giovedì 20 dicembre 2012

Debito pubblico: come gli Stati sono diventati schiavi delle banche - di Alain de Benoist


Nell’autunno del 2008 si scatenava una crisi finanziaria mondiale, il cui epicentro si trovava negli Stati Uniti. Un anno dopo, alcuni intelligentoni dichiaravano che il peggio era passato e che la crisi era virtualmente finita. Non era così. Essa, infatti, prosegue ancora ed è ben lungi dall’essere terminata. Il difficile non è dietro di noi, ma davanti a noi; ci saranno conseguenze peggiori che nel 1929. La prima fase era nata da un eccesso di sovraindebitamento delle famiglie americane. L’economia reale fu fatta fallire per effetto dell’esplosione del debito privato, essendo le imprese colpite in pieno dal crollo della domanda, e questo provocò una vasta recessione planetaria. Attualmente, sono gli Stati a essere sovraindebitati. Al problema del debito privato è subentrato quello del debito pubblico, che colpisce oggi i Paesi occidentali. Come si è arrivati a questo punto?
Misuriamo anzitutto l’ampiezza del problema. Globalmente, il debito pubblico nella zona euro è aumentato del 26,7%, dal 2007. Oggi rappresenta l’80% del prodotto interno lordo (PIL) globale della zona, avendo i deficit pubblici superato la soglia del 7% di detto PIL. Questa però è solo una media. All’inizio del 2011, otto Paesi evidenziavano un coefficiente di debito superiore all’80% del loro PIL: l’Ungheria e l’Inghilterra (80,1%), la Germania (83%), la Francia (85%), il Portogallo (92%), il Belgio (97%), l’Italia (120%) e la Grecia (160%). Questi livelli di indebitamento sono per lo più superiori a quelli che la maggioranza dei Paesi sviluppati ha conosciuto alla fine della prima guerra mondiale o all’epoca della recessione degli anni Trenta. I prestiti sono contratti presso delle banche, e soprattutto dei mercati finanziari, grazie a emissioni di obbligazioni.
In Francia, Paese in cui il deficit dello Stato previsto per il 2011 doveva attestarsi sui 98,5 miliardi di euro (3.200 euro al secondo!), il debito pubblico è aumentato del 30% circa, dal 2007. Mentre nel 1979 era di soli 239 miliardi di euro, ossia il 21% del PIL, nel 2008 è passato a 1,327 miliardi di euro, nel 2009 a 1.489 miliardi, nel 2010 a 1.591 miliardi, fino a raggiungere, nel primo semestre del 2011, la vertiginosa cifra di 1.681,2 miliardi di euro, cioè l’84,5% del PIL, con un deficit annuale del 7%. Queste cifre non tengono conto degli impegni che lo Stato ha assunto e che dovrà onorare, ma che non ha approvvigionato, come ad esempio le pensioni dei funzionari (impegni valutati, nel 2005, per almeno 430 miliardi di euro). Nel 2011, il rimborso dei soli interessi del debito (46,9 miliardi di euro) avrà rappresentato la seconda posta del bilancio dello Stato, dopo l’insegnamento scolastico, di gran lunga davanti alla difesa e alla sicurezza; da soli, gli interessi avranno assorbito la totalità dell’imposta sulle società. Nel 2012, gli interessi da pagare ammonteranno a 48,8 miliardi di euro. L’emissione di debiti a lungo termine rappresenta anche un costo diretto imposto alle generazioni future: nel 2011 sono stati contratti debiti per circa 45 miliardi di euro, che saranno da rimborsare tra il 2040 e il 2060. Detta emissione equivale, in definitiva, a una privazione di sovranità: nel dicembre del 2010, il 67,7% del debito negoziabile dello Stato era detenuto da non residenti.
Al debito nazionale si aggiunge poi il debito locale. Da alcuni anni, le banche si sono infatti avventate sulle collettività locali per indebitarle con tutta una serie di “prestiti tossici”. Il 13 luglio 2011, un rapporto della Corte dei Conti confessava che, semplicemente, non esistono statistiche pubbliche concernenti la struttura del debito locale in Francia. Questo rapporto, di oltre 200 pagine, indica, nondimeno, che l’indebitamento delle collettività locali (eccetto le case di cura) è passato da 116,1 miliardi di euro a 163,3 miliardi, nel 2010, con un aumento medio, cioè, del 41% (il 30% per i Comuni, il 63% per i Dipartimenti, l’80% per le Regioni).
Il debito pubblico, tuttavia, rappresenta solo un aspetto del debito totale, dato che quest’ultimo comprende anche il debito delle imprese e quello delle famiglie. Se consideriamo l’insieme di questi elementi, si arriva, per quanto riguarda il 2010, a un indebitamento globale del 199,5% per la Francia, del 202,7% per la Germania, del 221,1% per l’Italia, del 255% per il regno Unito, del 269% per la Spagna e del 240% per gli Stati Uniti!
L’idea comunemente diffusa è che la crisi del debito pubblico derivi da un eccesso di spese legato all’imprudenza degli Stati. Che gli Stati non abbiano sempre agito correttamente è evidente, ma le cause profonde sono da ricercarsi altrove.
La causa immediata dell’aggravamento dei debiti pubblici è individuabile nei piani di salvataggio delle banche private, decisi dagli Stati nel 2008 e nel 2009. La banche hanno costretto i poteri pubblici a soccorrerle, facendo valere la posizione nevralgica che occupano nella struttura generale del sistema capitalistico. Per salvare le banche e le compagnie di assicurazione minacciate, gli Stati, presi in ostaggio, hanno dovuto a loro volta chiedere in prestito sui mercati, cosa che ha fatto salire il loro debito a livelli insopportabili. Sono state spese somme astronomiche (800 miliardi di dollari negli Stati Uniti, 117 milioni di sterline in Gran Bretagna) per impedire alle banche di sprofondare, il che ha gravato in proporzione le finanze pubbliche. In totale, tra il 2008 e il 2010, le quattro principali banche centrali mondiali (Riserva Federale, Banca Centrale Europea, Banca del Giappone e Banca d’Inghilterra) hanno iniettato 5.000 miliardi di dollari nell’economia mondiale. È stato il più grande trasferimento di ricchezza della storia, dal settore pubblico al settore privato! Le banche, quando hanno rimborsato, non lo hanno fatto alle quotazioni della Borsa. Gli Stati, indebitandosi massicciamente per salvare le banche, hanno permesso alle banche di rilanciarsi immediatamente nelle stesse attività, che in precedenza avevano finito col metterle in pericolo e si sono esposti da soli alla minaccia dei mercati e delle agenzie di rating.
Un’altra causa è evidentemente la recessione economica indotta dalla crisi, che ha diminuito le entrate degli Stati e li ha obbligati a moltiplicare ulteriormente il ricorso al prestito. La causa più lontana, però, risiede nelle politiche di deregolamentazione e nelle riforme fiscali (riduzione delle imposte sugli utili pagati dalle società private, in particolare dalle imprese più grosse; regali fiscali fatti ai più ricchi) adottate molto prima del 2008, dall’epoca di Reagan e della Thatcher.
L’aumento dell’influenza delle lobbies finanziarie sul personale politico ha causato la progressiva deregolamentazione dei mercati finanziari, la quale, a sua volta, ha provocato l’esplosione dei profitti speculativi, drenando il capitale fuori dalla sfera produttiva. Il liberoscambismo ha, dal canto suo, favorito la concorrenza sleale dei Paesi che associano salari minimi e produttività elevata. La deregolamentazione, obbedendo alla logica del mercato mondializzato, come pure alle esigenze dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), è sfociata, sin dal 1999, nella soppressione di ogni significativa barriera doganale e nell’abolizione di fatto della preferenza comunitaria in Europa. La velocità con cui il capitale finanziario e i capitali speculativi possono ormai entrare o uscire dalle economie particolari ha ulteriormente aumentato la volatilità dei prezzi degli attivi e la gravità delle conseguenze della crisi.
Le conseguenze sono note: moltiplicazione delle delocalizzazioni, disindustrializzazione, riduzione dei salari, precarietà del lavoro e aumento della disoccupazione, cui si aggiunge la fuga dei capitali: in Francia, tra il 2000 e il 2008, hanno preso la strada dell’estero 388 miliardi di euro, con una media di 48,5 miliardi di euro all’anno (il che corrispondeva, nel 2008, al 2,5% del PIL). L’unico effetto dell’ondata di deregolamentazione, instauratasi a partire dall’inizio degli anni Ottanta, è stato, in realtà, quello di arricchire maggiormente i più ricchi, mentre le classi medie e popolari vedevano ogni anno i loro redditi ristagnare o abbassarsi. Le disuguaglianze dei redditi crescono ovunque, la disoccupazione aumenta, i guadagni della produttività e i salari medi divergono. La disoccupazione raggiunge oggi il 12% in Portogallo, il 14% in Irlanda, il 16% in Grecia, il 21% in Spagna. Globalmente, la parte dei profitti finanziari, tra cui l’accumulazione del valore aggiunto, è passata dal 10% degli anni Cinquanta al 40% e oltre di oggi.
Il dominio della nuova oligarchia finanziaria sull’economia mondiale ha dunque continuato a rafforzarsi malgrado la crisi, come testimoniano i profitti di quelle stesse banche, che nel 2008 avevano assillato gli Stati chiedendo di essere aiutate a evitare il fallimento. Nel 2009, ossia dopo il collasso finanziario dell’anno precedente, la totalità degli attivi delle sei principali banche americane (Bank of America, JP Morgan, Citygroup, Wells Fargo, Goldman Sachs e Morgan Stanley) ha rappresentato il 60% e passa del PNL nazionale, mentre nel 1995 ne rappresentava solo il 20%1. Sempre negli Stati Uniti, un recente rapporto della Northeastern University dimostra che nel 2010 l’88% della crescita del reddito nazionale reale è servita a fare aumentare i profitti delle imprese, mentre i salari ne hanno beneficiato – se così si può dire – solo nella misura di poco più dell’1%. Nella storia americana, i lavoratori non avevano mai ricevuto una parte tanto minuscola dell’aumento del valore aggiunto. Si potrebbe qui parlare di “riproletarizzazione” del capitale produttivo a opera del capitale finanziario.
