venerdì 31 dicembre 2010

Prestigiacomo. Vado, non mi dimetto e torno


Scenetta di fine anno: il ministro dell’Ambiente fa sapere, tutta corrucciata, che intende lasciare il Pdl, pur mantenendo il suo dicastero. Ma poi, ripensandoci meglio... 
Esemplare, nel suo piccolo. Nel giro di poche ore Stefania Prestigiacomo annuncia ai quattro venti di voler uscire dal Pdl, ma non dal governo, e poi si rimangia tutto. La mattina tuona contro Cicchitto, affermando che lui «di sicuro non può essere più il mio capogruppo»; la sera, previo incontro con lo stesso Cicchitto e con Gianni Letta, si lascia ammansire e ritorna nei ranghi, dando modo alla presidenza del Consiglio di diffondere un grottesco comunicato in cui si legge che «Una sfortunata coincidenza e un difetto di comunicazione hanno generato oggi uno spiacevole incidente parlamentare. In serata, il ministro Prestigiacomo e l’onorevole Cicchitto hanno chiarito ogni equivoco, superando l’incidente, scambiandosi un reciproco attestato di stima e di fiducia».
Esemplare pure questo, nel suo miserrimo miscuglio di equilibrismo politico e ipocrisia burocratica. «Una sfortunata coincidenza»... «un difetto di comunicazione»... «uno spiacevole incidente parlamentare»... « hanno chiarito ogni equivoco»... «un reciproco attestato di stima e di fiducia»... Fare di peggio, in così poche righe, era obiettivamente difficile. E la dice lunga, ancora una volta, sulla delirante convinzione di poter appianare qualsiasi problema a forza di chiacchiere, quand’anche risibili come queste. Ammesso che si debbano sciorinare spiegazioni di facciata, sarebbe almeno auspicabile che lo si facesse con la dovuta sobrietà. Meglio, molto meglio, due righe stringate in cui si ufficializza che il dissidio è stato ricomposto, senza scomodare la sfortuna per giustificare il triste antefatto e scodellare improbabili happy end sull’armonia ritrovata. Ci mancava solo la foto del bacetto tra Presty e Cicchy (sotto il vischio natalizio) e la pantomima era completa. Più che un comunicato istituzionale, una sceneggiatura di quart’ordine. In altre parole, una presa per il culo. 
A uscirne malissimo, ovviamente, è innanzitutto la Prestigiacomo, che fa la figura della psicolabile. Specialmente se alla vicenda in se stessa si aggiunge il modo in cui lei si è presentata ai cronisti per informarli dei suoi “fieri” propositi di abbandono del Pdl: «visibilmente scossa e in lacrime», riportano le cronache. Roba che uno legge la notizia e, se non è informato come si deve, si immagina che la tapina sia una giovinetta alle prime armi. Un tenero virgulto della politica. Una cenerentola che è finita per miracolo alla festa del Palazzo, in attesa che allo scoccare della mezzanotte la carrozza torni a essere una zucca e l’illusione svanisca. Viceversa, la sensibilissima Stefy ha appena compiuto 44 anni ed è deputato dall’ormai lontano 1994, mentre in precedenza, nel 1990, era stata eletta a soli  23 anni presidente del Gruppo Giovani Imprenditori di Siracusa.
Detto brutalmente: questi comportamenti da ragazzina isterica sono assurdi. Se una (o uno) non è padrone nemmeno dei suoi nervi, per cui rischia di perdere il controllo a ogni stormir di foglie, non può e non deve rivestire alcuna carica istituzionale. L’emotività, in questi ambiti, non è un pregio, che disvela chissà quale finezza d’animo o quale schiettezza di sentimenti. È solo l’indice di una personalità immatura che porta ad avere comportamenti da adolescente fuori tempo massimo. Non se ne può più di uomini e donne (omini e donnette) che agiscono senza riflettere – o facendo finta di non riflettere – nel presupposto che tanto, poi, basta scusarsi. La Russa ad Annozero, per dire: prima sbraita come un invasato, alzandosi in piedi e facendo mostra di voler lasciare lo studio; dopo si rimette a sedere e prosegue come se niente fosse. Si scusa – dice di scusarsi – ma basta osservare il suo sguardo tutt’altro che contrito per capire che in realtà non è per nulla dispiaciuto, ma semmai euforico: ha fatto il suo spettacolino, ha colpito l’attenzione di quelli che gli assomigliano e che, pertanto, continueranno a votarlo. O a sostenerlo in altro modo. È contento. Ha rispettato il copione. Ha dimostrato di aver capito come funziona la messinscena politica e televisiva.
La vanità al potere. La nullità al potere. Dimissioni la mattina, tarallucci e vino la sera. Un comunicato e via. Convinti che, siccome ha funzionato finora, funzionerà all’infinito. 
Federico Zamboni

giovedì 16 dicembre 2010

La sposa siriana - un film di Eran Riklis

Un film sui conflitti arabo-israeliani e sulle frontiere, che racconta la storia di una famiglia divisa dai confini di nazioni chiuse nella loro burocrazia e politica implacabile.

Le alture del Golan sono state occupate da Israele nel 1967. Da questa data sono oggetto di contestazione da parte della Siria. 
La famiglia della sposa siriana è drusa, considerata "apolide", ossia senza alcuna cittadinanza. Questo, le tradizioni, la vita al confine con Israele, sono le tematiche affrontate nel film, nato da una coproduzione franco-israelo-tedesca.
"La sposa siriana" mostra la situazione dei drusi del Golan, praticamente dimenticati dall'informazione occidentale. Il film, curato, è molto ben recitato: sguardi, movimenti quasi impercettibili, più delle parole sottolineano l'atmosfera e delineano i personaggi, tutti in cerca della propria realizzazione e accettazione da parte della famiglia e della società locale. Non manca nella regia, inoltre, una certa ironia: quella che mostra una burocrazia ottusa ed implacabile che rende ancora più difficile e impossibile la vita nel Golan. Molto interessante.

