mercoledì 23 febbraio 2011

Che peccato: una De Andrè all'Isola dei Famosi


L’edizione 2011 del programma si sdoppia e dà il via a una gara parallela, riservata ai parenti di personaggi più o meno noti. Ed ecco che nel cast, purtroppo, finisce anche la nipote 21enne del grandissimo Fabrizio
di Federico Zamboni

Va da sé: di quello che accade all’interno dei reality show non ce ne importa nulla. I “minima immoralia” di queste combriccole da quattro soldi, inzeppate di sconosciuti semi analfabeti o di ex conosciuti in cerca di rilancio, ci interessano meno di zero. E quanto all’Isola dei famosi, in particolare, basta dire che a gestire il traffico c’è Simona Ventura per tenersi alla larga. Sia dai teleschermi che dai commenti. 
Al di sotto di certi limiti, infatti, persino la stroncatura più feroce diventa incongrua. Non è che la Guida Michelin faccia visita ai fast-food e ne parli male. Non ne parla e basta. Se uno va a mangiare al McDonald’s, non può mica illudersi di essere entrato in un ristorante degno di tal nome. E se invece si illude, allora si merita quel che lo aspetta: quegli squisiti Big-Mac-Boh, quelle appetitose patatine fritte da divorare in un batter d’occhio (prima che diventino assai meno appetitose) e quelle irresistibili Coca-Cola in formato maxi, generosamente servite con un sacco di ghiaccio; non già come riempitivo a costo zero (ci mancherebbe) bensì per conservarle fresche più a lungo.
In questo caso, però, la notizia risulta comunque interessante, anche se sgradevole. Alla nuova edizione dell’Isola dei Famosi, infatti, prende parte anche Francesca De André, che purtroppo non ha soltanto lo stesso cognome del grandissimo Fabrizio ma è proprio sua nipote, essendo una delle figlie di suo figlio Cristiano. La “grande novità” di quest’anno, infatti, è che le combriccole in gara sono due invece che una. E se la prima è composta, come al solito, di persone che almeno un po’ famose lo sono, o lo sono state, la seconda è invece formata da gente che è stata scelta solo perché è parente di qualche personaggio più o meno noto. Ad esempio: la madre di Valeria Marini, il fratello di Marco Materazzi, la sorella di Mario Balotelli. Per altre candidature illustri (il cugino di Mago Zurlì, il bisnipote di Zorro, e lo zio di Batman) bisognerà attendere: ma le ricerche, c’è da presumere, sono già state avviate. 
Se la decisione di Francesca è a dir poco opinabile, e a scusarla del tutto non basta il fatto che abbia appena 21 anni, le giustificazioni di sua sorella Fabrizia sono invece del tutto sballate: «La scelta di partecipare all'Isola dei famosi non è per Francesca una scorciatoia ma una vera e propria esperienza avventurosa. Le sue doti di cantante le coltiva, ma in sala prove e non certo sulle spiagge dell'Honduras. Questa rimane veramente per lei un'occasione per provarsi in situazioni estreme. Francesca si sente coinvolta in un divertente gioco».
Ma per favore. Ma quali «situazioni estreme»? Mica si è iscritta al Camel Trophy, o alla traversata dell’Atlantico in barca a vela, o a un trekking nel Deserto del Gobi. Si è “lasciata iscrivere”, da quei furbacchioni del casting, a una messinscena all’insegna del pettegolezzo reciproco e del battibecco obbligatorio,  a scartamento ridotto ma a ciclo continuo. L’avventura è solo apparente. Non è affatto un incentivo a essere migliori ma ad accattivarsi il consenso dell’audience e il relativo, instabile, fatidico televoto. I disagi non servono a stimolare una competizione onorevole ma solo ad alzare i livelli dello stress, in modo da attenuare i normali freni inibitori, o schiantarli del tutto, e a far emergere il peggio di ciascuno.
Dice ancora Fabrizia: «Il nonno avrebbe sospeso il giudizio. Si sarebbe forse preoccupato, ma non avrebbe ostacolato le scelte di nessuno di noi nipoti almeno per come l'ho conosciuto io». Se l’affermazione è probabilmente vera in se stessa – figuriamoci se un libertario come De André si sarebbe messo a ostacolare una quisquilia di questo tipo – diventa però capziosa nel significato che le si vorrebbe dare. Non ostacolare non significa certo avallare. E anche riguardo al giudizio «sospeso» non è lecito confondere il silenzio di chi si limita a non voler interferire nelle decisioni altrui, specie se di persone tanto più giovani e immature, con quello di chi è semplicemente cauto e si riserva di dare la propria approvazione in un secondo momento.
Possibile che non ce lo si ricordi? Fabrizio De André non andava in televisione neanche a fare il protagonista assoluto, forte di tutta la sua fama più che meritata, di tutta la sua arte in perenne evoluzione, e di tutta la sua integrità esistenziale. Non era solo la ritrosia istintiva di un uomo schivo. Era la consapevolezza della differenza abissale tra esprimersi ed esibirsi. Tra la finzione “sincera” dell’artista, che rifugge da qualsiasi trucco e non fa nulla per blandire il pubblico, e la “verità” fittizia degli imbonitori, che promettono a gran voce che «non c’è trucco e non c’è inganno». I Barnum di un tempo. I reality show di oggi. 
Libertari sì, ma mica coglioni.  