Gli effetti della concentrazione del capitale nelle mani di un piccolo numero di finanzieri sono stati studiati da Paul Jorion, il quale illustra bene come la moltiplicazione dei prodotti speculativi abbia facilitato l’insediamento di un’economia da casinò, che ha sistematicamente favorito i redditi degli speculatori a discapito dei consumatori e talvolta persino dei produttori2. Parallelamente, la collusione tra i mercati finanziari e l’industria del crimine si accentua tutti i giorni. «Il mondo della finanza è eroso da potenti e discrete forze criminali, ma lo nega fortemente e anzi spende fortune per impedire che ciò emerga», scrive il criminologo Xavier Raufer, che aggiunge: «A causa della deregolamentazione mondiale, e poi della crisi, l’economia illecita (grigia o nera), che verso il 1980 costituiva circa il 7% del prodotto lordo mondiale, nel 2009 ne rappresentava forse il 15% (ossia l’equivalente del PNL dell’Australia)»3.
Un’altra conseguenza particolarmente inquietante: la disindustrializzazione provocata dalla sconnessione dell’economia reale e dell’economia finanziaria, con l’esplosione dei profitti speculativi che ne deriva. Nell’insieme dei Paesi membri dell’OCSE, nello spazio di soli due anni sono stati distrutti circa 17 milioni di posti di lavoro industriali, di cui 10 milioni nei settori manifatturieri. Se vi aggiungiamo i 13-14 milioni di posti di lavoro soppressi nelle imprese di servizio cui il settore industriale faceva ricorso, si misura la gravità del fenomeno. La recessione industriale, talvolta ribattezzata pudicamente “terziarizzazione”, colpisce anche gli Stati Uniti, che oggi contano solo 11,6 milioni di posti di lavoro industriali contro i 19,5 milioni del 1979: ossia un calo del 40%, sebbene la popolazione abbia continuato ad aumentare. Resistono soltanto alcuni Paesi industrializzati – la Germania in prima fila – e certi settori, come quello delle industrie per la difesa.
Gli Stati Uniti, prima potenza economica mondiale, sono colpiti in pieno. Durante l’intero decennio scorso, avevano potuto fungere da motore del consumo mondiale solo spendendo molto più di quanto il loro reddito nazionale li autorizzasse a fare, e questa fu una delle cause dei deficit che registrarono nella loro bilancia dei pagamenti correnti. In altri termini, avevano consumato molto più di quanto producessero (la quota di consumo nel loro PIL, molto più elevata della maggior parte dei paesi europei, si situa intorno al 70%). Risultati: dei deficit storici e un colossale indebitamento. Attualmente, ogni spesa pubblica fatta negli Stati Uniti è finanziata dal prestito nella misura del 42%! Il 16 maggio, il debito americano ha sfondato il tetto dei 14.294 miliardi di dollari, il che ha portato gli Stati Uniti sull’orlo dell’insolvenza. L’accordo politico, intervenuto in extremis l’1 agosto 2011 tra i repubblicani e i democratici, ha permesso di ricostruire questo tetto, ma la scadenza è soltanto differita. D’altronde, l’accordo verte solo sul debito dello Stato federale e sulla capacità del Tesoro di rimborsare coloro che prendono a prestito stampando carta moneta, mentre anche le finanze locali sono minacciate. Il presidente Obama ha dovuto impegnarsi in un piano di drastica riduzione della spesa pubblica, che dovrebbe tradursi in tagli operati non nel bilancio militare – più gigantesco che mai, con dei soldati impegnati su tre fronti (Iraq, Afghanistan e Libia) – ma nei servizi pubblici e nei programmi sociali. Queste decisioni non hanno impedito alle agenzie di rating di abbassare, per la prima volta nella storia, il “voto” degli Stati Uniti, il che ha provocato un nuovo minicrac borsistico.
Gli Stati Uniti, cui Vladimir Putin ha pubblicamente rimproverato, il 4 agosto 2011, non soltanto di vivere al di sopra dei loro mezzi, ma di vivere come «parassiti dell’economia mondiale», si ritrovano, in effetti, in una situazione catastrofica, a livello tanto dello Stato federale quanto degli Stati federati, 46 dei quali (tra cui l’opulenta California) sono ufficialmente in pieno fallimento o si trovano in grandi difficoltà. Da tre anni, il loro deficit di bilancio si situa tra il 9 e l’11% del PIL. Il deficit della loro bilancia dei pagamenti correnti ha raggiunto il livello record di 400 miliardi di dollari all’anno e la disoccupazione è intorno al 10%, cifra raramente vista oltre Atlantico. Essi inoltre, con gli oltre 300 miliardi di debiti verso il resto del mondo (a cominciare dalla Cina), sono diventati i principali debitori del globo. E poiché i loro creditori sono sempre più contrari all’idea di detenere del debito a lungo termine, debbono prendere a prestito a scadenza più breve, per finanziare i loro deficit, il che li rende più vulnerabili alla crisi. Di conseguenza, la fiducia nei confronti del dollaro si sta sciogliendo come neve al sole. Dalla fine del 2010 la Cina si sbarazza discretamente dei suoi titoli americani, i Buoni del Tesoro americani trovano sempre meno acquirenti ed è la stessa Riserva Federale ad acquistare la quasi totalità delle obbligazioni emesse oltre Atlantico. In altri termini, il valore del dollaro si mantiene solo grazie agli acquisti effettuali dai suoi stessi emittenti! In caso di improvvisa caduta del dollaro, però, la Cina e gli altri loro creditori certamente non accetterebbero di vedere crollare i loro attivi in dollari. Il problema è sapere che cosa esigeranno in cambio, economicamente e politicamente. Perché non l’abbandono della difesa di Taiwan da parte degli Stati Uniti?
Da due anni, la guerra finanziaria condotta dagli speculatori e dagli investitori istituzionali contro gli Stati è al culmine. Gli attacchi sui mercati finanziari assumono la forma di un aumento diretto o indiretto dei tassi di interesse, che i Paesi debbono pagare per prendere a prestito. Le indicazioni fornite dalle agenzie di rating determinano i bersagli e la strategia da adottare.
Le tre principali agenzie di rating – che rappresentano, da sole, il 95% del settore – sono Standard & Poors, Ficht Ratings e Moody’s. È interessante notare che solo recentemente sono state abilitate a valutare non soltanto la salute finanziaria delle banche e delle società private, ma anche quella degli Stati. E si sono subito date da fare, per svalutare la solvibilità dei prestiti statali. Il brutale calo delle principali piazze finanziarie, che nell’agosto del 2011 ha fatto seguito alla loro decisione di abbassare il voto degli Stati Uniti, è sufficiente a dimostrare l’influenza che esse esercitano. Il problema che si pone è quello della loro indipendenza, dato che sono finanziate dagli stessi istituti di cui valutano la solvibilità: sono le banche a pagarle per valutare i loro prodotti.
La maggior parte dei debiti pubblici si trova oggi nei conti delle banche che hanno continuato ad acquistarne dal 2008, senza preoccuparsi oltremisura della fragilità delle finanze pubbliche, aggravata dalla recessione e dalla crisi. Questi acquisti di debito pubblico sono stati finanziati dal denaro, che le banche potevano procurarsi presso la Banca Centrale Europea (BCE) pressoché a costo zero. In altri termini, le banche hanno prestato agli Stati, a un tasso di interesse variabile, delle somme che hanno preso in prestito per quasi niente. Ma perché gli Stati non possono essi stessi procurarsi le somme in questione presso la Banca centrale? Semplicemente perché è loro proibito!
Nel gennaio del 1973, il governo francese, su proposta di Valéry Giscard d’Estaing, al tempo Ministro delle Finanze, fece adottare una legge di riforma degli statuti della Banca di Francia, in base alla quale «l’Erario non può presentare propri effetti allo sconto della Banca di Francia» (art. 25), il che significa che è ormai vietato alla Banca di Francia accordare prestiti – per definizione non gravati di interesse – allo Stato e che, di conseguenza, quest’ultimo è obbligato a prendere a prestito sui mercati finanziari al loro tasso di interesse. Le banche private, invece, possono continuare a prendere in prestito dalla Banca Centrale Europea (BCE) a un tasso irrisorio (meno dell’1%) per prestare agli Stati a un tasso variante tra il 3,5% e il 7%. Con il trattato di Maastricht (art. 104) e il trattato di Lisbona (art. 123), questa misura è stata generalizzata in tutta l’Europa. Gli Stati europei, dunque, non possono più prendere a prestito presso le loro banche centrali. È una svolta capitale, di cui misuriamo oggi le conseguenze. Come ha scritto Léon Camus, la decisione presa nel 1973 equivaleva a dire che «lo Stato abbandona il diritto di “battere moneta” e trasferisce questa facoltà sovrana al settore privato, di cui diventa volontariamente debitore».
Meglio ancora: nell’autunno del 2010, l’Unione europea ha anche accettato il fatto che le obbligazioni sottoscritte dal nuovo Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (FESF) non fossero più considerate dei crediti privilegiati, il che significava che gli Stati europei rinunciavano a esigere di essere rimborsati prima dei creditori privati. Ormai, il salvataggio delle banche prevale legalmente sul denaro dei contribuenti!
I Paesi più indebitati (Grecia, Irlanda, Portogallo ecc.) possono prendere a prestito solo sui mercati finanziari a breve termine (tre mesi o sei mesi). Se volessero prendere a prestito sui mercati finanziari o dalle banche a cinque o dieci anni, dovrebbero accettare un tasso di interesse del 14-17%, per essi insostenibile. Gli unici organismi disponibili a fare loro prestiti a lungo termine sono il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea (BCE), che accettano di prestare al 3,5-4%, ma esigendo come contropartita drastiche misure di austerità, le cui principali vittime sono le classi popolari. Orbene, queste misure diminuiscono l’attività economica, e questo riduce ulteriormente la capacità di rimborso degli Stati.
