lunedì 18 aprile 2011

raumTraum

raumTraum è un progetto nato dalla necessità di poter vedere spettacoli di qualità, dentro e fuori dal teatro, come in un ristorante oppure a casa propria, ma non solo. Si occupa anche di arti visive per portare all'attenzione del pubblico artisti sconosciuti ma di talento, di laboratori per professionisti del settore o aspiranti tali e di ancora molto altro.

La novità rispetto all'affidarsi a altri organizzatori è che con raumTraum non ci sarà più bisogno di conoscere già un artista per poter essere sicuri di non passare una serata noiosa o spiacevole: seleziona accuratamente per voi collaboratori, artisti e spettacoli, in modo da offrirvi sempre un alto livello.

Visitate il sito www.raumtraum.it

lunedì 11 aprile 2011

Precari. E disgregati.


Le manifestazioni di sabato avrebbero dovuto avere una partecipazione enorme, considerate la vastità e la gravità del fenomeno. Invece è scesa in piazza solo una piccola minoranza. Motivo: il disagio è comune ma ognuno cerca di venirne a capo per conto suo. E l’instabilità lavorativa degenera nella passività politica
di Alessio Mannino

Purtroppo ha ragione quel figuro del ministro Sacconi. Le manifestazioni di sabato contro la precarietà indette in tutta Italia al grido di “il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta”, di precari ne hanno visti ben pochi: appena 8 mila presenti a Roma, dove si svolgeva l’evento più grande. Segno che le associazioni promotrici (le maggiori erano quelle dei giornalisti freelance, Articolo 21, Rete e Unione Studenti, Arci), i partiti aderenti (Pd, Sel, Rifondazione Comunista, IdV) e persino la potente Cgil non sono stati capaci di portare in piazza i diretti interessati. I quali, limitandosi al campo dei laureati, secondo l’ultimo rapporto AlmaLaurea dovrebbero essere un esercito: solo il 36% dei neo-dottori ha un lavoro stabile (la percentuale scende al 26% per chi ha una laurea “specialistica”, cioè chi è andato fino in fondo nella faticaccia dell’inconcludente “nuovo ordinamento”). 
Un flop che ha una motivazione sociale e politica precisa. Il precariato non costituisce un gruppo omogeneo per interessi. Volendo riesumare una categoria marxiana che nella nostra società individualizzata e parcellizzata ha fatto il suo tempo, non esiste una “classe” di giovani sfruttati contrapposta ad una classe di sfruttatori. La generazione cocopro è fatta da una massa pulviscolare di storie personali irriducibili l’una all’altra, tante quante sono le forme di contratto che ogni azienda stipula col singolo lavoratore. Il comun denominatore è il tempo determinato e la mancanza di garanzie (zero contributi pensionistici, niente ferie pagate ecc) ma la relazione fra padrone e prestatore di manodopera è individuale o comunque sentita come tale, il che fa lo stesso. 
In altre parole l’ingegnere costretto per campare a fare il cameriere non ha la percezione di un’identità d’interessi col giornalista pagato 4 euro lordi a pezzo (per dirla sempre alla Marx, non ha una coscienza di classe). Tutt’al più prova un sentimento di affinità nella sventura, della serie “siamo tutti nella merda, così va il mondo” e amen. A minare alla radice nel singolo precario ogni possibile consapevolezza di non essere un’isola solitaria, una monade chiusa nel suo guscio, contribuisce potentemente l’imperante cultura individualista, che indebolisce legami e appartenenze secondo il mito fasullo del self made man, dell’“imprenditore di se stesso”, della persona libera da tutto che coltiva l’illusione di farcela in splendida solitudine. 
In queste condizioni, il semi-occupato flessibilizzato, mercificato, usa e getta non riesce neppure a mettere a fuoco che il suo problema è un problema collettivo. Quindi non trova la spinta ad attivarsi, a partecipare alle mobilitazioni, a considerarsi parte di un insieme più vasto di lui. Si sente impotente, rassegnato, frustrato. La sua scontentezza si fa scetticismo, e lo scetticismo apatia. Complice una generale debolezza della politica, dal suo orizzonte è scomparso finanche il bisogno di trasfondere il proprio risentimento in azione comune. Si indigna, certo. S’incazza, senza dubbio. Ma siccome, per fortuna per lui e tuttavia, verrebbe da dire, per sfortuna di tutti, non muore di fame grazie al vero welfare italiano, la famiglia, la lotta per la sopravvivenza non lo costringe come un tempo ad alzare le orbite fisse sulle difficoltà quotidiane e a mettersi in gioco per cambiare le cose. 
D’altronde, non avrebbe a chi rivolgersi. I partiti sono i terminali esecutori dell’ingiustizia che patiscono e le loro teatrali contrapposizioni fanno da paravento  al colpevole a monte, che è l’intera architettura industrial-finanziaria che detta legge e condiziona le leggi e non viene sfiorata dalla minima contestazione (se non in settori delimitati, minoritari e fatti astutamente passare come casi-limite ideologici, vedi la battaglia tra la Fiat e la Fiom per i metalmeccanici). Soli, senza un nemico chiaro, portati a credere che impegnarsi in fondo sia un’inutile perdita di tempo, sotto il perenne ricatto di imprese prive di obblighi per cui un curriculum vale l’altro, è giocoforza che la moltitudine dei precari se ne stia alla larga dai cortei, anche quando organizzati apposta per darle voce. 
È proprio vero: la precarietà uccide la vita. La vita, però, si incarica sempre, prima o poi, di riprendersi la rivincita. Non so se è più convinzione o speranza, ma credo che con tutta la sua mostruosità l’economia non sia ancora riuscita a piegare del tutto la natura. Ci vorrà una Fukushima economica per vedere se è vero. 

