversa affatto: tanto il centrodestra quanto il centrosinistra hanno sempre avallato missioni militari di invasione al soldo degli Stati Uniti).
Da rilevare, sopra ogni altra cosa, che oltre al cordoglio espresso per il tenente Romani, non vi sia nessuna forza politica, e tanto meno nessun (o quasi) quotidiano o televisione, che abbia avuto la benché minima volontà di andare al cuore del problema e scoperchiare un caso di rilevanza fondamentale: con quale legittimità, secondo quali regole, la Task Force 45 opera in Afghanistan? Roba da trattare ben oltre una indagine, quanto da affrontare con una interrogazione parlamentare. Di pubblico dominio, s'intende. Ma sull'argomento si tace (o quasi: solo qualche media ha affrontato, e di striscio, la questione).
Gli italiani piangeranno forse il tenente scomparso (e altri fischieranno - non senza qualhce giustificazione - l'ipocrita cordoglio di questi giorni) ma difficilmente si farà luce sulla questione dirimente del fatto, l'esistenza e la presenza di questi commandos italiani che sono ben a di là della sedicente "missione di pace" in Afghanistan.
Naturalmente, forse è superfluo ricordarlo su queste pagine, la situazione conferma ancora una volta la tesi che sui media di massa non trova ospitalità e che è invece nella realtà dei fatti: noi italiani, come altri, siamo in Afghanistan poiché stiamo combattendo una guerra a quel Paese. Con buona pace - anzi passando sopra - la nostra Costituzione e le regole d'ingaggio internazionali. Siamo, in sostanza, invasori tali e quali agli Usa.
E siamo dunque, comprensibilmente, nel mirino di chi osta a tale comportamento e difende il proprio Paese.

Valerio Lo Monaco

La nuova "scuola" di regime

domenica 19 settembre 2010

Roaming - 19 settembre 2010

Eccomi qui, e ecco i link di questa settimana:

Crisi: La Voce del Ribelle, La Repubblica, Reuters, Repubblica economia, Leonardo, IlSole24ore

USA, Obama e le tasse: La Voce del Ribelle, America24, L'Occidentale

Spesa Montecitorio e rendiconti interni: ansa, ansa2 (ma il resto lo vediamo dopo lunedì...)

ROM e UE: ansa, La7, APcom

Negoziati MO: ansa, il Giornale, Corriere, Blitz quotidiano

A presto

sabato 18 settembre 2010

Obama e le tasse, demagogia a go-go

Meno tasse ai ceti medi e niente proroga delle agevolazioni concesse da Bush ai titolari dei redditi più elevati. Eccola qua, la seconda mossa della controffensiva di Obama in vista di quelle elezioni di Midterm che si terranno a inizio a novembre e che, in base ai sondaggi, vedono i repubblicani in netto vantaggio. La prima, di cui abbiamo già riferito martedì, era incentrata su un nuovo, doppio intervento di sostegno all’economia interna: 50 miliardi in fondi per le infrastrutture pubbliche e 100 in sgravi fiscali per gli investimenti nel campo dell’innovazione e della ricerca. 
In realtà si tratta di mosse politiche, più che amministrative. Lui le annuncia in modo così perentorio da far sembrare che siano già acquisite, ma per ora tutte queste misure non sono altro che intenzioni. Il cui primo obiettivo è di natura propagandistica. In mancanza di risultati effettivi da poter vantare, visto che la tanto sospirata ripresa è ben lungi dall’essersi avviata e il tasso di disoccupazione rimane altissimo, Obama torna a giocare la carta dei valori e degli obiettivi di lungo periodo. La difesa della classe media si trasforma in un appello a serrare i ranghi. L’attacco ai ceti più abbienti in un bersaglio sin troppo facile. «La vecchia strada – riassume lui nel fervore di questa sua campagna elettorale per interposta persona – vuol dire meno tasse sui ricchi, meno regole per i potentati economici, e anche meno investimenti sul futuro: nella scuola, nella ricerca, nelle energie rinnovabili»
In teoria sono argomenti che dovrebbero far presa sulla maggior parte dei cittadini. In teoria, specialmente in un Paese come gli Stati Uniti in cui il divario sociale è tanto forte, la massa dei meno abbienti dovrebbe desiderare il superamento di un sistema che è tanto sbilanciato a favore dei più ricchi. Ma questa è appunto l’anomalia statunitense. Il mito dell’American Dream giustifica tutto. E illude tutti. Legioni di poveracci che si immaginano che un giorno o l’altro faranno fortuna, chissà come, e allora pensano che non gli piacerebbe per niente che il fisco gli portasse via una fetta consistente dei loro amatissimi dollari. 
Ma non è certo un’istanza di cambiamento profondo, quella che arriva da Obama. Lui blandisce il ceto medio, ma lo fa in modo puramente demagogico. E basta una frase, a dimostrarlo: «A loro [i titolari dei redditi più elevati] i repubblicani vorrebbero donare un taglio d'imposte di 100.000 dollari a testa, questa è la filosofia che ci ha portati al disastro economico». Falso: benché quelle agevolazioni tributarie siano una concessione odiosa, esse sono solo un aspetto periferico, e relativamente marginale, di un problema enormemente più ampio. Formulato in modo così vago, il richiamo alla «filosofia» da cui discenderebbero queste distorsioni è non solo generico ma fuorviante. Il nodo non è qualche punto in più o in meno di pressione fiscale a carico dei milionari e dei miliardari. Il nodo è nelle ragioni che portano a quell’abissale disparità nella distribuzione del reddito.  
Federico Zamboni

mercoledì 15 settembre 2010

I numeri della fame nel mondo

Meno di un milione. Questa è la cifra incoraggiante che dovrebbe farci sentire tutti sollevati. Si tratta della persone nel mondo che muoiono di fame.