Tutti i premi:
2004 Montréal World Film Festival, "Grand Prix" (Miglior film)
2004 Flanders International Film Festival, "Miglior sceneggiatura"
2004 Festival internazionale del film di Locarno, "Premio del pubblico"
2005 Bangkok International Film Festival, "Golden Kinnaree Award" (Miglior film)
2005 European Film Awards nomination, "Miglior attrice" - Hiam Abbass




Atene: il popolo grida Basta

Nuove e violente manifestazioni di piazza in Grecia. Come recitava uno striscione: «Non possiamo sopportare oltre». E forse si inizia a capire davvero contro chi si sta lottando 


Il parlamento greco ha approvato tre giorni fa la riduzione dei salari del pubblico impiego, e ieri Atene era in fiamme. La quiete è durata non più di ventiquattrore, ammesso che si possa parlare di quiete. Già da mesi i giorni di apparente distensione non sono altro che preludi a nuove proteste: quello che ha avuto luogo ieri è stato il settimo sciopero generale dall'inizio dell'anno.
L'ultimo di una certa consistenza risale al 2 dicembre, quando molti scesero in piazza contro i tagli del 12 per cento agli stipendi del settore privato. In quell'occasione il premier Papandreou ostentò calma e determinazione nel prendere le distanze dai dimostranti, e il ministro dell'Economia si difese col vecchio trucco del male minore: «Meglio ridurre i salari che licenziare».
Ora, a pochi giorni di distanza, si sono ripetute le stesse scene. Con la differenza che questa volta il tasso di violenza è aumentato e il fronte dei manifestanti si è ulteriormente allargato. A essere prese di mira sono state ancora una volta le misure di austerity volte, secondo il governo, a contrastare la crisi economica. Nello specifico è stata contestata la decisione di diminuire del 5 per cento i salari degli impiegati pubblici. Se Atene è stata l'epicentro, le proteste non hanno certo riguardato soltanto la capitale: tutto il paese è stato di fatto paralizzato. Per l'intera giornata si sono fermati treni, aerei e traghetti. Gli ospedali hanno garantito il normale servizio soltanto per le emergenze, mentre sono rimaste chiuse banche, scuole e farmacie. 
Due cortei, formati secondo le forze dell'ordine da 15 mila manifestanti, hanno raccolto studenti, lavoratori e i principali sindacati. Hanno dispiegato un gigantesco striscione che rimarca la differenza rispetto a battaglie passate, analoghe soltanto nella forma: «Basta così, non possiamo sopportare oltre». Questa volta non è questione di ideologie anacronistiche. Non si rispolverano i fantasmi di Marx, Engels e Lenin e non si additano i nemici come imperialisti e borghesi. Chi da tempo si riversa nelle strade greche, però, sta forse iniziando a distinguerli con chiarezza, i nemici. Allargando la visuale all’intera Europa si coglie un'unità di fondo, al di là della molteplicità delle norme o delle misure contestate di volta in volta. Le rivolte e i tumulti a Parigi, Londra, Atene, Milano, dimostrano che la popolazione si è stufata di accettare tutto quanto piove dai palazzi del potere. E, soprattutto, dimostrano che i cittadini possono andare oltre l'istintivo moto di rabbia e acquisire una visione d'insieme. In fondo, i bersagli contro cui ci si muove sono gli stessi, anche se cambiano le nazionalità dei “ribelli”. 
Nel 1974 De André cantava: «Vi scoverò i nemici, per voi così distanti». La galassia del potere sta divenendo, nella percezione dell'opinione pubblica, molto meno astratta e lontana. Si può quasi toccarla con mano, ora. Le sue componenti sono sotto gli occhi di tutti: banche e finanza in primis. Non a caso ieri i rivoltosi greci hanno letteralmente dato alle fiamme il ministero delle Finanze e imbrattato la facciata della Banca centrale con vernice rossa. E non a caso anche a Milano l'obiettivo è stata la Borsa, bollata come covo di «affaristi, razzisti, ladri, mafiosi». Se la disoccupazione sale e se i salari diminuiscono vi sono responsabili precisi, annidati in un sistema che difende se stesso da quella popolazione alla quale dovrebbe rispondere e dalla quale dovrebbe dipendere per la propria legittimazione.
Nella capitale greca ci sono stati episodi particolarmente violenti. Condannabili in astratto, e in altre circostanze, ma senz'altro comprensibili in un periodo come questo, di crescente esasperazione. È il caso dell'aggressione a Kostis Hatzidakis, quarantacinquenne ex ministro conservatore ai Trasporti. Assalito al grido di «Ladri, vergognatevi!», l'uomo è stato ripetutamente colpito con pietre e bastoni, riuscendo a cavarsela solo perché ha trovato riparo in un edificio vicino. 
Gli uomini dell’establishment, in Grecia come altrove, si trincerano immancabilmente dietro le solite motivazioni legalitarie. Il leitmotiv è più o meno lo stesso: «Quelli che protestano violano la legge, e perciò loro sono delinquenti e noi siamo persone perbene». Già, ma ormai i manifestanti iniziano a dubitare della legittimità di certe leggi e di chi le ha promulgate. E anche nei salotti del potere dovrebbero cominciare a capire che non tutto sarà accettato passivamente. Papandreou sentenzia che «ci aspettano altre decisioni difficili...» e pensa che quelle difficoltà ricadranno solo sugli altri. Papandreou si sbaglia.

Marco Giorgerini

A rischio il divieto sugli incroci stampa-tv


di Sara Santolini

mercoledì 15 dicembre 2010

Cronache del nulla. Berlusconi resta lì

da "La Voce del Ribelle":
Riflettori puntati sulla telenovela di Palazzo: per distrarre tutti, ancora una volta, dai problemi reali. Dalla cinesizzazione del lavoro al debito pubblico ormai prossimo al default 