Federico Zamboni


Sedotta e abbandonata - un film di Pietro Germi

Non me ne vorrà chi segue questo blog, ma ho rispolverato un grande classico:

"Sedotta e abbandonata" è un film datato, ma che davvero merita di essere visto, 
anche a 47 anni dalla sua uscita al cinema.


Nonostante il titolo, la pellicola del geniale Germi non gira attorno a un amore non corrisposto, bensì a tutto quello che si scatena attorno a un semplice episodio di seduzione, benché portatore di una gravidanza indesiderata. Anche se la vicenda di per sè, nel 2011, sembrerebbe ridicola, Germi è riuscito a renderla grottesca e realistica anche per noi, nonostante senz'altro susciti emozioni diverse rispetto a 47 anni fa, quando le vicende narrate nel film erano ben più diffuse di oggi nel nostro Paese. Oggi, anche se sono "storia" fino a un certo punto, la carica emotiva che trasmette è comunque fortissima.


Aldo Puglisi, che nel film interpreta il padre della ragazza, è la personificazione di tutta quella mentalità paesana che rende ogni singolo così invischiato e controllato dalla comunità da sottoporre la sua volontà a quella del "buoncostume", della rispettabilità, al di là di quale sia davvero il bene per la propria famiglia, che pure gli sta così tanto a cuore. Una comunità così presente anche nelle situazioni private da rendere anche queste condizionate al suo volere (la stessa ragazza, che a un certo punto vuole sottrarsi all'espediente del "rapimento" messo in scena dalle due famiglie per coprire l'onta della perdita della verginità della ragazza, deve cedere, perché quello che sarà suo marito le ricorda tutte le conseguenze che ne verrebbero a livello sociale).

Quello che rimane in bocca è una estrema amarezza: una ragazza costretta a sposare un uomo che la ritiene indegna proprio per aver ceduto alle sue lusinghe, un uomo costretto al matrimonio per evitare il carcere, la sorella della protagonista costretta a farsi suora perché abbandonata per ben due volte dai promessi sposi, un padre che muore per il dolore ma che alla fine riesce a combinare questo matrimonio, inevitabile ma che non fa contento nessuno. Grottesco e imperdibile.


Premi e riconoscimenti:

Festival di Cannes 1964: premio per la migliore interpretazione maschile (Saro Urzì)
2 David di Donatello 1964: miglior regista, miglior produttore
3 Nastri d'argento 1965: migliore attore protagonista(Saro Urzì), migliore attore non protagonista(Leopoldo Trieste), miglior soggetto

Sondaggi, i consensi di carta

da "La Voce del Ribelle":

Formalmente inappuntabili ma sostanzialmente inattendibili, a causa dei criteri utilizzati per calcolare le percentuali. Proprio come avviene in ambito elettorale, dove si fa finta che i partiti si dividano i voti del 100% dei cittadini che ne hanno diritto. Cancellando di fatto il fenomeno dell’astensionismo e delle schede bianche
di Ferdinando Menconi