La Fao (Food and Agriculture Organization), assieme all'IFAD (International Fund for Agricultural Development) e la WFP (World Food Programme), tre agenzie ONU che si occupano di agricoltura e nutrizione, ha anticipato i dati di un rapporto* annuale, il SOFI (State Of Food Insecurity), sui numeri della fame nel mondo. Lo studio, che verrà pubblicato integralmente in ottobre, evidenzia una diminuzione delle persone che soffrono la fame, che sono cioè cronicamente malnutrite e che muoiono o rischiano di morire per questo motivo. Il numero è calato da 1,02 miliardi a 925 milioni in un solo anno e per la prima volta in 15 anni - nei quali il numero di affamati nel mondo è sempre salito. Al di là dei numeri sono importanti le cause dell'inversione di tendenza - seppure effimera: non sono stati gli investimenti nell'agricoltura di sussistenza, l'assistenza alla popolazione, l'inversione dei cambiamenti climatici né attività che generano reddito nelle zone rurali e urbane del Terzo mondo.  

Le motivazioni del repentino calo sono da cercare anche, e soprattutto, altrove. Innanzitutto nella crescita di Cina e India, dove vive ancora il 40% degli affamati del mondo. Poi c'è il calo dei prezzi alimentari che, dopo aver toccato l'apice nel 2008, è avvenuto grazie a due anni di buoni raccolti - ma che ora, anche a causa dei problemi del raccolto in Russia, sta ricominciando a salire. Insomma, le cause della diminuzione della fame non sarebbero da ricercare in una politica globale efficace, come sarebbe auspicabile. La verità è che questo dato è legato soprattutto a una fortunata congiuntura mondiale: la diminuzione dei prezzi e un maggiore sviluppo economico proprio in quelle aree che erano maggiormente depresse.

Intanto, da Coldiretti, arriva un'altra dichiarazione: il 30% del cibo acquistato in Italia, ossia la stessa percentuale di cibo che nel nostro Paese finisce dal frigo direttamente nella pattumiera, sarebbe sufficiente a sfamare due volte l'intera popolazione del Burundi. Ed è chiaro infatti che il vero problema non sia la quantità di cibo disponibile: negli ultimi due anni il raccolto mondiale di cereali, che rappresentano l'elemento principale dell'alimentazione umana, è rimasto stabile a 2,2, miliardi di tonnellate annue. Il cibo, come ogni altra merce, va dove può essere pagato, non dove ce n'è bisogno.

È inutile dunque gioire per i numeri, in calo, della fame nel mondo - almeno finché i governi non decideranno di voler affrontare a livello politico le sue cause reali.

*http://www.fao.org/news/story/en/item/45210/icode/

domenica 12 settembre 2010

Roaming - 12 settembre 2010

Ecco i link utili della settimana:


Premier alla testa della P3: ansa, Repubblica, ilGiornale


Possibilità elezioni (giusto perché ne parlano proprio tutti): ansa, Fini passa al Fli, leggo, libero, virgilionotizie... ecc.


Referendum Turchia: ansa, Repubblica


Accordo Basilea3: ansa, CorrieredellaSera, Repubblica


Cile, sciopero fame Indios: ansa, blitzquotidiano, yabasta


Copenaghen, attacco kamikaze: ansa,


India, censimento caste: ansa, peacereporter


Kosovo, nuova risoluzione Onu: ansa, reuters, testo


UE, risoluzione per l'immigrazione: ansa, adnkronos, l'unità


Alla prossima.
Sara

sabato 11 settembre 2010

Terzani e la Fallaci - 11 settembre

Corriere della Sera, 8 ottobre 2001 - Lettera da Firenze 


(...)


Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle "Tigri Tamil", votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di "Hamas" che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull'isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l'Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell'innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l'ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. 
(...)
L'attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l'atto di "una guerra di religione" degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure "un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale", come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell'Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. "Gli assassini suicidi dell'11 settembre non hanno attaccato l'America: hanno attaccato la politica estera americana", scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui (...) si tratterebbe appunto di un ennesimo "contraccolpo" al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo.




Non so perché, ma di tutto quello che è successo dall'11 settembre ad oggi, non c'è nessuno che ricordi quello che hanno detto - o non detto - i nostri "intellettuali".


In particolare mi sembra interessante il botta e risposta che c'è stato sul Corriere della Sera tra Oriana Fallaci e Tiziano Terzani (articolo dal quale ho estratto il brano all'inizio di questo post). Vi consiglio di leggere entrambi gli articoli e di fare le vostre considerazioni.


La rabbia e l'orgoglio, Oriana Fallaci
Il Sultano e San Francesco (Lettera da Firenze), Tiziano Terzani