I mercati finanziari assicurano comunque che l’austerità riporterà la fiducia e che la fiducia genererà la crescita. In realtà, è vero il contrario, perché l’austerità ha come conseguenza immediata una diminuzione dei redditi, la quale esercita meccanicamente una pressione deflazionistica sul potere d’acquisto, e dunque sulla domanda, il che non può che frenare la crescita e fare diminuire ulteriormente la solvibilità degli Stati. I piani di austerità rientrano, in realtà, nell’ambito di quella “strategia dello shock” che è stata descritta da Naomi Klein. In Francia, per esempio, non riuscendo a “ritrovare la crescita”, il governo francese non avrà altra scelta che aumentare le imposte e/o l’IVA, senza che questi prelevamenti si traducano in un miglioramento dei servizi pubblici, dato che saranno destinati al debito. I servizi pubblici subiranno, al contrario, dei contraccolpi negativi, perché, dopo il prolungamento dell’età pensionistica, si parla ora di effettuare dei tagli nei servizi sociali e sanitari.
In tutti i Paesi si ritrova lo stesso schema. In definitiva, si tratta sempre di salvare gli Stati solo per evitare un nuovo crollo della finanza mondiale; per questo motivo, le esigenze dei creditori hanno sistematicamente il sopravvento su quelle dei cittadini. Ne consegue che ci sono solo due possibilità: o le misure di austerità diventano talmente pesanti da provocare una rivolta generalizzata, o il debito aumenta in proporzioni tali da diventare definitivamente inesigibile e le situazioni di cessazione di pagamento si moltiplicano. L’esigenza di misure di austerità si è già rivelata inoperante in America Latina e in Asia. Le cose non andranno meglio in Europa.
L’opinione pubblica ne è consapevole. Sin d’ora, «gli indici di fiducia delle famiglie sono inferiori alla media storica in tutti i grandi Paesi occidentali, senza eccezioni»4. Un sondaggio IFOP, reso pubblico nel giugno del 2011 dagli economisti riuniti sotto la bandiera del «Manifesto per un dibattito sul libero scambio», ha rivelato che un’ampia maggioranza di francesi è ormai favorevole al protezionismo e perfettamente cosciente dei «danni della mondializzazione»: oltre il 70% di essi ritiene che l’apertura delle frontiere abbia avuto solo conseguenze negative sull’occupazione (84%), sul livello dei salari (78%) e sui deficit pubblici (73%); il 65% si dichiara apertamente favorevole a un aumento delle tasse doganali, e questo a prescindere dal colore politico (69% a sinistra, 72% a destra, 69% al Front National, 75% all’UMP!).
L’affaire greco è un esempio evidente di ciò che attende gli Europei.
Inizialmente, l’euro sembrava offrire ai Greci la cuccagna di una moneta stabile e di un credito quasi illimitato, il che risparmiava loro il compito di dovere correggere i gravi difetti della propria economia. Essi furono ipnotizzati da una crescita ingannevole, stimolata unicamente dal ricorso al prestito; l’euro, però, si è rivelato molto presto una trappola: fabbricando pochi prodotti dal forte valore aggiunto, i Greci non sono stati in grado di esportare e, non avendo essi più una moneta nazionale da svalutare, il prestito e l’occupazione sono naturalmente diventati le principali variabili di aggiustamento.
Oggi, l’ammontare del debito pubblico greco è di almeno 350 miliardi di euro, corrispondenti a oltre il 160% del suo PIL, con un deficit della bilancia delle transazioni correnti vicino al 10%, cui si devono aggiungere, evidentemente, il debito delle imprese, finanziarie o no, e quello delle famiglie. Senza dimenticare la fuga dei capitali, che la perdita di fiducia nei confronti delle banche greche ha largamente favorito: Dimitri Kousselas, Segretario di Stato al Ministero greco delle Finanze, valuta in 280 miliardi di euro, ossia il 120% del PIL, il solo ammontare dei fondi ellenici trasferiti in Svizzera!
Non potendo più, a causa della loro situazione, finanziarsi a lungo termine sui mercati finanziari, i Greci si sono rivolti al FMI e al’Unione Europea. Una prima richiesta di soccorso è sfociata, nell’aprile del 2010, nello sblocco di un aiuto di 110 miliardi di euro in tre anni: 80 miliardi stanziati direttamente dagli Stati della zona euro o attraverso meccanismi europei, essendo il contributo di ogni Paese calcolato sulla base della sua partecipazione al capitale della BCE – ossia, per la Francia, 16,8 miliardi di euro (il 21%), l’equivalente di un terzo dell’imposta sul reddito – e 30 miliardi stanziati dal FMI. Molto presto, però, è apparso chiaro che questa somma non sarebbe bastata. Nel luglio del 2011, al vertice di Bruxelles, un nuovo piano di salvataggio ha previsto la concessione alla Grecia di 109 miliardi di euro supplementari, di cui 79 miliardi provenienti dal FMI e dal Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (FESF), creato alcuni mesi prima, e 30 miliardi da un piano di privatizzazioni.
In questo affaire, le banche tedesche e francesi sono le più esposte. Alla fine del 2010, gli istituti francesi possedevano già nei loro bilanci 15 miliardi di debito pubblico greco (4,5 miliardi per BNP-Paribas, 2,5 miliardi per la Société générale, 2 miliardi per Groupama ecc.). L’esplosione del Crédit Agricole passa attraverso la sua filiale greca Emporiki, sesta banca del Paese, che possiede da sola 21,1 miliardi di euro di investimenti. Salvare il debito greco equivale allora a salvare le banche francesi (il che spiega il fatto che l’agenzia Moody’s abbia già posto tre di esse sotto “sorveglianza negativa” a causa della loro esposizione al rischio greco). La Francia prende dunque in prestito dalle banche del denaro, che sarà poi dato alla Grecia per rimborsare le banche! È una situazione quasi surreale, ma che ci consente di valutare, nello stesso tempo, quali sarebbero, per gli istituti finanziari francesi, le conseguenze di un fallimento definitivo della Grecia. Se il mancato pagamento si propagasse ad altri Paesi, l’insieme del sistema bancario europeo potrebbe ritrovarsi insolvente.
Al vertice di Bruxelles, mentre la Germania aveva proposto una “condivisione del dolore” (haircut) tra creditori pubblici e privati della Grecia, affinché i contribuenti europei non fossero gli unici ad assumere il fardello del debito greco, il salvataggio dell’economia greca è stato concepito in modo da risparmiare il più possibile le grandi banche. Subito esonerate dalla tassa bancaria che avrebbe potuto colpirle, queste ultime si sono viste accordare tre opzioni: vendere le loro obbligazioni al prezzo di mercato al FESF, scambiarle contro obbligazioni a 30 anni a condizioni non precisate, o semplicemente procrastinare il loro debito quando arriverà a scadenza (in questi ultimi due casi, il debito non sarà ridotto, ma soltanto scaglionato nel tempo). Ci si è anche ben guardati dal toccare le prerogative della Banca Centrale Europea, che avrebbero potuto essere estese al riscatto parziale del debito5. In definitiva, saranno i contribuenti a pagare per i Greci. Le banche, sostenute dalle banche centrali, dai mercati finanziari e dalle agenzie di rating, si ritrovano più che mai in posizione di forza, e dunque in una situazione privilegiata per alzare la posta in gioco. Ciò ha loro permesso di esigere a Bruxelles, mentre cercavano di smantellare le regole prudenziali adottate nel quadro di Basilea III, di ottenere il massimo di garanzie e di interessi come prezzo delle loro partecipazioni future. Nel 2008, gli Stati si erano indebitati per salvare le banche. Nel 2011, inventando nuove istituzioni ritenute in grado di aiutare gli Stati, le hanno salvate una seconda volta.
Come contropartita dell’aiuto portato alla Grecia, le istituzioni europee e il FMI hanno preteso da questo Paese drastici piani di austerità e di economie: ondate di privatizzazioni senza precedenti dei servizi pubblici negli aeroporti e nei porti (quello del Pireo è già sotto controllo cinese) passando per le industrie della difesa, deregolamentazione generalizzata, riduzione del numero dei funzionari, diminuzioni dei salari, riforme fiscali di cui faranno le spese le classi medie e popolari e tagli severi nei programmi sociali, nelle pensioni e nei bilanci della sanità ecc.; tutte misure che dovrebbero tradursi in un calo del potere d’acquisto di quasi il 40%, un costo sociale che nessun popolo ha mai dovuto subire in tempo di pace. In queste condizioni sarà facile, per dei gruppi stranieri, ricomprare il Paese a basso prezzo e reinvestire altrove i propri utili. Si sa già che i “piani di salvataggio” applicati alla Grecia dovrebbero fare passare la quota del debito ellenico nelle mani dei contribuenti stranieri al 64% nel 2014, contro il 26% del 2010. Nell’immediato, ci si orienta verso la vendita all’incanto dei beni del Paese. Proprio come hanno dichiarato, con cinismo, i deputati tedeschi Josef Schlarmann (CDU) e Frank Schäffler (FDP): «Per rimborsarci, i Greci debbono solo vendere le loro isole e i loro monumenti!».
In realtà, non si fa altro che rinviare le scadenze, dato che nessuna delle misure prese è in grado di eliminare le cause prime del fallimento greco. Poiché ogni nuovo prestito alla Grecia sfocia in un’ulteriore contrazione dell’attività economica, il problema si aggrava, invece di risolversi. L’aiuto finanziario accordato alla Grecia somiglia all’aiuto militare accordato all’Afghanistan, nel senso che permette solo di guadagnare tempo. Aggiunti ai differenziali d’inflazione del passato, la sopravvalutazione cronica dell’euro, l’aggravamento dei deficit e l’appesantimento dei debiti esteri che ne derivano non possono che finire per riproporre a breve il problema, dato che le stesse cause generano meccanicamente gli stessi effetti. Ci sono tutte le possibilità perché la Grecia debba, tra non molto, scegliere tra l’uscita dall’euro o l’impoverimento generalizzato della sua popolazione.
Le conseguenze della crisi greca sono tanto più degne di nota in quanto la Grecia rappresenta solo il 2,5% del PIL della zona euro. La sua economia è sei volte meno importante di quella di un Paese come l’Italia. Che cosa accadrà, quando si tratterà di salvare dei Paesi di dimensioni molto più grandi? La situazione può evolvere molto rapidamente. Non dimentichiamo che Paesi come l’Irlanda e la Spagna, oggi in prima linea, erano ancora poco tempo fa considerati debitori particolarmente sicuri in ragione dei loro eccedenti di bilancio: nel 2007, il bilancio irlandese era in equilibrio, il deficit del Portogallo non superava il 2,6% e la Spagna registrava un eccedente di bilancio del 2%. Da qui la paura di un contagio della crisi. A essere oggi in gioco, non è più la situazione della Grecia o del Portogallo, ma il prossimo ingresso della Spagna e dell’Italia, se non addirittura della Francia e della Gran Bretagna, nella zona delle tempeste. Philippe Dessertine, direttore dell’Istituto dell’alta finanza e professore a Paris-X, ritiene che la Francia sia «il prossimo Paese sulla lista»: «Il problema non è tanto sapere se saremo toccati», dice, «ma quando».