I consensi registrati dai sondaggi sono solo consensi di carta, anzi di carta straccia: perché così come vengono riportati sono una forviante becera truffa. Questo, però, non è perché non siano condotti seriamente e non fotografino la realtà: il tarocco è altrove.
Prendendo, ad esempio, quello di ieri sera fornito da Mentana, quindi il più serio possibile: allo spettatore, che sta cenando mentre ascolta i dati, può essere sembrato, per il modo in cui gli è stata posta la cosa, che il partito degli astenuti sia diventato il secondo partito d’Italia, sfiorando il 30%, battuto solo dal P2L. Non è così: quello degli schifati è il primo partito.
Il primo partito perché, mente i consensi delle caste di governo e opposizione sono espressi in percentuale sui votanti, quelli dei disgustati dalle caste lo sono sugli aventi diritto al voto. Partiti governativi, di finta opposizione, terzo polo e grillo assommati insieme raggiungono il 100% nei sondaggi. Ma allora da dove sbuca fuori questo 30% di persone che alle urne non andranno? Se i consensi dei partiti sono calcolati sui votanti, allora quello degli astenuti andrebbe calcolato sui non votanti dove avrebbe il 100%. Ci rendiamo conto che sarebbe ridicolo, ma ridicolo tanto quanto calcolare il consenso di un partito solo sui votanti e non sulla popolazione.
Il dato di un’astensione a questi livelli è un dato forte, e per noi consolante, che dovrebbe far preoccupare il palazzo, ma perché far “preoccupare” anche l’elettore, almeno non più del dovuto, se con un piccolo trucchetto si può far credere che il consenso all’astensione sia solo equivalente a quello del principale partito di governo e non troppo superiore a quello del principale partito di “opposizione”? Se i dati fossero tutti forniti in base agli aventi diritto, il 42% che viene attribuito alle coalizioni di malgoverno e opposizione al buon governo,cesserebbe di essere tale e potrebbe scoprirsi inferiore al dato – il 30% su base democratica reale – del partito degli astenuti. Un 42% artificioso che verrebbe addirittura sommerso da una ipotetica coalizione degli astenuti con le schede bianche/nulle e con gli indecisi fino all’ultimo istante. Schede bianche/nulle anch’esse escluse dal numero dei votanti, eppure le schede bianche/nulle vi appartengono a pieno titolo, visto che si tratta di gente disposta a recarsi al seggio e perdere un po’ del suo tempo, almeno tanto quanto tanto quanto chi lo sprecherà votando per dare uno stipendio a una casta che difficilmente saprebbe sbarcare il lunario altrimenti.
La truffa, però, non è solo nei sondaggi. Lo stesso accade con i risultati reali, le cui percentuali sono espresse sempre sui votanti, anche perché i seggi sono attribuiti in percentuale sui votanti, così che Prodi Cavalieripossano dire di avere con sé più del 50% degli italiani, cosa assolutamente falsa: hanno con sé solo il 50% di chi ha ancora voglia di farsi prendere in giro. Sarebbe bello se anche gli astenuti potessero godere di rappresentanza, ma come si potrebbe visto che non hanno espresso preferenza alcuna? Un sistema c’è: l’assegnazione dei seggi sulla base degli aventi diritto. Un parlamento mezzo vuoto aiuterebbe forse la casta dimalgoverno e opposizione al buon governo a capire che rappresenta sempre meno la nazione.
Probabilmente, però, gli “onorevoli” non se ne accorgerebbero neanche, visto che Camera e Senato sono quasi sempre semivuoti, salvo quando si tratti di salvare il culo, “flaccido”, del capo, mentre se si tratta di questioni che realmente incidono sulla vita del cittadino se ne fregano. E forse è meglio così, stante la loro (in)competenza. No, deputati e senatori non se ne accorgeranno mai, almeno finché non sarà troppo tardi. Ma speriamo che quel giorno sarà troppo tardi per loro e non per noi. Non possiamo essere tornati al medioevo, epoca in cui erano gli arabi ad insegnarci la civiltà: anche se sembrerebbe essere già così, visto come loro sanno scendere in piazza contro il satrapo di turno.