L'agenda setting del nostro ridicolo Paese vorrebbe che si parlasse diffusamente, con articoli, controarticoli, editoriali e retroscena, di quanto accaduto ieri al Senato e alla Camera. Trovate puntualmente di tutto, di più e di inutile su tutti i media. Nei telegiornali, sui giornali, e nei talk show da ora sino almeno a Natale. Tranne che qui, dove ce la caviamo, per preservare la nostra sanità mentale, con un paio di commenti.
Il tutto si risolve in pochissime righe, così possiamo passare altrove il più rapidamente possibile, ovvero a ciò che è veramente importante.
Berlusconi ha superato la prova e il Governo va avanti. Governo si fa per dire, naturalmente. E non solo per la risicata maggioranza che si ritrova, ma proprio per la capacità di governare, resa manifesta già prima di ieri, dove la maggioranza, dalle ultime tornate elettorali, era "forte" di percentuali bulgare per via della porca legge elettorale che ci troviamo.
Staccando assegni e promesse, come si mormora (e come si sa da almeno cinque lustri) come sta indagando la Magistratura e come è facile evincere per chiunque abbia un minimo di capacità di lettura delle cose, ha convinto i soli che gli bastavano all'impresa. E ovviamente non si è trattato di folgorazioni sulla via di Damasco, di sentimenti di responsabilità o altro – figuriamoci: responsabilità da parte di una classe politica che più irresponsabile è difficile trovare – ma di mero opportunismo, come è costume in Parlamento e come sanno anche i sassi. Del resto, cooptati ed eletti su chiamata, era facile che molti cedessero al richiamo del dio denaro. O potere, che è la stessa cosa.
Il punto è che Gianfranco Fini ha incassato una sonora batosta e ora dovrà riciclarsi in qualche modo, ancora una volta, con buona pace degli ex Msi, poi An, poi Popolo della Libertà, quindi Fli e ora vedremo. Il centrosinistra si è evitato, per ora, una campagna elettorale per la quale (da decenni) non è preparato, e ci si è scrollati di dosso il bluff dell'Italia dei Valori, prima fucina di ammutinati, altro che "valori". E Berlusconi, alla fine, ha intascato un paio di voti per tirare a campare, ovvero per rimanere nel posto dove può evitare di essere processato, e soprattutto per riprendere a fare, oltre che gli affari suoi, la riforma della quale alla grande maggioranza degli italiani non importa proprio nulla: quella della giustizia.
Dall'Estate a oggi, dopo Fini, Tulliani, Montecarlo, Antigua, nipoti di Mubarak e Bocchino in ogni anfratto mediatico, il risultato è chiaro: il nulla. 
Certo, un governo così potrebbe non durare molto, il che significa interminabili momenti "di nulla" a ogni respiro. Così come il nulla avremo se, allo stesso identico modo, il governo andrà avanti ancora per molto. Tra le due opzioni, il risultato non cambia, con buona pace di quanti ancora credono che scegliere l'uno o l'altro, o l'altro ancora - tra chi è possibile scegliere - possa cambiare le cose.
Tutto questo mentre il Paese (e l'Europa, e il mondo) è allo sbando, la cassa integrazione aumenta, Fiat & co. proseguono la cinesizzazione del lavoro e il nostro debito pubblico, notizia di ieri, è arrivato a quasi 1900 miliardi di Euro. Le agenzie di rating e gli speculatori si iniziano a leccare i baffi e siamo a un passo dal default. Bankitalia scopre che le entrate fiscali sono in calo e che il debito pubblico aumenta: parrebbe che dalle parti di via Nazionale studino scienziati di grosso calibro, data la portata della scoperta. Succede infatti ciò che anche un ragazzino avrebbe capito. Il lavoro cala, la gente consuma meno, le entrate scendono, e il debito aumenta. I classici effetti che accadono quando questo sistema di sviluppo entra in crisi. Ovvero ciò che accade in Grecia e in altri Paesi dell'area Ue (e non). Inutile insistere sui tanti problemi del nostro paese. E sul fatto, che tutti sanno ma che i politici, per terrore elettorale, tacciono: non c'è un euro da spendere in nessun campo. Di più: ogni minuto che passa spendiamo più di ciò che incassiamo e andiamo ad alimentare il debito pubblico, ultima bolla da gonfiare fino allo scoppio finale. Questi i problemi, queste le cose che il nostro governo non risolve. Questo ciò che dovrebbe interessare gli italiani.
Ma oggi, domani e dopodomani, e poi ancora dopo, si continuerà a parlare di Berlusconi. A parlare del nulla.

Valerio Lo Monaco

Scontri di piazza, la spia del malessere

da "La Voce del Ribelle":


Premio Ubu - Alessandro Gassman

L' "Immanuel Kant" di Alessandro Gassman ha vinto il premio Ubu come migliore novità straniera
Lo dicevo che era uno spettacolo strepitoso.



2037. Pensioni piccole così


L’Inps tira il sasso e nasconde la mano. Prima elabora un dossier in cui si evidenzia il crollo verticale dei trattamenti previdenziali del futuro, poi dice che sono solo ipotesi 


Il 17 agosto. Il presidente dell’Inps Antonio Mastropasqua rispondeva così al giornalista del Sole 24 ore, Marco Rogari, in merito al sistema pensionistico italiano: «Con la manovra di quest'anno, credo che sia stata messa la parola fine al cantiere delle pensioni, perché sono state adottate due misure che mettono al riparo e stabilizzano il nostro sistema pensionistico. (...) Oggi il resto d'Europa ci guarda con interesse, non le nascondo che già da altri paesi europei qualcuno ha chiesto all'Inps di venire a conoscenza di queste norme».
Oggi, dopo la pubblicazione da parte del Corriere di un dossier dell’Inps con le stime relative alle future pensioni degli italiani, magari questi fantomatici paesi europei si muoveranno con più cautela. Già, perché a leggere le cifre del futuro che ci aspetta c’è da farsi venire i brividi. Nulla che non si  potesse immaginasse, certo, ma vedere le cifre nero su bianco e all’interno di uno studio organico è tutta un’altra cosa.
La previsione dell’Inps, che non tiene conto per la verità degli interventi dello scorso luglio – la “finestra mobile” che ritarda il pensionamento di un anno rispetto alla maturazione dei requisiti, e l’adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita a partire dal 2015 – dipinge uno scenario a lungo termine, fino al 2037, durante il quale gli assegni di pensione scenderanno gradatamente. Fino a toccare, e solo nei casi più fortunati, il 46% dell’ultima busta paga. Il tutto, beninteso, nella speranza che il sistema non collassi: nonostante la forte riduzione degli importi erogati ai singoli percettori, infatti, l’invecchiamento della società e la gestione dei fondi separati produrranno, secondo le cifre fornite dal documento, un inevitabile e crescente deficit di bilancio, con un disavanzo che nel 2037 assommerebbe a ben 702 miliardi.
A pagare lo scotto maggiore, sempre secondo lo studio dell’Inps, saranno i lavoratori oggi sospesi nel precariato. E non è certo una sorpresa. Per loro non solo si parla di cifre davvero esigue, che secondo le prime stime si aggirerebbero intorno a poco più di 500 euro al mese, ma i loro contributi sembrano costituire una sorta di fondo al quale attingere per far fronte ad altre emergenze, considerando che i primi di loro abbandoneranno il mondo del lavoro solo nel 2031. Per farla breve, tutti coloro che hanno davanti ancora almeno un ventennio di lavoro, dopo essere già stati praticamente costretti a usare il proprio tfr per integrare la futura pensione, continueranno a versare contributi di cui godranno in minima parte, e senza che nei calcoli dell’Istituto vi sia il benché minimo accenno a questioncelle come l’adeguamento al costo della vita. 
Ma attenzione al colpo di scena. Dopo che il Corriere ha diffuso questi dati, dall’Inps è arrivata una secca smentita: «Il valore dei bilanci tecnici attuariali, per l'Inps e non solo, consiste nel fornire indicazioni in relazione alla sostenibilità dei sistemi. Non sono certo, e non possono essere mai, utili per valutare la consistenza delle singole prestazioni, in un futuro remoto, secondo attese derivanti da percorsi lavorativi non standardizzabili e comunque imprevedibili nel corso non solo degli anni, ma addirittura di decenni».
Cioè, se capiamo bene: hanno analizzato uno scenario di lungo termine, ma non bisogna darci peso in quanto è  «impossibile prefigurare la prestazione previdenziale a 20-30-40 anni dal momento del godimento poiché i percorsi di lavoro non sono standardizzabili e poiché le attese macroeconomiche che influenzano i coefficienti di trasformazione non sono prevedibili ma anche perché l'aspettativa di vita è in costante crescitaAncora più difficile infine – conclude la nota – fare previsioni sulle prestazioni derivanti dalla gestione separata, dove la permanenza degli assicurati è di poco superiore ai cinque anni: la maggior parte di questi lavoratori transita dopo questo periodo in altri fondi». 
Ma perché mai l’hanno fatto allora, se è impossibile prefigurare alcunché? Certo, se queste sono la serietà e la capacità previsionale di chi deve provvedere alle nostre pensioni possiamo dormire tra due guanciali.