Alessio Mannino

La Voce del Ribelle, Aprile 2011







venerdì 8 aprile 2011

Il "dopo Geronzi". La finanza sulle nostre teste


Per la stragrande maggioranza dei cittadini le modifiche nei CdA delle banche e affini sono notizie che appaiono remote e sostanzialmente incomprensibili. Ma è proprio in quegli ambiti riservati ed esclusivi che si gioca la partita più delicata: quella del controllo dei capitali, dalle cui strategie deriva tutto il resto 
di Alessio Mannino
Ma a te, trentenne precario, casalinga alla terza settimana del mese, piccolo imprenditore strangolato dalle banche, a te cosa importa se Giovanni Galateri di Genola diventerà il nuovo presidente delle Assicurazioni Generali dopo Cesare Geronzi si è dimesso? Niente. Per te che fatichi per sopravvivere non c’è nessuna “svolta epocale”. 
Geronzi è la personificazione di un certo modo, paludato e impastoiato con i partiti, di fare finanza e di un certo mondo, a metà fra Chiesa e Berlusconi, tutto romano e di potere. Rappresenta uno dei volti del cosiddetto salotto buono. Ma l’uomo della strada ne era escluso prima e resterà escluso anche dopo la sua uscita di scena. Perciò le paginate dedicate agli intrighi e ai retroscena delle dimissioni di Geronzi (accusato di falso e bancarotta per il crac Cirio) sono esercizio autoreferenziale offensivo per la gente che a che fare con la vita vera. 
Le beghe fra banchieri, industriali e manager riguardano una dimensione parallela tutta loro. Il guaio è che le manovre che la agitano e la squassano, nel linguaggio incomprensibile e nell’aura semi-occulta in cui è avvolta, rappresentano i movimenti della classe dominante che giù per li rami investono l’esistenza di tutti noi, ignari e incoscienti sudditi. Il quotidiano spettacolo della politica è la facciata visibile, ma dietro le quinte questi signori grigi e azzimati sconosciuti ai più decidono con le loro lotte gli assetti del potere reale, quello finanziario. Sono i finanzieri ad avere le chiavi della cassa, e in una società totalmente regolata in base alla quantità di denaro chi tiene i cordoni della borsa è il padrone. 
Ecco perché, se nulla cambia per il cittadino comune, al cittadino informato serve sapere cosa gli combinano sopra la testa. Semplificando, Geronzi, un passato da banchiere andreottiano, personaggio trasversale perchè “centrista”, già dominus della decisiva Mediobanca, vicino al premier, aveva scontentato un po’ tutti dopo il suo arrivo al vertice delle Generali appena un anno fa. Il suo disegno era fare del Leone di Trieste, prima forza finanziaria del paese, l’indiscussa centrale di comando al fine di gestire il potere secondo metodi tipicamente romani (alla Fazio, per capirci), che non a macinare affari. 
Il suo disegno era funzionale alla conquista berlusconiana della stanza dei bottoni: in Mediobanca, prima azionista di Generali, il capo del governo è presente nel board tramite sua figlia Marina, il sodale Tarek Ben Ammar, l’amico Salvatore Ligresti e il fido Ennio Doris. L’influente ministro dell’economia Giulio Tremonti aveva inizialmente appoggiato la presidenza Geronzi. Ora è stato uno dei suoi affossatori in contrasto con Gianni Letta, ombra di Silvio e diretto rivale di Giulio nel conflitto interno al governo (vedi il braccio di ferro sulle nomine nelle società pubbliche, di cui abbiamo scritto mercoledì scorso). Contro Geronzi la guerra è stata scatenata sulla piazza mediatica dal bulldozer Diego Della Valle, alleato di ferro dell’ambizioso Luca Cordero di Montezemolo. Ma anche il costruttore ed editore Caltagirone (vicino a Casini), per non dire di Palenzona (Unicredit, centrosinistra) hanno dato il via libera al siluramento. 
Politicamente, a perderci è stato dunque Berlusconi, che oltretutto si vede sempre più insidiato in casa dall’infido Tremonti. Ma a perderci è anche, nient’affatto paradossalmente, Gianni Bazoli (Intesa), l’eminenza della finanza cattolica lombarda legata al centrosinistra, che con Geronzi aveva creato un filo rosso per mantenere l’equilibrio generale. Ciò, ad esempio, ha garantito che non venissero toccati i delicatissimi pesi e contrappesi nel patto che governa il Corriere della Sera, preda ambita da chi coltiva sogni di gloria. E il sospetto è che a coltivarne uno di portata storica è il duo Della Valle-Montezemolo: il famigerato Terzo Polo che pare si stia preparando è un progetta che mira a colpire e in prospettiva sostituire il blocco berlusconiano, d’accordo con la sinistra non casualmente chiamata “bancaria” per la sua contiguità con le maggiori banche (Intesa, Unicredit). La partita avrà il suo vero finale a fine anno, quando si dovrà rinnovare l’accordo di controllo di Mediobanca.
Come si vede, una normale storia dell’inaccessibile empireo dei potenti. Una storia di potere che non è in nostro potere. Come non lo è niente, nella pseudo-democrazia dove una ventina di persone a capo di tre o quattro consigli di amministrazione decretano la sorte di un intero paese senza che noi, quaggiù in basso, possiamo dire o fare alcunché. 