Ferdinando Menconi

giovedì 17 febbraio 2011

Mentire sempre, mentire tutti

da "La Voce del Ribelle":

Dalle aule parlamentari ai talkshow: la mistificazione regna sovrana e la qualità del ragionamento non interessa a nessuno. Una democrazia fittizia ridotta come il Processo di Biscardi. Anzi, peggio 
di Federico Zamboni
La si potrebbe chiamare “sindrome dell’avvocato difensore”. E infatti, non proprio per caso, il Parlamento italiano è strapieno di deputati e senatori che provengono dalle attività forensi: come sottolineava il Sole 24 Ore all’indomani delle Politiche del 2008, «la categoria ha riconquistato la vetta della graduatoria delle professioni: sono il 14% alla Camera e il 14,3 al Senato». In certi casi, a cominciare da Niccolò Ghedini, l’elezione non ha a che fare con un impegno di natura politica ma è solo il riflesso, perverso, degli incarichi assunti a favore di chi ha il potere di influire sulle liste elettorali, notoriamente bloccate e quindi pilotate dall’alto. Ghedini è l’avvocato di Berlusconi. Berlusconi lo piazza a Montecitorio. Una specie di benefit, a carico dello Stato, con l’ulteriore vantaggio di poter contare su di lui tanto per la predisposizione delle leggi, specie se “ad personam”, quanto per le votazioni delle medesime, nonché per inviarlo a questo o quel talkshow in rappresentanza del Pdl. Ovverosia del suo capo e cliente. Vedete voi in quale ordine.
Il fenomeno che ci interessa, però, è molto più vasto. Per essere affetti dalla “sindrome dell’avvocato difensore” non c’è alcun bisogno di essere i legali di Berlusconi, o di qualsiasi altro boss (di partito...). Non c’è nemmeno bisogno di essere avvocati di professione o anche solo laureati in legge. Addirittura, visto che la distorsione è condivisa sia da chi la produce in prima persona sia da chi la avalla, si può esserne corresponsabili anche senza fare niente: basta non rendersi conto di quanto sia capziosa e fuorviante; oppure, rendendosene conto, anteporre a ogni remora il vantaggio che si pensa di ricavarne. Della serie: l’importante è vincere, e dei metodi chi se ne frega. 
Proprio come in tribunale, appunto. Dove l’unica cosa che conta è portare a casa il verdetto, a prescindere dall’effettiva giustizia della sentenza. Dove qualsiasi cavillo e qualsiasi trucco sono i benvenuti, purché producano l’esito sperato. Al proprio avvocato difensore l’imputato di turno, e a maggior ragione il criminale incallito, non chiede affatto di avere ragione in senso assoluto, ma solo di far sembrare che ce l’abbia. Così, per esempio, l’avvocato dei boss (della mafia...) è disposto a ogni genere di artificio pur di ottenere una sentenza favorevole. In realtà sa benissimo che il suo assistito è colpevole, ma non se ne cura. Al contrario: proprio perché l’imputato è colpevole, e conscio del fondatissimo rischio di essere condannato come merita, l’eventuale assoluzione verrà apprezzata ancora di più. «Che splendida arringa, caro avvocato». «Baciamo le mani, eccellenza».
Ma in ambito politico – quantomeno in ambito politico – dovrebbe essere diverso. Tolti i casi, peraltro assai numerosi, di quelli che sono mossi solo dall’interesse materiale, chi sostiene un determinato partito o un determinato leader dovrebbe essere spinto da motivazioni ideali. Ed esigere, perciò, che coloro i quali lo rappresentano pubblicamente, nelle assemblee elettive e all’interno del dibattito mediatico, lo facciano con argomentazioni tanto solide nella sostanza quanto nitide nella forma. Argomentazioni che siano dotate innanzitutto di una loro dignità intrinseca, per la qualità del ragionamento e la correttezza dei riferimenti. 
L’aria che tira, invece, è che “vale tudo”. Nel clima abietto che si è instaurato, e che è sempre più simile a quello del famigerato Processo di Aldo Biscardi e delle sue innumerevoli filiazioni radiotelevisive, l’obiettivo non è convincere gli ascoltatori grazie alla bontà delle proprie tesi ma manipolarli con qualsiasi mezzo. A partire dal fatto che si sposta il confronto sul terreno delle appartenenze precostituite, che ottenebrano il cervello e riducono tutto a uno scontro primitivo fra opposte fazioni. Ovverosia fra clan. O fra tribù. 
Trattandosi di una rissa, sia pure verbale, ci si sottrae a qualunque regola. Una palese mistificazione, che è l’equivalente di una seggiolata a tradimento, vale tanto quanto un’analisi rigorosa; e magari anche di più, agli occhi dello spettatore-tifoso che vuole vincere a ogni costo e che, nei colpi bassi, ravvisa non già un’offesa alla propria dignità ma una beffa ai danni dell’avversario. Ed ecco il festival delle menzogne. O degli strafalcioni. Sarà vero che nella concussione del Rubygate il “giudice naturale” di Berlusconi è il tribunale dei ministri? Nemmeno per idea: e basta documentarsi un minimo per capirlo. Ma chi se ne frega. Da Cicchitto in giù gli aficionados del premier lo ripetono senza sosta. E la massima parte dei loro elettori se ne rallegrano. Perché è, perché sembra, una buona risposta. 
Sarà vero, sul versante opposto, che al netto di Berlusconi la nostra società e la nostra politica erano e sono fondamentalmente sane, anziché un groviglio di nefandezze e un ricettacolo di cialtroni? Assolutamente no: e in questo caso non c’è nemmeno bisogno di documentarsi nello specifico. Basta aver seguito, almeno un po’, ciò che è accaduto, e che continua ad accadere, dentro e fuori i partiti “di opposizione”. Mezze figure spacciate per leader. Opportunismi di ogni sorta. Decisioni a dir poco contraddittorie, dalla mancata realizzazione della legge sul conflitto di interessi in poi.
Ma non importa. Questi furbissimi “avvocati difensori” continuano a promettere, esplicitamente e implicitamente, di poter abbindolare qualsiasi Corte e qualsiasi giuria. E siccome ci sono riusciti davvero, in tante altre occasioni, perché mai non si dovrebbe continuare a dar loro credito? Solo perché sono degli azzeccagarbugli? Solo perché sono palesemente in malafede? Solo perché sono sempre pronti a far sparire le prove e a subornare i testimoni? 
Che inutili distinguo. Che antiquato moralismo. 
Federico Zamboni 