Secondo l’OCSE, affinché il debito pubblico della Francia ritorni al livello del 60% del PIL, le amministrazioni pubbliche dovrebbero realizzare un eccedente di bilancio per almeno dieci anni. Ora, l’ultimo bilancio eccedentario risale al 1974! Per migliorare la situazione, esistono, in linea di massima, solo due possibilità: aumentare le risorse dello Stato o diminuire le spese pubbliche. L’aumento dei prelevamenti obbligatori è difficilmente ipotizzabile, in un Paese che è già il più tassato al mondo tra i Paesi sviluppati. Quanto alle spese pubbliche, che rappresentano in Francia il 56,2% del PIL e quindi sono di gran lunga maggiori rispetto a quelle della Germania (46,6%) o anche della Spagna (45%), nessuno sa molto bene come ridurle per farle tornare alle giuste proporzioni.
Quando il debito pubblico diventa insostenibile – ossia quando il tasso di indebitamento supera il 35% del PNL – gli Stati possono scegliere solo tra il ricorso all’inflazione (ed è ciò che è accaduto in Germania sotto la Repubblica di Weimar) o l’insolvenza. L’instaurazione dell’euro ha reso impossibile il ricorso alla stampa di moneta cartacea. In effetti, la storia moderna dimostra che, al di là di una certa soglia, un debito troppo elevato conduce quasi ineluttabilmente al fallimento. Tenuto conto dei danni provocati dal solo affaire greco, non si vede come le istituzioni europee potrebbero fronteggiare una serie di insolvenze sovrane, successive o simultanee, di ampiezza molto più grande. «Nella presente realtà europea», scrive Frédéric Lordon, «al moltiplicarsi del numero di coloro che vengono soccorsi corrisponde una diminuzione dei soccorritori, anche perché questi ultimi vanno a raggiungere i precedenti nella loro categoria», il che equivale a dire che «gli splendidi meccanismi dei mercati di capitali concorrono con rara eleganza all’organizzazione del peggio, rendendo insolubile la crisi dei debiti da essi stessi partorita»6.
Una cosa è sicura: in Europa ci dirigiamo verso la messa in opera di una generale politica di austerità, le cui principali vittime saranno le classi popolari e medie, con tutti i rischi inerenti a una simile situazione. Quando nuovi Paesi si ritroveranno in stato di insolvenza, i cittadini dell’intera Unione Europea saranno ancora invitati a pagare il conto. Orbene, diciamolo chiaramente: nessun Paese ha oggi i mezzi per bloccare l’aumento del suo debito nella percentuale del suo PIL, nessuno ha i mezzi per rimborsare il capitale del suo debito. Malgrado tutte le manovre ritardanti, sembra ineluttabile un’esplosione generalizzata nel giro di due anni. Come molti altri, Jean-Luc Gréau ritiene impossibile un ripristino spontaneo del sistema7. L’economista Philippe Dessertine arriva fino a prevedere una «profonda crisi geopolitica, che potrebbe sfociare in una guerra mondiale»8: parole che possono sembrare allarmistiche, ma il sistema capitalistico non ha mai indietreggiato davanti all’eventualità di una guerra, quando questa era l’unica maniera che gli restava per proteggere i suoi interessi. Che cosa accadrebbe, se la prima potenza mondiale, gli Stati Uniti, si ritrovasse insolvente? In Europa, lo status quo attuale porta diritto, con i suoi effetti cumulati, a una depressione di ampiezza mai vista finora. Il 2012 sarà terribile!
I politici hanno ceduto il dominio della finanza ai mercati. I mercati, dal canto loro, sostenevano che gli affari finanziari erano troppo seri per essere lasciati in balia degli umori mutevoli dei politici. Si è visto il risultato: fallimenti a catena, crisi finanziaria mondiale, inflazione di debiti privati e pubblici. La finanza privata appare fin d’ora come responsabile della più enorme crisi della storia del capitale. Come se ne può uscire?
Le soluzioni, purtroppo, sono teoriche. Sul piano tecnico, sarebbe perfettamente possibile costringere le banche a fare passare per perdite e profitti una serie di elementi dei loro bilanci che corrispondono ad altrettanti crediti dubbi o illegittimi. Si potrebbe anche imporre una nuova disciplina bancaria, che vietasse alle banche d’affari di fondersi con le banche di deposito. All’epoca del New Deal, Roosevelt aveva già fatto adottare il Glass-Steagall Act, che imponeva al settore bancario di scindersi in banche d’affari e di investimento, da un lato, e banche di risparmio e di deposito dall’altro (questa disposizione è stata soppressa dall’amministrazione Clinton). Si potrebbe immaginare una politica fiscale, che permettesse di controllare meglio i movimenti di capitali a breve termine e di obbligare la BCE a finanziare il riacquisto a opera degli Stati di una parte del loro debito, o addirittura di sdoppiare il sistema dei tassi di interesse, in modo da distinguere bene il tasso di interesse “produttivo” e quello “speculativo”. La legge del 1973, che vietava alla Banca di Francia di acquistare buoni del Tesoro dovrebbe, evidentemente, essere abolita. Una misura più radicale sarebbe la nazionalizzazione pura e semplice, senza indennizzo, del settore bancario e di altri settori chiave dell’economia. Frédéric Lordon, che ha preso posizione per la nazionalizzazione del sistema bancario e la “comunalizzazione” del credito, fa di questi provvedimenti altrettanti preliminari all’ulteriore mutazione del credito in un sistema davvero socializzato. Il giorno in cui vedremo queste cose è però ancora lontano, dato che nessun Stato ha la minima intenzione di entrare in guerra aperta contro la finanza, anche (e soprattutto) quando quest’ultima l’ha dissanguato.
Sottomettere “dall’alto” i mercati internazionali a una nuova regolamentazione globale di tipo keynesiano è ormai quasi impossibile: nelle condizioni attuali, essa implicherebbe la creazione di tribunali in grado di esporre i mercati a vere sanzioni penali – ad esempio, in caso di speculazione su un bene collettivo come una moneta nazionale o di strumentalizzazione di un debito pubblico per organizzare il saccheggio di un paese – ma con ciò si resta nell’ambito del pio desiderio. La soluzione consiste piuttosto nel ricentrare l’Europa su se stessa, con una rafforzata cooperazione intorno a un “nocciolo duro”» di alcuni suoi membri.
Come scrive ancora Frédéric Lordon, «il ritorno a una regolazione “seria” è ipotizzabile solo su scala regionale», ossia su spazi geograficamente limitati, ma anche politicamente chiusi da un principio di sovranità, qualunque sia la scala di quest’ultimo. Delle misure restrittive possono essere esecutive soltanto in tali limiti. In questo quadro, la soluzione non passa soltanto attraverso misure tendenti all’imposizione politica degli eccessi del capitale, ma anche attraverso la rilocalizzazione delle imprese, con il sostegno di incentivi fiscali, il ricentraggio della produzione e del consumo economico, il localismo, la regolamentazione regionale ecc.: tutte misure equivalenti a una certa forma di “deglobalizzazione”9.
Tornare sulle liberalizzazioni generalizzate, a cominciare da quelle dei capitali e dei mercati di beni e servizi, permetterebbe di andare oltre; ma ciò esigerebbe, insieme a una volontà politica che oggi manca10, l’abbandono definitivo del paradigma ideologico attualmente dominante. «Nel cuore stesso dell’ideologia capitalistica», ricorda opportunamente Raoul Weiss, «si trova il rifiuto viscerale dell’unificazione politica degli spazi unificati de facto dall’economia»11. Dall’epoca di Adam Smith, di David Hume e di Bernard de Mandeville, e poi di Ricardo, la teoria dei “mercati liberi” si fonda sull’abbandono, da parte degli Stati, della loro sovranità nazionale; farla finita con questa situazione equivarrebbe a rompere con tutti i presupposti liberali sulla “mano invisibile”, sulla “libertà dei mercati”, sulle “anticipazioni razionali”, sul ruolo “fondatore” della concorrenza “spontanea”, sui benefici della “flessibilità” e del libero scambio, sulla teoria “dell’equilibrio automatico” del commercio internazionale eccetera. Equivarrebbe a mostrare che tutte queste teorie si fondano non su “leggi naturali”, ma su ipotesi irrealistiche (informazione perfetta e immediata degli attori economici, aggiustamento spontaneo dell’offerta e della domanda ecc.), che ne distruggono la presunta scientificità.
Nell’immediato, la contestazione dell’“alta finanza” o dei mercati finanziari internazionali non ha alcun interesse, se viene fatta, come si vede spesso a destra, per favorire al contempo i piccoli capitalismi nazionali, industriali e “non finanziari”, che smetterebbero di costituire dei sistemi di sfruttamento del lavoro vivo, una volta che le loro attività fossero inserite nel quadro nazionale. E non ha alcun interesse anche se viene fatta, come si vede spesso a sinistra, per opporre ai maneggi del capitalismo liberale una semplice retorica “cittadina”, il più delle volte separata dal popolo, fondata sull’“indignazione” moralistica, sul riformismo compassionevole e sulla solidarietà con gli “esclusi” (termine preso a prestito dal lessico “umanitario”, per non dovere più parlare dei lavoratori o del proletariato).
Non sarà certamente limitandosi a “indignarsi”, come è considerato di buon gusto fare oggi, che si cambieranno le cose. L’indignazione che non sfocia nell’azione concreta è soltanto un modo comodo di sentirsi a posto con la coscienza. Solo l’intervento risoluto delle classi popolari e delle classi medie nella battaglia può dare all’“indignazione” suscitata dalle pratiche della Forma-Capitale, o semplicemente al malcontento antibancario, la base sociale che fa loro ancora difetto; questo, comunque l’azione da condurre si situi, al di qua o al di là dei limiti della legalità borghese.