Massimo Frattin

Il rapporto Pelikan - un film di Alan J. Pakula

Un Denzel Washington affascinante e una Julia Roberts veramente in gamba per una storia - purtroppo - molto credibile.



Il "rapporto Pelican" altro non è che una teoria accademica sulle motivazioni e i mandanti dell'omicidio di due giudici della Corte Suprema americana che coinvolge direttamente la Casa Bianca. Tale rapporto, finito sul tavolo del Presidente, della Cia e dell'Fbi, metterà in pericolo la sua autrice e tutti coloro che la aiuteranno. Un thriller che è diventato un classico. Misurato e curato, lontano da qualsiasi tipo di esagerazione che siamo soliti vedere nei thriller d'oltreoceano che coinvolgono la politica.


martedì 7 dicembre 2010

Colosseo e Fori imperiali

Domani mattina alle 8.30 sarò all'entrata del Colosseo a fare qualche foto a (parte de) l'archeologia romana. 


Secondo le previsioni dell'aeronautica dovrebbe essere nuvoloso al punto giusto.

Il patriottismo non c’entra, col gas di Putin

da "La Voce del Ribelle":
Rivelazioni del Corriere della Sera: il risentimento di Washington per Berlusconi dipende dalla “disattenzione” italiana per lo shale gas di produzione Usa

È strano che si meni grande scandalo per i rapporti confidenziali pubblicati da Wikileaks riguardo alla nota ostilità di Washington verso la politica energetica del governo Berlusconi, e se poi sulla prima pagina del Corriere della Sera, voce dell’establishment italiano, si dà conto di una notizia-chiave, la cosa passa inosservata. 
Il 3 dicembre il vicedirettore del quotidiano di via Solferino, Massimo Mucchetti, firma un fondo denso di fatti e argomenti in cui punta il dito contro l’opaca relazione personale fra il premier e il suo omologo russo Vladimir Putin che avrebbe influenzato la strategia aziendale della multinazionale di stato Eni (considerata dagli americani, stando ai files del Dipartimento Usa, più potente dello stesso ministero degli Esteri) guidata dal filo-russo Scaroni. «È possibile che l’amicizia speciale tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin abbia distorto gli storici rapporti tra Eni e Gazprom a favore del Cremlino? È possibile che a una tale distorsione abbia contribuito l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, per conquistare e conservare l’ambita poltrona?». Questo è l’interrogativo che fa da incipit all’articolo di Mucchetti. Il quale individua la possibile risposta in una rivalità frontale fra americani e russi nell’approvvigionamento di gas. Rivelando che nel 2005 «in America inizia una rivoluzione tecnologica che rende abbondante il gas, e dunque riduce in prospettiva la centralità dei fornitori storici, Russia, Algeria e Libia». Si tratta delle «prime quantità di shale gas, gas estratto da rocce scistose, tipiche del sottosuolo delle zone ex carbonifere, attraverso potenti getti d’acqua mista a solventi», che nel giro di tre anni «emancipa gli Usa dalle importazioni e fa crollare i prezzi sul mercato».
Nonostante ciò, Scaroni ignora il nuovo business con eventuali fornitori statunitensi e decide di prorogare i contratti fra Eni e Gazprom. Spiega Mucchetti: «Intendiamoci, anche altri big europei scoprono la novità solo dopo che le major americane hanno fatto incetta dei pionieri dello shale gas. Ma l’Eni di Mattei era all’avanguardia, ora non più». L’Eni di Scaroni (e Berlusconi) appoggia invece il progetto di Mosca di far passare un gasdotto sul fondo del Mar Nero per aggirare la filo-americana Ucraina: il famoso South Stream. Conclusione maliziosa dell’editorialista del Corriere: «perché l’Eni si impegna in un investimento miliardario per raddoppiare le onerose importazioni dalla Russia quando c’è tanto gas più a buon mercato nel mondo e il governo promette il nucleare? Chi ci fa l’utile?».
L’utile, sospetta l’organo dei poteri forti italiani, potrebbe farlo chi sponsorizza con tanto calore l’amicizia con la Russia di Putin e Medvedev (ex presidente di Gazprom) in cui il colosso del gas è uno Stato nello Stato. E cioè Silvio Berlusconi, spalleggiato da Scaroni. È chiaro che la politica di “differenziazione” dei paesi fornitori di energia, come l’ha definita il ministro degli Esteri Franco Frattini, è malvista dagli Stati Uniti. Wikileaks ne ha solo dato conferma, facendo scoppiare pubblicamente il caso. Il file documenta la posizione critica dell’America per mano dell’ex ambasciatore Ronald Spogli. È  interessante notare che la stampa italiana non ha ripreso la parte del file in cui Spogli delinea le azioni di lobbying per reagire al filo-russismo di Palazzo Chigi e del Cane a sei zampe. Colloqui con esponenti politici governativi e di opposizione, ingaggio (leggi: finanziamenti) di non meglio precisati “pensatoi”, contatti con membri del partito di maggioranza: tutto ciò pur di mettere in piedi una corrente d’opinione contraria alla linea berlusconiana.  
Il Corriere, che non fa mai scrivere a caso, men che meno in un editoriale, aggiunge un tassello decisivo: rivela che dietro il malcontento americano ci sarebbe la delusione per un enorme affare mancato, ovvero il mai avvenuto ricorso dell’Eni al nuovo tipo di gas made in Usa. Ma come? – sembra di sentire i manager ai vertici delle mega-aziende che poi chiedono il conto all’Amministrazione di Washington – gli italiani, come da loro tradizione fin dai tempi di Mattei che estrae petrolio in Unione Sovietica e Iran, vogliono diversificare le proprie fonti di rifornimento, e neppure si degnano di bussare alla nostra porta e comprare gas da noi, che costa anche meno?
Qui sta, secondo noi, il nocciolo della questione Eni-Gazprom. E qui si è svelato ancora una volta il reale significato della facciata di dichiarazioni, smentite, detti e non-detti con cui la politica ufficiale, democratica a parole, copre la sostanza di cui è fatta: fiumi di denaro che finiscono nelle tasche di pochi privilegiati al comando di Stati e di  multinazionali più importanti degli Stati. E se non ne siete ancora convinti, vi basti sapere che il ministro Frattini, interrogato ieri da Lucia Annunziata nel programma “In mezz’ora” proprio sulle domande iniziali di Mucchetti, ha avuto la faccia tosta di dire che nelle relazioni fra governi, a volte, «anche se ad alcuni è difficile crederlo», contano i rapporti umani. Certo. Ma allora dobbiamo dedurne che Berlusconi persegue l’interesse nazionale sulla base delle sue personali simpatie? Dal 2005 al 2008 presidente degli Stati Uniti era George W. Bush, che Silvio andava a trovare nel ranch in Texas facendosi fotografare col cappello da cowboy. Perché allora, forte di questo suo speciale rapporto con il predecessore di Obama, non fece seguire a Scaroni il dossier “shale gas”? Proseguire la saggia diversificazione di stampo matteiano è un titolo di merito per questo governo da sempre sfacciatamente servile con gli Usa. Ma non ci vengano a dire, i Frattini e i berlusconiani scopertisi d’un botto fieri assertori dell’indipendenza dall’America, che l’interesse perseguito sia puramente e incontaminatamente quello patrio. 