mercoledì 16 febbraio 2011

Bersani chiama Bossi

da "La Voce del Ribelle":


Prove tecniche di nuovi cartelli elettorali. E, ancora prima, di sabotaggi ai danni di Berlusconi e del Pdl. Ma stavolta siamo al limite dell’assurdo, col segretario Pd che si offre come garante del federalismo 

di Sara Santolini

Di fronte all’eventualità, ormai piuttosto verosimile, che questo governo cada, i partiti già pensano a come realizzare delle coalizioni future finalizzate a accaparrarsi più voti possibile.

La prima mossa l’ha fatta il segretario del Pd Pierluigi Bersani che, attraverso un’intervista rilasciata a La Padania, ha offerto alla Lega una specie di patto. Facendo leva sull’immobilismo dell’esecutivo che coinvolge anche la riforma che sta più a cuore ala Lega, quella del federalismo, Bersani ha dichiarato: «Se cade il governo mi impegno a portare avanti la prospettiva autonomista». (leggi nel Quotidiano)

Obama, il pifferaio (poco) magico

da "La Voce del Ribelle":


La “missione impossibile” di risollevare gli Usa dalla crisi del 2008 si conferma impossibile. E quello che doveva essere il Presidente delle Meraviglie si conferma un bluff tragicomico
di Alessio Mannino