Alain de Benoist

Note
[1]) Cfr. PBS+Global Research, 16 aprile 2010. Nel primo trimestre del 2010, l’80% dei 10 miliardi di euro di redditi, transazioni e investimento, guadagnati dalla celebre banca Goldman Sachs, sono il risultato di operazioni effettuate a suo nome e non a nome dei clienti; questo, d’altronde, non le ha impedito di subire un tasso di imposizione irrisorio, che ha portato il settimanale Newsweeck a parlare di «fallimento morale di Goldman Sachs». Cfr. anche “La fallite morale de Goldman Sachs”, in Courrier international, 6 maggio 2010. All’inizio del giugno 2011, la Goldman Sachs è stata oggetto di una richiesta di informazioni da parte del procuratore di Manhattan, al fine di valutare il suo coinvolgimento nella crisi immobiliare del 2007. La banca aveva allora scommesso sul crollo del mercato immobiliare, continuando al contempo a vendere dei subprimes adulterati. Henry Paulson, nel 2006 nominato Segretario al Tesoro da George W. Bush, è un ex presidente della Goldman Sachs. L’ex Commissario europeo Mario Monti ne è uno dei consiglieri dal 2005, ruolo rivestito anche dall’ex Presidente della Commissione europea Romano Prodi. La banca è molto generosa, con coloro che la servono: i suoi cinque principali dirigenti nel 2010 hanno ricevuto circa 70 milioni di dollari di salari e bonus; il suo direttore esecutivo, Loyd Blankfein, ha ricevuto 14,6 milioni di dollari.
2) Paul Jorion, Le capitalisme à l’agonie (Fayard, Parigi 2011). L’autore descrive in particolare la pratica del day-trading, cioè l’azione cumulata di coloro che intervengono sui mercati finanziari per spiare i movimenti dei grossi speculatori e mettersi sulla loro scia, trasformando così certe transazioni in un’immensa onda anomala, che falsa completamente la valorizzazione dei titoli.
3) Sécurité globale, estate 2011, p. 59.
4) Jean-Luc Gréau, « Le rétablissement ou la rechute? », in Le Débat, settembre-ottobre 2010, p. 41.
5) L’indipendenza della BCE, che si era opposta in anticipo a ogni riassetto del debito greco suscettibile di somigliare a qualcosa di simile a un credito, costituisce d’altronde un problema. Si sa che il suo nuovo direttore, Mario Draghi, subentrato nel giugno del 2011 a Jean-Claude Trichet, aveva occupato fino a quel momento il posto di governatore della Banca d’Italia. Ora, il personaggio è molto controverso. A capo del Tesoro italiano, ha svolto un ruolo importante nelle grandi privatizzazioni decise in Italia al momento del passaggio all’euro; ma soprattutto, dal 2002 al 2005, è stato vicepresidente internazionale preposto all’Europa della banca americana Goldman Sachs, istituto direttamente coinvolto nella crisi greca, avendo, nel 2001, aiutato la Grecia a dissimulare l’ampiezza del suo debito (in cambio di una commissione di 300 milioni di dollari!). Si fatica a credere che domani saprà opporsi a ciò di cui ieri è stato il promotore.
6) « La pompe à phynance », blog di Le Monde diplomatique, 2 dicembre 2010.
7) Art. cit.
8) Le Point, 13 luglio 2011.

mercoledì 19 dicembre 2012

Natale, è tempo di (non) comprare

È tempo di feste e Federconsumatori, Codacons, Confesercenti (eccetera eccetera) sono profondamente preoccupati per il calo delle spese natalizie, a -12%. Come se il problema delle famiglie italiane fosse poter mangiare panettone il 25 dicembre.

Niente ristorante, niente vestiti nuovi, niente viaggi e nemmeno giocattoli (-20%), una voce che a Natale aveva sempre retto vista la naturale predisposizione italiana a non far mancare nulla ai figli, fosse anche l'ultima riproduzione del marziano visto in TV.
L'allarme è chiaramente legato al conseguente calo di fatturato che le imprese dovranno affrontare in quello che è sempre stato invece un periodo dell'anno da vacche grasse: se anche nella "ricca" Trento i negozi sono costretti a "saldi" prenatalizi la situazione, anche per loro, non deve essere delle più rosee. E questo anche se, ed è dovere ricordarlo, la categoria commercianti non è propriamente quella più facilmente attaccabile dalla crisi, in termini assoluti: hanno ricarichi considerevoli sulla merce, e per anni si sono arricchiti non avendo nulla a che vedere con il mancato aumento degli stipendi ma invece traendo vantaggio dall'aumento dei prezzi. Certo è che il calo dei consumi, continuo e inesorabile, ha creato dal 2008 ad oggi un vero e proprio "buco" nel mercato ma se pandori e panettoni rimangono sugli scaffali, anche se venduti a metà prezzo, non c'è altra soluzione: impastarne di meno.

Le famiglie medie italiane invece, in cui di solito il reddito è uno solo e - quando va bene - da reddito dipendente, fanno davvero i conti con la crisi. Ieri sera a Ballarò, tanto per citare gli ultimi dati, è stato fatto un bel quadro della situazione: nell'ultimo anno 2,5 milioni di famiglie sono state costrette a vendere oro e gioielli, mentre in 300mila hanno dovuto vendere mobilia e opere d’arte per poter arrivare a fine mese. Ma non finisce qui: addirittura il 3% dei nuclei familiari in Italia ha venduto una casa di proprietà, senza potersi permettere di acquistarne un'altra, per poter mettere qualcosa in tavola.

venerdì 24 agosto 2012

Spreco di cibo: non siamo solo "quello che mangiamo"

Nonostante la crisi economica lo spreco di cibo non si arresta.

A fare da maestri gli Stati Uniti. I cittadini USA (e getta) buttano via il 40% del cibo che comprano. E questo nonostante siano colpiti da una siccità senza precedenti.
Ogni anno una famiglia di quattro persone getta in media una spesa di circa 1.800 euro, non solo fregandosene del vicino che muore di fame, ma anche della propria salute, oltre che culturale, economica: i prezzi dei generi alimentari sono destinati ad aumentare rapidamente.

Negli Stati Uniti si butta via il 52% della frutta e verdura che si ha in casa, il 50% del pesce, il 38% della pasta, il 22% della carne, il 20% del latte. Una montagna di cibo del valore di 131 miliardi di dollari: quasi 30 volte il prodotto interno lordo del Niger, uno dei Paesi più poveri e affamati della Terra.

I dati vengono all'indomani del messaggio di Obama all'atterraggio della sonda Curiosity, che esulta: «Supremazia americana nello spazio e sulla Terra».

mercoledì 23 maggio 2012

La mafia e i mafiosi

Vent'anni. Tanto è passato dal giorno in cui persero la vita Giovanni Falcone, sua moglie il magistrato Lucia Francesca Morvillo e tre agenti in scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Piena la cronaca di ricordi di quel giorno. In onda il discorso di Giorgio Napolitano, con tanto di lacrime, il richiamo alla lotta alla mafia e alla necesità di non dimenticare.

Eppure, lontani dalla retorica di questi giorni, che vedono ancora più imbellettati i leader di partito all'indomani dell'attentato di Brindisi e del calo di affluenza alle amministrative, abbiamo ben dimenticato cosa significhi fare la lotta alla mafia. Meglio ancora, abbiamo cominciato a considerarla confinata in una certa organizzazione a delinquere, e in un certo territorio, senza considerare che la piovra estende i suoi tentacoli fino ai vertici dello Stato, per crescere e sopravvivere, senza pensare che se non di "Mafia" di "mafioso" si può parlare in tutta una serie di comportamenti politici, economici, personali con i quali dobbiamo fare i conti tutti i giorni.

La Bce, gli USA e l'Ue si muovono insieme, in connivenza con le banche, tiranneggiando su interi Stati e popolazioni, in accordo con parlamenti senza spina dorsale. L'informazione è ammutolita e stupida di fronte agli avvenimenti. Molti "giornalisti" lo sono inconsapevolmente: non danno le notizie non perchè non vogliano farlo, ma perchè non le capiscono nemmeno loro. Sono anche loro figli di questa società, che nasconde e raggira, donando solo l'illusione della giustizia e della legalità in cambio dell'eterna ignoranza.
La politica, quella con la p minuscola, si nutre delle illusioni dell'elettorato, passando da uno scandalo all'altro, chiamando così ciò che scandalo non è: è ormai normalità. Figli inseriti in amministrazioni pubbliche senza merito, soldi sottratti alla pubblica utilità, stipendi da capogiro, assunzioni inutili a scapito delle casse statali.

Leopoldo Franchetti, politico e studioso classe 1847, disse una volta: «La Mafia è un sentimento medioevale; mafioso è colui che crede di poter provvedere alla tutela e alla incolumità della sua persona e dei suoi averi mercé il suo valore e la sua influenza personale indipendentemente dall'azione dell'autorità e delle leggi».

E in questo senso in Italia e non solo, intendendo per "autorità" e "leggi" anche qualcosa che va al di là di quelle contingenti, siamo tutti "mafiosi".