Alessio Mannino

La Consulta boccia il "pacchetto sicurezza"

mercoledì 6 aprile 2011

Tizio all'Eni, Caio all'Enel...


Succede da sempre e quasi nessuno ci fa caso, ma le nomine ai vertici delle aziende parastatali sono un aspetto cruciale dell’esercizio del potere politico. E delle sue oscure contiguità coi potentati economici. A tessere la tela, non a caso, ci sono innanzitutto Giulio Tremonti e Gianni Letta 
di Alessio Mannino 
Mentre l’Europa ci tiranneggia e ci succhia il sangue e a questo punto, come faceva correttamente notare Bechis su Libero di ieri, potremmo considerare l’idea di andarcene e riprenderci la nostra sovranità. 
Mentre il dibattito politico nazionale, lo scriveva con acume sempre ieri il nostro Stasi, è monopolizzato dalle vicende processuali del premier Berlusconi sulle quali stravolentieri il Pd (una volta tanto rosso sì, ma di vergogna per il caso Tedesco, parlamentare dalemiano che se non fosse per l’autorizzazione a procedere sarebbe già in cella) inzuppa il pane perché ha tutta la convenienza a svicolare dai problemi cruciali posti dai tre referendum di giugno. 
Mentre il ministro-ballerino Frattini compie l’ennesima piroetta libica e passando dalla parte degli insorti sancisce ancora una volta lo sbandamento a cui è stata improntata la politica italiana nei confronti di Gheddafi. 
Mentre la Lega Nord, in calo di consensi per la paura suscitata nei suoi ossessivi elettori dall’invasione di immigrati a Lampedusa, estrae dal cappello una delle sue tante boutades propagandistiche, le improbabili milizie volontarie regionali. 
Mentre sui giornali si fa colore, cioè si ci perde in chiacchiere, sul farsesco tira-e-molla di Montezemolo che non si decide a questa benedetta discesa in campo (si accomodi pure, tanto ormai peggio di così) e sui pruriti da candidatura dello scrittore Pennacchi che scambia i finiani per fasci e i suoi compagni del Pd per comunisti(qualcuno lo avverta che sono tutti quanti diventati da almeno una quindicina d’anni dei liberaloidi demoplutoeccetera). 
Mentre l’Italia si trastulla e s’imbroda, c’è un signore che quatto quatto tesse la sua tela e si fa garante dei poteri forti: Giulio Tremonti. 
Non ci vengano a raccontare la storia dell’orso, i sapientoni che scambiano il ministro dell’economia per un no-global di destra. Sui libri e in tv può propinarci le dissertazioni che vuole, il tributarista di Sondrio, menandocela che è uno strenuo critico della finanza predona. Ma i fatti dicono che la finanza lui la riverisce e la vezzeggia. La notizia è lì, bella grossa e in evidenza: la lista dei premiati ai vertici delle società partecipate dallo Stato. Tremonti l’ha stilata con la cura dovuta ad una partita delicata come la spartizione delle cariche nei grandi centri di spesa e di influenza economica che fanno capo al Tesoro. Lo ha fatto venendo a compromesso con il suo rivale nella compagine governativa per ciò che riguarda gli equilibri di potere nella macchina statale, l’eminenza azzurrina Gianni Letta, legato ai salotti buoni del business. 