Alessio Mannino

Asl del Lazio. Le strane scelte della Polverini




lunedì 6 dicembre 2010

No sponsor, no money. No restauri

da "La Voce del Ribelle":


Il sindaco di Roma ne era sicuro: i 25 milioni per i lavori straordinari al Colosseo li avrebbe tirati fuori un pool di aziende internazionali. Ma le cose sono andate in tutt’altro modo

La previsione di Gianni Alemanno alla fine si è rivelata sbagliata. Gi sponsor per il restauro del Colosseo, Patrimonio dell’Umanità Unesco e inserito tra le Sette meraviglie del mondo moderno*, non ci sono. Meglio, ne è rimasto solo uno possibile –  e disponibile – che non ha nemmeno partecipato al bando relativo ma ha mostrato il suo interesse con una semplice lettera di intenti: il gruppo Tod's.
Era aprile quando Alemanno annunciava la volontà di numerose aziende giapponesi di unirsi in una cordata imprenditoriale, con a capo, appunto, Diego Della Valle**, per il restauro che si prevede costerà 25 milioni di euro. La gara relativa, bandita il 4 agosto e conclusasi il 31 ottobre, si è rivelata invece un flop clamoroso. Tra i concorrenti c’era il gruppo Samsung, la multinazionale sudcoreana che produce elettronica di consumo dai cellulari ai condizionatori d’aria. Evidentemente per la Sovrintendenza non aveva le carte in regola per sponsorizzare questa impresa. Proprio come tutti gli altri partecipanti al bando: un altro giapponese, due inglesi, due statunitensi e nove italiani. Tra loro, a sorpresa, non figurava il nome di Rupert Murdoch, il titolare di Sky che inizialmente sembrava interessato all’affare. 
Nessuna cordata, comunque. Tra tutti questi nomi, inoltre, non è stato scelto nessuno. La motivazione, stando alle parole di Roberto Cecchi, segretario generale del ministero dei Beni culturali, è che «Le offerte pervenute si configurano come non appropriate. Da questo momento l'amministrazione porterà avanti una fase di procedura negoziata». In parole povere, cercherà di capire se la lettera d’intenti del gruppo Tod’s possa trasformarsi in una offerta.
Ma non è finita. Secondo l'avviso di gara, messo a punto dagli uffici del commissario per l'area archeologica centrale di Roma, i lavori dovrebbero essere effettuati da una società di restauro sotto il controllo della Soprintendenza. Il bando prevede però studi di fattibilità, cantiere a norma, cronoprogramma con eventuali penali in caso di mancata consegna, e sicurezza a carico dello sponsor. Il tutto senza chiudere la porta ai visitatori nemmeno un giorno: la Soprintendenza Archeologica non può infatti permettersi di perdere le entrate che le assicura lo sbigliettamento per l’entrata al monumento romano. Tutto questo renderebbe l’impresa ardua per Diego Della Valle, che potrebbe tirarsi indietro. 
Così probabilmente il Colosseo rimarrà senza sponsor, e senza restauro. Il che è ovviamente pericoloso, visto che si tratta di un monumento all’aperto e che già a Pompei abbiamo modo di toccare con mano quali siano le conseguenze dell’incuria e della mancata manutenzione. Questa vicenda, inoltre, apre un’altra serie di problematiche. Fino a pochi mesi fa lo stesso Bondi salutava questa sponsorizzazione come l’esempio che avrebbero dovuto seguire tutte le Sovrintendenze italiane allo scopo di restaurare il patrimonio culturale in maniera veloce ed efficiente, come se la gestione privata fosse necessariamente dotata di queste qualità. Adesso, che il primo tentativo sembra votato al fallimento, una riflessione è d’obbligo.
Al di là dell’inquietudine che può provocare la presenza di annunci pubblicitari appiccicati qua e là sulle facciate dei nostri monumenti – perché sostanzialmente questo ha in cambio uno sponsor – il gioco evidentemente non vale la candela. Perché l’amministrazione pubblica non può fare affidamento su uno sponsor privato, che alla fine potrebbe anche non esserci, per dei lavori che non sono solo delicati ma assolutamente indispensabili.