Sara Santolini

giovedì 10 maggio 2012

Monti e il 'vizio' del debito che cresce a ritmi record

Sembra che il premier chiamato a risolvere il problema del debito stia fallendo miseramente nel suo intento: una ricerca condotta da Adusbef e Federconsumatori mostra infatti che il debito pubblico italiano sta crescendo a ritmi record. Ma questa, per Mario Monti non è una novità. Basta andare un po' indietro negli anni per scoprire il vizio del debito, il premier l'ha sempre avuto. (da ilcambiamento.it)

di Andrea Degl'Innocenti

Monti e il debito. C'è qualcosa che lega indissolubilmente il nostro premier al debito sovrano del nostro paese. Nonostante questi si lanci in critiche, accuse, moniti; nonostante dipinga il debito come una divinità malvagia da sconfiggere a tutti i costi, al cui altare è necessario sacrificare diritti sociali e di cittadinanza, salute, istruzione e in qualche caso persino la vita, ogniqualvolta egli si trovi in posizioni di potere il mostro prolifera come non mai.
Sono dati di qualche giorno fa quelli raccolti da Adusbef e Federconsumatori, che certificano che il governo Monti detiene record dell’esecutivo che, negli ultimi 15 anni, ha registrato la crescita mensile del debito pubblico maggiore: 15,4 miliardi. Roba da far impallidire persino Berlusconi. Da febbraio 2011 a gennaio 2012 il debito è passato da 1.875,917 euro a 1.935,829, con un aumento di 59,912 miliardi. E continua a crescere. Sotto l'attuale governo, ogni minuto che passa il nostro debito aumenta di 360mila euro. E non è la prima volta che Monti combina scherzi di questo tipo.
Più volte il premier Mario Monti si è mostrato piuttosto duro con i suoi predecessori. Proprio oggi li ha accusati, nientemeno, di avere sulla coscienza l'ondata di suicidi e la carneficina sociale attuali. “Le conseguenze umane” della crisi, ha affermato, “dovrebbero far riflettere chi ha portato l'economia in questo stato e non chi da quello stato sta cercando di farla uscire. Lo stato negativo e per certi versi drammatico dell'economia italiana è figlio di una insufficiente attenzione prestata in passato alle scelte di lungo periodo per le riforme strutturali”.
Giusto. Eppure, se torniamo un po' indietro nel tempo a vedere quali sono stati i governi, prima dell'attuale, a causare una maggiore crescita del debito, vediamo che un altro record spetta a Giulio Andreotti, nel doppio mandato dal 1989 1992. In quel periodo il debito passò da 553 miliardi circa di euro (attualizzati ad oggi) a 799 miliardi. Un incremento di 246 miliardi, il 44,53% in tre anni, fra i record assoluti della storia della Repubblica italiana. Anche volendo confrontare il dato con la relativa crescita del pil, l'aumento resta comunque impressionante, di circa il 13 per cento nel rapporto debito/pil. Ai tempi il ministro del bilancio era Cirino Pomicino, detto 'o ministro. E indovinate chi fu il suo maggiore consulente in ambito economico? Già, proprio il nostro Mario Monti.


Ma non è ancora finita. Torniamo più indietro negli anni, e andiamo al 1981. È l'anno dello storico divorzio fra Tesoro e banca d'Italia. Fino ad allora la banca centrale era obbligata a comprare i buoni emessi dal tesoro, e lo faceva a tassi agevolati. In seguito lo stato fu costretto a mettere le proprie obbligazioni sui mercati finanziari, con interessi che dipendevano dalle leggi del mercato di domanda e di offerta.
Ad ogni modo, proprio in quell'anno ci si trovava a dover decidere le nuove strategie di finanziamento dello stato. Ed ecco rispuntare il nome di Mario Monti, allora giovane e rampante economista. Ecco, di seguito, come ricostruisce la vicenda il Generale Piero Laporta in un articolo per Italia Oggi.
“Nel giugno 1981, una commissione di studio, presieduta da Paolo Baffi, direttore generale di Bankitalia, deliberò di seguire lo schema d'un giovanotto, molto stimato dai Rothschild, tale Mario Monti, il quale propose l'emissione di titoli a lungo termine, con aste mensili e quindicinali, in modo che il rendimento cedolare fosse fissato dal mercato, con scadenze tra i 5 e i 7 anni. Il che, a detta del professorino, garantiva il potere d'acquisto e, secondo gli esiti delle aste, un piccolo rendimento dell'1-2%. Il Tesoro, zufolò Monti, avrebbe avuto da 5 a 7 anni per programmare e finanziare meglio la spesa pubblica.


Non andò così. Gli interessi sul credito che veniva concesso furono fin da subito enormi, e il deficit italiano balzò immediatamente alle stelle, tanto che si resero necessarie nuove tasse. “Aumentarono tasse e benzina – continua Laporta -, le spese sanitarie sfondarono di mille miliardi di lirette il finanziamento statale”. Un altro disastro insomma.
Eppure, a dispetto del suo curriculum (a dire il vero piuttosto difficile da rintracciare), Monti è chiamato oggi a risanare il debito. E, a dispetto dei risultati passati e presenti (e - è lecito temere – futuri) gode di una stabile maggioranza parlamentare e in molti sono ancora convinti che stia lavorando bene, che i sacrifici da lui richiesti siano necessari e così via.

lunedì 7 maggio 2012

Disoccupazione ai massimi storici

Se avete pensato che la crisi di questi anni è stata durissima, aspettate di vedere cosa succederà in quelli a  venire.


La notizia peggiore in assoluto è quella relativa alla disoccupazione, che è ormai ai massimi storici nel nostro Paese. Soprattutto è una cattiva notizia l'incidenza sui giovani, la cui disoccupazione sfiora il 36%. Questo dato significa che non ci saranno a breve nuovi nuclei familiari, e i giovani d'oggi non avranno un futuro da costruire, con tutto quello che ne deriva in termini di stabilità sociale. Inoltre il dato negativo è nella realtà ancora peggiore: nel novero dei disoccupati non ci sono le persone che cercano un'occupazione senza rivolgersi alle Agenzie del lavoro. E c'è da credere che in parecchi abbiano perso la speranza di venir chiamati e si muovano spulciando gli annunci sui giornali o su internet.

La situazione è grave soprattutto se confrontata con l'aumento di suicidi per "motivi economici", che vanno di pari passo con i licenziamenti con la stessa causa. E questo soprattutto in attesa della reazione - - della popolazione ai tagli ai servizi, alle pensioni, al reddito, ai posti di lavoro.

Ecco la notizia ANSA:

Il tasso di disoccupazione a marzo è al 9,8%, in rialzo di 0,2 punti percentuali su febbraio e di 1,7 punti su base annua. E' il tasso più alto da gennaio 2004 (inizio serie storiche mensili). Lo rileva l'Istat (dati destagionalizzati e provvisori). Guardando le serie trimestrali é il più alto dal terzo trimestre 2000.

Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) a marzo è al 35,9%, in aumento di due punti percentuali su febbraio. E' il tasso più alto dal gennaio 2004 (inizio delle serie storiche mensili). Lo rileva l'Istat (dati destagionalizzati e provvisori). Guardando le serie trimestrali é il più alto dal quarto trimestre 1992.

Quindi, risulta disoccupato oltre un giovane su tre tra i 15-24enni attivi, ossia coloro che hanno un lavoro o lo cercano (forza lavoro).

Il numero dei disoccupati a marzo è di 2 milioni e 506 mila, in rialzo del 2,7% su febbraio. Lo rileva l'Istat (dati destagionalizzati e provvisori). Su base annua il rialzo è del 23,4%. E' il livello più alto da gennaio 2004 (inizio serie storiche mensili). Con riferimento alle serie storiche trimestrali è record da IV trimestre 1999.

Il numero dei disoccupati a marzo è aumentato su base annua di 476 mila unità (+23,4%) e su base mensile di 66 mila. Il dato annuale risente dell'aumento delle persone sul mercato del lavoro, gli inattivi tra i 15 e i 64 anni, infatti, sono diminuiti di 427.000 unità.

A marzo gli occupati sono 22 milioni e 947 mila, in diminuzione dello 0,2% su febbraio, ovvero 35 mila unità in meno, e dello 0,4% rispetto a marzo 2011, pari ad un calo di 88 mila unità. Il risultato è determinato dal calo dell'occupazione maschile.

A marzo il tasso di occupazione è pari al 57%, in lieve calo, di 0,1 punti percentuali, in termini congiunturali e in flessione di 0,2 punti su base annua. Lo rileva l'Istat (dati destagionalizzati e provvisori). Risultano anche in diminuzione gli inattivi (15-64 anni), ovvero le persone che non sono né occupate né in cerca di lavoro: il calo è dello 0,3% (-40 mila unità) su febbraio, con il tasso di inattività che si posiziona così al 36,7%, con una flessione di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 1,1 punti su base annua. Da questi dati emerge come l'aumento del numero di disoccupati e del relativo tasso deriva principalmente dal fatto che coloro che prima erano inattivi ora si sono in cerca di un lavoro. Mentre il calo dell'occupazione è meno accentuato, anche, perché, probabilmente, facendo riferimento agli ultimi dati trimestrali, gli occupati adulti restano più a lungo a lavoro, sia per l'allungamento della vita media che per gli interventi sul sistema pensionistico.

Il tasso di disoccupazione maschile cresce di 0,3 punti percentuali su febbraio, portandosi al 9,0%; quello femminile segna un aumento di 0,1 punti e si attesta all'11,0%. Rispetto all'anno precedente, quindi, il tasso di disoccupazione maschile sale di 1,6 punti percentuali e quello femminile di 1,9 punti. La crescita della disoccupazione interessa così sia gli uomini sia le donne. In particolare, gli uomini disoccupati salgono del 3,9% rispetto al mese precedente e del 23,4% su base annua; il numero di donne disoccupate aumenta dell'1,3% rispetto a febbraio e del 23,4% in termini tendenziali.

lunedì 30 aprile 2012

Beppe Grillo? Fa semplicemente paura

Se c'è una cosa semplice e palese che questi giorni di chiacchiere infinite su Beppe Grillo e sul Movimento 5 Stelle, che piaccia o no in forte ascesa, fanno venire a galla è la paura fottuta che hanno di lui, ma soprattutto dell'affermarsi di un movimento politico del genere, tutti quelli che sono stati in sella sulle poltrone del potere fino ad oggi. Paura fottuta. Lo dimostra Telese quando durante una trasmissione televisiva finge di non capire che differenza ci sia tra il finanziamento pubblico di un partito e l'autotassazione dei suoi rappresentanti eletti. Lo dimostra la parola d'ordine che gira di bocca in bocca a Palazzo Madama in proposito: "pagliaccio".

Ora, al di là di quello che è e sarà il Movimento 5 stelle e i "grillini", bisogna riconoscere al progetto politico che gira attorno alla figura di Beppe Grillo almeno qualche merito. E quello più eclatante, e che dovrebbe renderlo "simpatico" anche a chi non lo voterebbe mai, è proprio questo brivido terribile che provoca nelle schiene dei deputati che siedono in Parlamento. E quale italiano, strangolato dalle tasse o senza lavoro, vedendoli agitare sulle sedie rossi in viso mentre cercano argomentazioni che non hanno, non prova, almeno per un attimo, un moto di intima soddisfazione?

venerdì 9 marzo 2012

Hugo Cabret - un film di Martin Scorsese



Hugo Cabret è un personaggio istintivo che con la perseveranza che solo un bambino può conoscere riesce a vincere il suo destino. Un ragazzino efebico dagli occhi azzurri come il ghiaccio che conosce un mestiere affascinante: quello di "aggiustare le cose" e "far andare il tempo". In mezzo ai meccanismi che si muovono, uno a uno, in un unico immenso corpo, il ragazzo ritrova il suo posto e, quasi per caso, rende possibile che anche chi è attorno a lui ritrovi il proprio.