Lui e Tremonti, affiancato da una Lega a caccia di posti, si sono così divisi il bottino. Tremontiano è il nuovo presidente dell’Enel Paolo Andrea Colombo, la cui trasversalità è da manuale: consigliere Mediaset, Eni e sindaco di numerose altre società, ex Rc Quotidiani ed ex Banca Intesa. Quest’ultima qualifica lo rende certamente gradito al padrone del primo istituto creditizio italiano, Giovanni Bazoli, cattolico di centrosinistra. Se ne deve dedurre che Tremonti cerca di gettare ponti anche “di là”. Riconducibile a Letta, invece, è il più internazionale Giuseppe Recchi, assiso alla presidenza Eni. Attualmente è presidente e amministratore delegato di General Electric Sud Europa, vicepresidente di GE Capital Interbanca, ed è consigliere di Exor, la finanziaria della famiglia Agnelli. A tenere il bastone del comando sono in realtà gli amministratori delegati (Fulvio Conti per Enel, Paolo Scaroni per Eni), i presidenti sono privi di funzioni operative. Tuttavia è certo che per un gruppo di potere poter contare su un proprio uomo alla presidenza vuol dire esserci, mantenersi al corrente, far sentire che si ha peso. 
I leghisti non sono riusciti a imporre il viceministro Roberto Castelli, che evidentemente non si contenta di una sola poltrona, come presidente di Terna. L’attuale titolare, Luigi Roth, è un lettiano che dovrà vedersela con un papabile successore altrettanto lettiano, l’ex ambasciatore a Washington Gianni Castellaneta (fatto uscire dal consiglio Finmeccanica). Una pratica tutta per il gran visir Letta, dunque. Né i padani hanno ottenuto di veder innalzato a capo di Enel l’ex sindaco di Busto Arsizio, Gianfranco Tosi. In compenso il Carroccio porta a casa la nomina ad amministratore delegato di Finmeccanica del suo Giuseppe Orsi, che è già in azienda in qualità di responsabile di AgustaWestland, la controllata che produce i famosi elicotteri. A completare il taglia e cuci della lottizzazione ci sono le Poste. È saltato fuori un posticino d’oro nel consiglio d’amministrazione sia per Maria Grazia Siliquini, che ha il solito merito di essere passata da Fli ai “Responsabili” berlusconiani, sia per Antonio Mondardo della Lega (dentro anche una misconosciuta pidiellina, Maria Claudia Ioannucci). 
Passano le repubbliche ma la Seconda non si differenzia dalla Prima nell’usare a piacimento le caselle delle partecipazioni statali come greppie con cui soddisfare gli appetiti delle lobby partitiche e industriali. E Tremonti, che a differenza del “consigliori” Letta non è solo un tecnocrate ma anche un politico, sfrutta l’occasione per intrecciare alleanze e rendere favori che al momento buono gli torneranno utili. Pressappoco quando Berlusconi uscirà di scena. 

Alessio Mannino