Sara Santolini

**Proprietario del gruppo Tod’s e presidente onorario dell’ACF Fiorentina.


sabato 4 dicembre 2010

Il padrino - un film di Francis Ford Coppola


Il padrino (The Godfather) è un film del 1972 diretto da Francis Ford Coppola, prima pellicola della famosa trilogia ispirata al romanzo di Mario Puzo.



Francis Ford Coppola e Martin Scorsese sono, a mio parere, i due registi viventi più emozionanti se si parla di storie di mafie americane. Ma Coppola, rispetto a Scorsese (del quale spesso i film sono più "fumettoni"), è più "reale" e dunque più toccante.
Marlon Brando, nelle vesti di Don Vito, è assolutamente da vedere: oltre a riuscire a farsi credere invecchiato (aveva solo 47 anni quando girò il film) la sua interpretazione è da Oscar che infatti vinse ma non ritirò in protesta contro le condizioni degli Indiani d'America negli USA e a Hollywood.
In questo film c'è tutta l'atmosfera mafiosa siciliana esportata in America, ma non ci sono esagerazioni né condanne: è un saga familiare di uomini di potere. I personaggi sono ben definiti ma non c'è alcuna separazione netta tra buoni e cattivi. In caso ci sono metodi più o meno leciti. Ma in realtà Don Vito, il capofamiglia, non è altri che un uomo che guarda ai suoi affari, proprio come i "pezzi da novanta" (senatori, ad esempio) senza preoccuparsi del come, ma sempre cercando di mantenere degli equilibri e una morale - che farà rifiutare al padrino di mettersi nell'affare della droga. 
In ogni caso è la verosimiglianza il motivo per il quale la pellicola di Coppola acquista la potenza che ha. Bellissimo. 


Una curiosità: durante il provino Marlon Brando si presentò con del cotone nella bocca per appesantire le guance e sembrare quasi un bulldog. L'idea piacque al regista ma per le riprese il cotone fu sostituito con un apparato costruito apposta da un dentista che ora è conservato in un museo a New York.


venerdì 3 dicembre 2010

Pompei, arrivano gli ispettori Unesco


di Sara Santolini


Lo dicono anche i fiscalisti: bisogna tassare di più le rendite

da "La Voce del Ribelle":
Ormai, secondo i commercialisti italiani, «in Italia non conviene lavorare, conviene possedere; e se proprio si lavora, conviene non dichiarare»
Garantire un quadro di regole certe per rilanciare la fiducia nel rapporto tra fisco e contribuente; accentuare la lotta all’evasione fiscale, ma in un contesto che ponga al centro l’amministrazione della giustizia tributaria, non soltanto l’accertamento e la riscossione; costruire un prelievo fiscale equo, efficiente e coerente rispetto al modello cui si ispira la nostra Costituzione e su cui si fonda la nostra società; correggere il tiro del federalismo fiscale verso una maggiore attenzione all’autonomia finanziaria, piuttosto che all’autonomia impositiva. Inoltre, per la gestione di questo fantomatico nuovo corso nel rapporto cittadino-fisco, bisogna creare un’Authority indipendente, simile ad altre realtà europee, che permetta anche una non rinviabile semplificazione del sistema.
Sono i punti nodali del “manifesto dei commercialisti italiani per la riforma del fisco”, approvato durante le riunioni del 16 e 17 novembre 2010 e pronto ad essere discusso al tavolo col ministro Tremonti.
In sé si tratta di proposte così assennate da rendere perfino sorprendente che sia l’ordine dei commercialisti a farsene carico presso il Governo. Dal testo in questione emerge una realtà chiara per tutti fuorché – pare – per chi ci amministra. Il fisco, sottolinea il manifesto, opera in maniera diseguale ed iniqua, gravando per lo più sul lavoro (nulla di nuovo); il cittadino, laddove emergano dei contenziosi in materia fiscale, è perseguito come fossimo in uno stato di polizia (nulla di nuovo); c’è profonda disparità di trattamento tra i redditi da lavoro e le rendite da capitale (nulla di nuovo). L’esempio riportato è lampante: «Oggi, una persona che dichiara al fisco redditi di lavoro per 150.000 euro è tassata con una aliquota media del 38,45% (42,35%, se imprenditore o lavoratore autonomo), mentre chi consegue 150.000 euro annui come rendita patrimoniale al 3% derivanti da una ricchezza mobiliare di 5 milioni di euro di titoli è tassato al 12,5%. Il cristallino messaggio che viene dal nostro sistema di imposizione sui redditi è il seguente: in Italia non conviene lavorare, conviene possedere; e se proprio si lavora, conviene non dichiarare».
Peccato che alla fine, sul delicato problema della tassazione delle rendite patrimoniali, l’ordine dei commercialisti preferisca glissare limitandosi di fatto allo scontato auspicio di «diminuire la forbice tra il livello di tassazione dei redditi di derivazione patrimoniale ed il livello medio di tassazione dei redditi di derivazione produttiva». Sul come, e soprattutto sul quanto, non si forniscono lumi.
Ora, fa un po’ sorridere che la ricetta per il risanamento del fisco italiano arrivi da un comparto, quello dei commercialisti, spesso sotto accusa proprio per i consigli su come aggirarlo. Il problema che viene aperto tuttavia è concreto e non più derogabile. Con la crisi pesantissima in cui ci troviamo, anche nella società italiana si è aggravato il divario tra la maggior parte della popolazione che viene tartassata e una ristretta elite di privilegiati che si avvale dei benefici e delle scappatoie di un sistema fiscale iniquo. Da una parte chi lavora è sottoposto alla più elevata pressione fiscale d’Europa (secondo i dati Eurostat nel 2008 era al 42,8%, a fronte invece dei servizi peggiori d’Europa); dall’altra chi gode di ricchezze mobiliari e patrimoniali trae vantaggio anche dal gettito fiscale altrui.
L’intero discorso non può inoltre prescindere da quello che risulta il dato di fatto più sconvolgente della specificità italiana: una macchina politica e una spesa pubblica senza fondo. 315 senatori e 630 deputati (gli USA ne hanno rispettivamente 100 e 445) formano il Parlamento più numeroso del mondo, per il quale spendiamo ogni anno 247.551.240 euro a fronte degli 82 milioni di dollari, pari a 68milioni di euro, del Parlamento americano. La spesa pubblica italiana nel 2009 ha sfiorato gli 800 miliardi di euro e ha superato, in percentuale, la metà del prodotto interno lordo. Il debito pubblico: a settembre 2010 era a quota 1.844,817 miliardi, in aumento dal 2005 –in soli cinque anni! – del 21,8%.
Il problema è sempre lo stesso: al di là delle cifre complessive, in quale modo vengono spese queste montagne di denaro? A giudicare dalla tutela del patrimonio pubblico e dalla qualità dei servizi, non certo nell’interesse della moltitudine che paga regolarmente le imposte. Con la classe politica che ci ritroviamo, quindi, il pericolo è che anche di fronte ad un riassetto costruttivo e significativo del sistema fiscale nazionale, con tanto di recupero dell’evasione, ci sarebbero forse solo più soldi da sprecare e da spartire per chi amministra, non da destinare a chi è amministrato.
Che in fondo è quello che paventa anche l’ordine dei commercialisti nella parte introduttiva al proprio manifesto: «In particolare, troppo spesso è stata trasmessa nel cittadino la tutt’altro che immotivata sensazione di una assenza, da parte dell’amministrazione finanziaria, della consapevolezza di avere nel cittadino il fine ultimo della propria azione di tutela degli interessi collettivi e non invece una controparte da colpire anche in presenza di oggettive condizioni di incertezza».