La pellicola, un 3D del 2011, tratta dal romanzo "La straordinaria invenzione di Hugo Cabret" di Brian Selznick del 2007, è un atto d'amore per il cinema e per chi al cinema ha dedicato tutte le sue forze, impersonato nel maestro Georges Méliès, cui dobbiamo l'invenzione del cinema di finzione e di numerose tecniche cinematografiche, in particolare del montaggio.


Golden Globe a Martin Scorsese per miglior regista, il film ha ottenuto 11 nomination agli Oscar 2012 e 5 statuette: migliore fotografia a Robert Richardson, migliore scenografia a Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, miglior sonoro a Tom Fleischman e John Midgley, miglior montaggio sonoro a Philip Stockton e Eugene Gearty, migliori effetti speciali a Robert Legato, Joss Williams, Ben Grossmann e Alex Henning. 


Da vedere.

La Voce del Ribelle

Seguite l'informazione libera di www.ilribelle.com
I miei articoli, qui.

Visco ci vuole tutti schiavi. A vita


"Lavorare di più e più a lungo"
Per fare cosa è chiaro.
1) Pagare contributi tutta la vita e morire sul posto di lavoro prima di arrivare a percepire la pensione
2) Cinesizzarsi per riuscire appena ad arrivare alla fine del mese. E spesso neanche quello 
3) Continuare a stare alla macina, come animali, per pagare gli interessi sugli interessi imposti dalla speculazione internazionale (di cui Visco fa parte) 
4) Abbrutirsi di fatica. E vivere unicamente per lavorare, peraltro guadagnando sempre meno 
A questo punto, la vera ribellione è cercare di lavorare meno. Sempre meno. Sempre meno. E passare il resto del tempo in altre attività.
Senza salario. Per se stessi. È il discorso che Maurizio Pallante porta avanti da anni, e spiega con precisione scientifica, per chi si prenda la briga di leggere (tra gli altri) i suoi libri. Il concetto chiave è quello che vuole indicare come "occupate" unicamente le persone che percepiscono un salario, mentre le altre - tutte le altre: dalla madre che cresce i figli, a chi ripara da sé la propria casa, a chi produce da sé ciò che gli serve per mangiare, a chi dona se stesso per accudire altre persone e via dicendo - sono semplicemente "disoccupate".
Sia chiaro, è evidente che nel nostro mondo (per ora) si debba necessariamente fare qualche lavoro che comporti il ricevere denaro in cambio, perché, molto semplicemente, ci sono merci (soprattutto merci, ma anche pochi altri veri beni) che necessitano di essere acquistati. Ma il punto, volenti o meno, è esattamente questo: meno si necessita di cose che è indispensabile acquistare, più si è liberi. Più, finalmente, si può lavorare di meno.
È essenziale che tutti quelli che sentono disagio in questo mondo, tutti quelli animati da seri moti di ribellione, evitino di cadere in una trappola terribile: pensare che semplicemente cambiando alcune regole del gioco, di questo gioco, si possa tornare a vivere una vita più degna di essere vissuta. Così come quelli che credono che prima o poi, pur rimanendo in questo modello, qualcosa possa cambiare. Grossomodo attendono un miracolo con un atto di fede. 
Ora, impostare tutta la propria vita su un atto di fede - fede peraltro in questo sistema di sviluppo - equivale alla donnina che gioca al gratta e vinci. Ecco, si deve spazzare via questo concetto. È indispensabile capire che per cambiare davvero le proprie condizioni si deve decidere proprio di sottrarsi a questo gioco. Si deve uscire, per quanto più è possibile, da questo casinò. Perché è proprio nella sua natura intrinseca obbligarci a vivere per lavorare e per consumare. La cosa comporta delle rinunce, è inevitabile. Si tratta di capire se sono più insopportabili queste rinunce oppure è più insopportabile pensare di vivere tutta la vita come schiavi. Non ci sono mezze misure: il sistema ci ha portato, di fatto, a una situazione di guerra. Come è possibile non considerare come una dichiarazione di guerra le parole di Visco? Come è possibile soprassedere alle imposizioni che questo modello, soprattutto oggi, con le conseguenze della crisi economica attuale dalla quale - è evidente -non usciremo, ci infligge?
Ci hanno già tolto buona parte di quello che avevamo: le pensioni, il welfare, la dignità di fare un lavoro che almeno ci permettesse di arrivare alla fine del mese senza affanni. E ora ci intimano di dover rimanere in questa situazione per tutta la vita.
Insomma delle due l'una: o si accetta tutto, o camusianamente si "dice no". E si cercano altre strade. I più, a un discorso di questo tipo, generalmente rispondono con sufficienza e sdegno, evitano di entrare nel cuore del problema semplicemente rispondendo che una strada differente non esiste, e che siamo condannati a vivere in questo modo. Sono persone asfissiate dalla catena che hanno al collo. In buona parte sono persone già pronte, consciamente o meno, a vivere una vita di questo tipo. Il che equivale a dichiararsi già morti. 
Ma la ribellione è dei vivi. Costi quel che costi. Anche dover percorrere altre strade che non si conoscono. O anche doverne costruire di nuove passando per il bosco con un machete. Perché il resto, la vita che ci prospettano i visco attuali, è peggio.
Valerio Lo Monaco

giovedì 1 marzo 2012

No Tav. La legalità è un vicolo cieco



da "La Voce del Ribelle":


Ieri il drammatico incidente a Luca Abbà, che pressato dai poliziotti – e in particolare dallo “scalatore” che si stava arrampicando sullo stesso traliccio su cui era salito lui – è venuto a contatto con i fili dell’alta tensione subendo una forte scossa, ed è poi precipitato al suolo da più di dieci metri di altezza riportando traumi assai gravi, anche se si spera non mortali né invalidanti. E dopo l’incidente le manifestazioni di protesta sia in diverse città, tra cui Roma, sia in loco, con numerosi attivisti impegnati a bloccare la A 32.


Oggi il lungo testa a testa sullo stesso tratto autostradale, con le Forze dell’ordine schierate in assetto anti-sommossa e i dimostranti che stando alle cronache fronteggiano gli agenti a colpi di sberleffi, insulti e quant’altro. I veri e propri scontri che vengono evitati, ma che rimangono nel novero delle possibilità che non si possono certo escludere. Basterebbe che qualcuno, da una parte o dall’altra, perdesse l’autocontrollo, o decidesse deliberatamente di passare a vie di fatto, e la tensione esploderebbe in pura violenza.


Detto così sembra un’ovvietà. Ma smette di esserlo se si esce dalla dimensione a scartamento ridotto degli avvenimenti di giornata e si collocano gli eventi in una prospettiva più ampia. Che è quella del rapporto tra governo centrale e popolazioni locali, in presenza di una divergenza insormontabile, e quindi di un dissidio insanabile, fra le due fazioni. La questione sul tappeto è di una brutalità elementare: il governo, forte del suo potere politico e della legalità delle procedure adottate fin qui, vuole costruire un’opera pubblica che sconvolgerà il territorio, e quindi la vita, dei cittadini che in quel luogo ci abitano; tali cittadini, in quanto diretti interessati allo scempio, cercano in ogni modo di impedirlo, senza però avere nessuna legittimazione formale a opporsi.


Una via senza uscita, come si vede. Che trova un sintesi perfetta, e involontaria, nelle due dichiarazioni che si ritrovano accoppiate in un “occhiello” a corredo di un articolo pubblicato sul sito del Corriere: «Il ministro Cancellieri: “Serve molto dialogo”. Ma Passera: “Il lavoro va avanti”». Cancellieri, in quanto ministro degli Interni e responsabile dell’ordine pubblico, auspica un chiarimento pacifico. Passera, in quanto ministro dello Sviluppo economico, ribadisce che quel chiarimento è un optional. Se arriva, tanto meglio; se non arriva, si tira dritto lo stesso. Esattamente come nel caso della riforma del lavoro: Mario Monti ed Elsa Fornero incontrano le parti sociali per discutere le misure che si preparano a introdurre, ma non esitano ad anticipare che l’eventuale, o probabile, contrarietà degli interlocutori non basterà a dissuaderli, in tutto o in parte. Che è come dire che i genitori, bontà loro, sono disposti a spiegare i figlioli per quali motivi li metteranno in castigo o gli taglieranno la paghetta, mentre ai rampolli non resta che uniformarsi a tali decisioni. A meno di esporsi a punizioni più drastiche, come si conviene a chi osa ribellarsi all’autorità paterna o materna.


In Val di Susa sta accadendo proprio questo. Mamma Politica, e papà Capitalismo, hanno stabilito che la linea No Tav deve essere costruita, e il massimo che sono disposti a concedere è di perdere un (altro) po’ di tempo a rabbonire quei cuccioli riottosi. Pazienza, se abbaieranno un (altro) po’. Pazienza, purché sfogando la propria rabbia finiscano con l’esaurirla. O col rendersi conto che è perfettamente inutile.


Lo schema, però, si presta anche a essere rovesciato. E anzi deve esserlo, prima ancora di qualunque altra decisione pratica. I manifestanti devono a loro volta comprendere che non esistono margini di autentico confronto, né possibilità alcuna di un accomodamento di reciproca soddisfazione. Non c’è nessun equivoco da dissipare. Non c’è nessuna mediazione da condurre in porto, sia pure faticosamente e dopo chissà quante liti.


Qui c’è solo un’imposizione, benché abbellita – o piuttosto incartata – con qualche strato superficiale di finta democrazia. La verità è ben diversa. Nel rispetto delle leggi vigenti, e al cospetto dei potentati che quelle leggi le hanno volute, i cittadini della Val di Susa non hanno scampo. E chiunque sostenga di no li sta ingannando: in attesa di ingannarne innumerevoli altri, via via che verranno assoggettati a chissà quanti espropri di terre, di diritti, di futuro.


Federico Zamboni

mercoledì 15 febbraio 2012

20 anni di sacrifici: parola di Monti

No alle Olimpiadi. Troppo costose, e fuori luogo. Ok, giusto.
Ma il punto è un altro: voi quanti anni avrete, tra 20? 

Abbiamo davanti 20 anni - "come sapete" - di sacrifici. Il governo Monti dice no alla candidatura di Roma per le Olimpiadi 2020. Il che, francamente, non fa una piega: sono ancora aperte le ferite per le spese folli e inutili degli ultimi Mondiali di nuoto e a dire il vero sono ancora aperte quelle dei Mondiali di calcio di Italia 90. Ridicolo spendere per un baraccone come quello di Roma 2020. Ma la cosa da mettere a fuoco è un'altra. Abbiamo davanti un periodo lunghissimo di ristrettezze e sacrifici.

Queste le parole di Monti. Naturalmente non ce ne importa nulla di commentare il no alle Olimpiadi di Roma quanto di capire il vero punto del giorno. E del futuro.

Dunque 20 anni di sacrifici.

Intanto, non lo sapevamo affatto, come invece sembra voler far percepire il premier. O meglio, ancora la cosa non era stata esplicitata, anche se almeno su questo giornale ce lo siamo detti spesso. Invece adesso è ufficiale, se anche il "professore" ha parlato così chiaro.

Ma il punto è che le parole di Monti, sebbene a nostro avviso vadano considerate per "difetto" sulla durata del purgatorio, sono una vera e propria bomba. Perché comunque esplicitano una data, una ipotesi di "fine pena". Sulla quale, come tutti i condannati dopo aver ascoltato la sentenza, vale la pena di ragionare.

Voi quanti anni avrete, tra vent'anni? Siete disposti a vivere vent'anni d'inferno e a ritrovarvi tanto avanti negli anni (già anziani?) il giorno in cui - e sono solo previsioni - si potrà tornare, secondo Monti, semplicemente ai livelli ante-crisi in cui peraltro non è che si stava poi così bene?

Insomma questo è quanto. Ce ne è abbastanza per una rivoluzione, se solo gli italiani capissero cosa significa. Se solo avessero ancora sangue nelle vene.

Ma senza andare troppo in là, ce ne è abbastanza per fermare ogni tipo di investimento, personale o aziendale, per bloccare immediatamente ogni spesa, ogni rata, ogni cosa: per vent'anni, nisba, niente da fare. Nessuna ripresa, nessun miglioramento rispetto ad adesso. Anzi, semmai andrà peggio, proprio per il processo dell'effetto domino innescato dalle misure appena prese e da quelle che presumibilmente saranno prese a breve. Altro che sciopero della Fiom, altro che Camusso e compagnia cianciando. 

vlm


lunedì 6 febbraio 2012

Spot Fiat. «Questa è l’Italia che piace»…

Mentre scorre in tv l’ultima trovata pubblicitaria Fiat di dubbio gusto Standard & Poor’s si accinge a rivedere al ribasso le sue previsioni sull’azienda. E Marchionne, a sua volta, si appresta a vendere poco meno di 2 milioni di azioni.

È venerdì passato e ancora la Fiat non ha subìto il calo in Borsa, legato in buona parte alla spada di Damocle del giudizio di Standard & Poor's sul debito a lungo termine della Fiat. In questa situazione di certo non ha aiutato la maxi vendita dell’amministratore delegato, anche se lui ha provato a spiegare il tutto con una questione fiscale: ha intascato gratuitamente dalla Fiat un bonus in azioni sulle quali dovrà pagare delle tasse. I soldi provenienti dalla vendita gli servirebbero per questo.

La mossa però è azzardata, e sembra quasi una fuga prima del crollo. In una nota dell’agenzia di rating si legge infatti: «Abbiamo osservato sovraccapacità nel mercato di massa europeo, in particolare in Italia, secondo maggior mercato per Fiat, e una debolezza della domanda a causa delle misure di austerità introdotte dal governo italiano delle paure dei consumatori per il loro impatto. Standard & Poor's ritiene che tale contesto causerà un peggioramento delle performance operative di Fiat nel 2012. Allo stesso tempo, il Brasile, il mercato più forte per la casa torinese, è in una situazione di crescente concorrenza che ha ridotto l'importante quota di mercato di Fiat». Insomma, anche se S&P deve ancora pronunciarsi, e lo farà entro i prossimi tre mesi, le previsioni sono tutt’altro che rosee. La stima più probabile è un abbassamento del rating da “BB” a “BB-”. 

E intanto, imperterrita, la pubblicità scorre. Una pubblicità poco lusinghiera con la tradizione culturale e culinaria del nostro Paese, giudicata “l’immagine che ci vogliono dare”, ma diciamo pure giustificabile con la necessità di dire che “non siamo solo bravi a cucinare” in pochi frame. È negli istanti seguenti che l’abilità comunicativa dello staff pubblicitario dà il suo meglio facendo leva su tutto il sentimentalismo italiano. Immagini di fabbrica, lo svincolo autostradale di Pomigliano, una famiglia e una madre che chiude il giubbotto al figlio prima di farlo uscire di casa e andare al lavoro. E una voce: « (...) perché in Italia ogni giorno c’è qualcuno che si sveglia e mette nel suo lavoro il talento, la passione, la creatività, ma soprattutto la voglia di costruire una cosa ben fatta». Peccato che magari lo svincolo di Pomigliano sarà presto teatro di nuove proteste, e che quelle famiglie (non vorrete mica far credere che comprare una Fiat, visto che è ormai praticamente made in Slovenia, significhi salvare lo stipendio di una madre italiana?) hanno già ben poco da sorridere, visti proprio i contratti “modello Pomigliano” che sono stati imposti al personale dietro la minaccia della chiusura.
E così, dalle ultime battute del testo dello spot, quella che nelle intenzioni dovrebbe essere una certezza diventa una domanda quasi retorica: «Questa è l’Italia che piace»?!

Sara Santolini

Default Grecia. È quasi countdown


Siamo al punto di non ritorno, nei rapporti tra Grecia e Ue? Forse ancora no, ma di sicuro ci si trova più che mai in piena impasse. Dopo che i principali partiti ellenici hanno rigettato le draconiane misure suggerite, o per meglio dire intimate, dalla Trojka, ai vertici comunitari non è rimasto che prendere atto della situazione.
«La Grecia – ha dichiarato il portavoce della Commissione, Amadeu Altafaj Tardio – ha già superato la data limite che la Ue le aveva dato. Speravamo di arrivare a un accordo in questi giorni ma purtroppo non è stato così. Tutti i ministri dell’Eurogruppo sono pronti a riunirsi quando ci saranno gli elementi, ma per ora è inutile convocarli. La palla è nel campo delle autorità greche».
La questione, però, si potrebbe ribaltare. Nel momento in cui le richieste internazionali sono eccessivamente onerose, come in questo caso, resta ben poco da fare se non rigettarle. Se la palla non è utilizzabile, perché è sgonfia o perché è troppo pesante, la responsabilità dell’interruzione del gioco non ricade necessariamente sulla squadra che si ferma, ma su quella che di fatto le impedisce di proseguire. Il terzetto Ue-Bce-Fmi ha richiesto che si abbassino, o piuttosto che si abbattano, i salari minimi, che si cancellino le tredicesime anche in ambito privato, e che si proceda a ulteriori tagli per un ammontare intono all’uno per cento del Pil. Di fronte a questi nuovi, e spaventosi, interventi, sia la politica che il sindacato non se la sono sentita di avallarli.
Antonis Samaras, presidente del partito conservatore greco Nea Demokratia, ha denunciato che «ci stanno chiedendo una grande recessione che il paese non può permettersi», promettendo che combatterà «per evitare un simile scenario». George Karatzaferis, a capo della formazione di estrema destra Laos, ha puntualizzato di non voler «contribuire all'esplosione di una rivoluzione». E anche Papandreou, leader dei socialisti e premier fino all’avvento di Papademos nel novembre scorso, ha negato il suo assenso.
I tempi sono molto stretti. In marzo andranno in scadenza titoli di Stato per 14,5 miliardi e senza l’afflusso di nuovi fondi, nell’ambito di una linea di credito che si aggira sui 130 miliardi, sarà impossibile saldarli. La Trojka, convinta di avere il coltello dalla parte del manico, continua ad agitare lo spauracchio del default. Ma in Grecia sembrano crescere i dubbi, legittimi,sul fatto che sia proprio questo, il peggio che può capitare al Paese in vista di una profonda ristrutturazione economica e sociale.
(red)

giovedì 26 gennaio 2012

Benvenuti al Sud - un film di Luca Miniero



Remake di un film francese sullo stesso tema, "Benvenuti al Sud" è una pellicola del 2010 su come siamo in Italia, su come si vive al Sud, nella fattispecie in un paesino sotto Napoli, e su come invece crede la gente del Nord che si viva.





Alberto Colombo, direttore di un ufficio postale in Brianza, viene trasferito al Sud per lavoro. Il suo viaggio, lo scontro-incontro con la realtà della provincia di Napoli, le bugie raccontate alla moglie per lasciarla nel suo velo di ignoranza sui "terroni" sono i temi portanti di una trama semplice ma spassosa.
Questo film è la prova che in Italia si è in grado di fare film delicati, divertenti, intelligenti senza cadere nella banalità o nel volgare. Da sudista (neanche troppo) trapiantata in Tirolo devo dire che mi sono divertita tantissimo. I cliché sul sud - e quelli sul nord - sono riprodotti con un'ironia tale da far ridere e sorridere durante tutto il film. I personaggi - la moglie di provincia che freme per andare a vivere a Milàn; il direttore, interpretato da un brillante Claudio Bisio, che parte per andare a Castellammare con il giubbotto antiproiettile; la madre campana che cucina in quantità smodate e a tutte le ore; la passione per il caffè; le feste di paese e l'ospitalità schietta e genuina del Sud - giocano un ruolo essenziale nel film, andando a disegnare una commedia vivace cui è difficile resistere. Da vedere bevendo na' tazzulell 'e caffè, per questo "Benvenuti al Sud" merita senz'altro di essere visto.