Massimo Frattin

giovedì 2 dicembre 2010

Monicelli, più vitale di molti viventi

da "La Voce del Ribelle": 
Solo la nostra classe politica poteva avventarsi sul suicidio del grande regista per cercare di strumentalizzarlo in un senso o nell’altro. Dimostrando di non aver capito niente


Da toscano purosangue, il monticiano d’adozione, anche da morto riesce a far incazzare quelli che gli stavano sulle palle e farli parlare a vanvera, regalandoci ancora amare risate sulle meschinità di questo paese. Regalandoci, perché lo spettacolo va in scena alla Camera e non al cinema: nessun biglietto da pagare, solo alti stipendi che sono un insulto a un’Italia allo stremo. Che, però, finché questi parlamentari li paga, eleggendoli e rieleggendoli, si merita ogni insulto che riceve.
Esistesse l’aldilà della Binetti, Monicelli, se la starebbe ridendo alla grande. Noi, che siamo vivi, invece ridiamo meno del vergognoso spettacolo bipartisan dato dai deputati, visto che fra i “dolce morte” e i “pro vita” il ridicolo e l’arroganza sono equamente condivisi. Sì, anche i “dolce morte” condividono l’arroganza dei “pro vita”, perché la radicale-PD Rita Bernardini ha dimostrato di non aver capito nulla di Monicelli e del suo gesto virile, pronunciando questa dichiarazione: «Quest'Aula dovrebbe riflettere su come alcune persone che non ce la fanno ad andare avanti sono costrette a lasciare la vita invece di morire vicino ai propri cari con la dolce morte». 
Costretto…? Niente e nessuno avrebbero mai potuto convincere Monicelli a fare alcunché: il suo è stato un “estremo scatto di volontà”*. La volontà di un Uomo che ha sempre fatto della sua autonomia intellettuale, e fisica, una bandiera, che mai avrebbe potuto accettare la “dolce morte”, magari in salsa fazista, che ha agito scientemente finché era in tempo: anche fosse stata possibile l’eutanasia, mai si sarebbe lasciato strascinare fino al momento in cui la morte avrebbe dovuto essergli pietosamente concessa da altri. Piaccia o no alla Bernardini esiste gente che, alla “dolce morte”, preferisce un dignitoso suicidio, essendo convinta che, fino a quando una persona è in possesso delle sue facoltà fisiche e mentali, non c’è bisogno di alcuna eutanasia: c’è il suicidio, come ai tempi in cui Roma era “Antica”. 
In effetti il nostro viareggino è morto come un Romano Antico, di quelli che non ce ne sono più, ma del resto già dai tempi dell’Impero erano i soprattutto i “provinciali” a comportarsi da Romani. Il messaggio che i “dolce morte” dovrebbero cogliere nel gesto di Monicelli è che, per alcuni, il suicidio è una scelta e che chi può farla finita da solo, prima di diventare un groviglio di tubi, lo fa, e questo non è costrizione ma è volontà. Che arroganti, questi “suicidi”: ritengono che ci sia qualcosa che non va in chi chiede ad altri di fare ciò che lui non riesce a fare; ritengono che siano persone che non vogliono realmente morire, oppure sono dei vili. Un genere di individui dai quali comunque, col suicidio, ci si vuole distinguere.
Questo naturalmente vale solo per chi è in grado di porre fine in autonomia alla sua vita, come Monicelli ha avuto il tempo di fare, ad onta della sua età. Se ciò non è possibile ben venga allora la “dolce morte”, se mai può essere dolce la morte, della Bernardini. Più della Bernardini, infatti, avrebbe sollazzato il Monicelli la solita Binetti con le sue ringhiose, presuntuose, dichiarazioni: «Basta, per piacere, con spot a favore dell'eutanasia partendo da episodi di uomini disperati, perché Monicelli era stato lasciato solo da famiglia e amici ed il suo è un gesto tremendo di solitudine non di libertà».
Come si permette di asserire che fosse un uomo disperato? Certo la malattia non lasciava speranza, ma è stato, come ogni atto della vita regista, un “gesto di libertà”, non certo di solitudine. Se Monicelli era solo, lo era proprio perché lui rifiutava di essere un vecchio da compatire: anche ammettendo la solitudine pretesa dalla Binetti, è da pensare che fosse perché è stato lui ad allentare i legami con famiglia e amici, proprio perché troppo uomo per accettare di essere compatito e influenzato nelle scelte definitive. Questo a meno che la Binetti non provi di essere così intima della famiglia Monicelli e di avere informazioni Wikileaks che a tutti noi infedeli mancano.
È però vero che non è stato uno spot favore dell’eutanasia. Se ne fregava lui di chi subisce gli spot: è stato solo il gesto di un uomo convinto, giustamente, che la sua vita appartenesse a lui e solo a lui, non alla Binetti o al suo dio. A questo poi ha aggiunto un antifazista corollario di virile coerenza: il non chiedere, anzi rifiutare, quelle messe a suffragio che tanto piacciono ai fazisti, ottenendo invece le campane di rispetto rionale e umano di un parroco, Don Francesco, molto più vicino al suo Cristo di quanti pretendono di rappresentarlo e imporlo, per colpa soprattutto nostra, in parlamento.
Il geniaccio versiliese se ne fregherebbe anche di questo spreco di lettere. Non ne ha bisogno: ha già risposto, nella sua ultima intervista**, alle parole, queste sì da spot, di Enrico La Loggia, «Suicidio mai, mai. Sempre la vita e la speranza», con il memorabile: «la speranza di cui parlate è una trappola, una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni. La speranza è quella di quelli che ti dicono che dio… state buoni, state zitti, pregate che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà. Intanto, perciò, adesso, state buoni: ci sarà un aldilà. Così dice questo: state buoni, tornate a casa. Sì siete dei precari, ma tanto fra 2 o 3 mesi vi riassumiamo ancora, vi daremo il posto. State buoni, andate a casa e… stanno tutti buoni. Mai avere speranza! La speranza è una trappola, una cosa infame inventata da chi comanda».
Dovremmo imparare dal regista-sceneggiatore a rinunciare a questa speranza e a riprenderci il futuro, strappandolo in primis a chi sostiene che sarà lui a “farlo”.  Seguendo la ricetta, forse suicida e non certo da “dolce morte”, che ci indica il regista allo scopo di realizzare «quello che in Italia non c’è mai stato: una bella botta, una rivoluzione che non c’è mai stata in Italia. C’è stata in Inghilterra, c’è stata in Francia, c’è stata in Russia, c’è stata in Germania, dappertutto, meno che in Italia. Quindi ci vuole qualche cosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto. Sono 300 ani che è schiavo di tutti e, quindi, se vuole riscattarsi…il riscatto non è una cosa semplice: è doloroso, esige anche dei sacrifici, sennò vadano in malora, come già stiamo andando da tre generazioni». Ma ci vuole coraggio a tuffarsi in questa soluzione. Quindi meglio rifugiarsi nella dolce morte o nella non vita a oltranza e andare alla malora.

Ferdinando Menconi


*Per usare le giuste parole di Giorgio Napolitano

Cronaca di un'occupazione studentesca contro la riforma Gelmini e i tagli alla scuola

Quest’anno meno regali, sotto l’albero

da "La Voce del Ribelle":

Endemol contro Endemol. Vince Endemol

da "La Voce del Ribelle":
Apparentemente produce format di qualsiasi tipo, preoccupandosi solo che siano remunerativi. Ma basta vedere chi sono i proprietari, da Goldman Sachs a Mediaset, per capire che i limiti ci sono. Eccome 


Presente in 26 paesi del mondo, dal 2007 la Endemol è di proprietà di una joint venture formata dal fondo Cyrte, specializzato nel settore delle telecomunicazioni, dalla banca d’affari Goldman Sachs e dal Gruppo Mediaset. «È la prima società di produzione televisiva indipendente in Europa. In poco tempo è riuscita ad imporsi come leader nella produzione nazionale ed internazionale di programmi di intrattenimento e di fiction, realizzando trasmissioni che hanno fatto la storia della televisione mondiale. Ogni anno la società produce più di quindicimila ore di programmazione». 
In pratica, crea format televisivi. E cos’è un format? In realtà, cosa si intenda con questo termine non è ancora chiaro nemmeno agli addetti ai lavori. Aldo Grasso lo definisce come «idea originale di programmi i cui diritti d’uso sono soggetti a compravendita nel mercato televisivo». In generale, l’espressione indica «l’oggetto di una compravendita di un bene immateriale, di un’idea, di una formula, quindi gli elementi invariabili di un programma, che, usata per trasmissioni di successo in un Paese, può essere messa a fattore comune per garantirne la replicabilità presso il pubblico di altri Paesi, e può essere oggetto di tutela giuridica». 
Quel che è certo, è che i format offrono una serie di vantaggi che riducono i rischi per l’azienda produttrice. Primo tra tutti, l’aver sperimentato le caratteristiche che hanno determinato il successo per un certo format, già trasmesso in un altro paese. Vedi l’esempio di programmi come il “Grande Fratello” che, mandato in onda per la prima volta in Olanda, è stato esportato in oltre quaranta stati. Con il risultato di aver creato la moda del “reality show” che ha contagiato, o invaso, mezzo mondo. 
Nel caso del programma “Vieni via con me”, l’Italia fa da maestra. Roberto Saviano e Fabio Fazio, oltre ad esserne i conduttori, sono gli autori principali della trasmissione, ed hanno venduto il suo diritto d’uso a Endemol, che successivamente l’ha prodotta. Ora, considerato chi controlla la società – appunto Goldman Sachs, il fondo Cyrte e Mediaset – il contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato. Ovvero, mero intrattenimento. L’equivoco, o forse sarebbe meglio dire la distorsione, è nato nel momento in cui si è tentato di spacciarlo come un vero e proprio programma di informazione. Con la conseguenza che lo spettatore ha avuto l’impressione di ricevere notizie “scottanti”, illudendosi di essere realmente informato. Ma se Saviano e Fazio avessero avuto l’intenzione di trattare tematiche davvero “scomode” come, ad esempio, il signoraggio bancario, “Vieni via con me” non sarebbe mai andato in onda. E le polemiche nate sul programma? Un’ottima trovata di marketing. 
Sapientemente costruite, hanno avuto la funzione di attirare il maggior numero di telespettatori. Lo share dell’ultima puntata è stato del 30,21%, e questo ha determinato un aumento del costo degli spazi pubblicitari che a loro volta si sono tradotti in maggiori profitti per la Endemol. Un sospiro si sollievo per la società produttrice di format che, secondo il quotidiano americano, Daily Beast, sarebbe oppressa dai debiti. «È da mesi che circolano voci sul fatto che la Endemol stia barcollando sull’orlo dell’insolvenza». Ad agosto, infatti, si parlava di una possibile crisi dovuta, pare, ai 3 miliardi di dollari di deficit. 
Endemol, però, smentisce sottolineando che «data la nostra attuale prospettiva e considerando le risorse già disponibili alla società e agli azionisti, siamo convinti che continueremo ad assolvere integralmente i nostri obblighi nei confronti dei nostri creditori nel futuro». E La trasmissione di Fazio e Saviano, in ogni caso, è capitata nel momento giusto.

Pamela Chiodi