Obama si è risvegliato e ha annunciato un piano di austerità per andare incontro all’opinione pubblica americana sempre più delusa dal suo operato. Il messia democrat doveva salvare il mondo dall’ingiustizia universale, ricordate? A più di due anni dall’incoronazione elettorale, tuttavia, il suo bilancio è misero. Ora è facile dire “l’avevamo detto”. Resta difficile dirlo ancor oggi per gli illusi che non vogliono ammettere che era e si conferma un imbroglio annunciato. Un lifting nero fatto al Potere di Washington. Un Bush travestito.
L’evento centrale della storia americana e mondiale di questi anni, la crisi finanziaria, Barack ha finto di governarla con qualche ritocco alle regole ma ne ha buttato sotto il tappeto le cause, coprendone i colpevoli. Attorniato da uomini di quella Wall Street che ha puntato su di lui dopo aver disarcionato il predecessore, di fatto ha salvato il sistema speculativo che aveva causato la bolla e ha messo il sigillo presidenziale ai profitti stratosferici delle banche d’affari uscite vincitrici e ingrassate dal crollo delle rivali più deboli. L’onnipotente e intoccabile Goldman Sachs ne è l’esempio lampante. 
Nelle politiche sociali il solo risultato di rilievo che ha portato a casa è la cosiddetta riforma sanitaria. Presentata come lo spartiacque epocale fra l’America del far west e la nuova America solidale e anti-classista, al dunque è stata annacquata a tal punto che è lecito dubitare che resisterà a un’eventuale conquista della Casa Bianca da parte dei Repubblicani. Ma era una favoletta già di suo: l’estensione dell’assistenza pubblica a fasce più ampie di ceto medio non fa altro che rimpinguare le casse delle voraci case farmaceutiche nonché di quelle assicurazioni private, oggi pagate non più dal privato cittadino bensì dallo Stato, che costituivano il bersaglio propagandistico della riforma. 
Dice: meglio aprire una voragine nel debito pubblico per curare la classe media impoverita piuttosto che per finanziare l’industria bellica. Ma oggi Obama è costretto a decidere tagli per 1.100 miliardi di dollari in dieci anni, una cifra talmente astronomica e diluita nel tempo che è facile prevedere che resterà lettera morta. Nell’arco dei prossimi cinque anni – anche qui nell’ipotesi di essere rieletto nel 2012 - Barack vorrebbe togliere 78 miliardi al budget del Pentagono. Ci permettiamo di dubitarne. Le truppe d’occupazione a stelle e strisce non se ne sono ancora andate né dall’Irak né tanto meno se ne andranno a breve dall’Afghanistan. Gli assegni miliardari con cui gli Stati Uniti si comprano la stabilità e la fedeltà di paesi strategici come l’Egitto continuano ad essere generosamente staccati. La politica di potenza imperiale viene perseguita con un più accorto basso profilo rispetto alla tracotanza di Bush e dei suoi scherani neocon, ma resta il faro di un’America che percepisce il declino della propria egemonia contrastata dalla Cina in ascesa. Gli osanna delle anime belle che vedevano in Obama un pacifista figlio dei fiori sono ridicoli se messi a confronto con l’assoluta, pervicace, deliberata e tanto più odiosa quanto più occultata continuità di dominio americano sul mondo. 
Sì, Guantanamo è stata sostanzialmente svuotata. Ma se alcuni prigionieri sono stati rimessi in libertà, altri sono stati semplicemente spediti in altri luoghi di detenzione senza un processo e senza garanzie di non essere ancora torturati e trattati come bestie. La libertà è infatti un concetto assai flessibile per questo presidente amato da liberali e sinistre: la democratica America di Barack ha mantenuto il liberticida Patriot Act e pensa ad altre norme per dare un’ulteriore stretta alla libertà di comunicare e informare su internet. Una democrazia sempre più orwelliana, quella di mister Barack. 
Il fallimento completo di Obama sta però in un fatto economico nudo e crudo. La Federal Reserve, la banca centrale Usa, sta acquistando senza sosta titoli di Stato americani. In pratica la Fed acquisisce titoli di debito e in cambio dà dollari fruscianti, finanziando il deficit con l’inflazione. Se continua così, quelli in suo possesso supereranno la quota di proprietà della Cina, che ammonta a 2 mila miliardi di dollari. Questo dato dovrebbe terrorizzarci. La Fed stessa informa che il passivo totale degli Stati Uniti (pubblico e privato) è di 114.428 miliardi di dollari, contro un valore del Pil di 14.575 miliardi. Per restituire questa montagna di denaro l’economia americana dovrebbe correre come treno per otto anni senza consumare niente. Il che, come ognuno capisce, è impossibile. Perciò prima o poi, anzi molto prima che poi, chi ha bond americani si ritroverà in mano carta straccia. In queste condizioni, una crisi futura è inevitabile. Soprattutto perché Obama, il protettore degli oppressi, in politica economica sta cercando in tutti i modi di rincorrere la destra della deregulation e dell’egoismo bancario. Fa tirare la cinghia alle casse dello Stato per non imporre misure draconiane ai suoi burattinai della finanza e al popolo americano, provato dalla disoccupazione e dai debiti ma infantilmente attaccato al mito del benessere, cuore della civiltà americana. E questa deriva produce l’effetto di rendere gli Americani, consumisti forsennati, più irresponsabili di quanto già non siano. A Obama non basterà investire in banda larga e nell’assunzione di nuovi insegnanti per evitare di essere giudicato per quel che è: il pifferaio magico di un’America in decadenza che non intende fare i conti con i motivi profondi che l’hanno portata alla decadenza. 

Alessio Mannino

martedì 15 febbraio 2011

Poche leggi, poco Parlamento





La UE a caccia di "terre rare"


La Cina ha limitato l’esportazione dei preziosi minerali, di cui detiene quasi il monopolio, e i Paesi europei provano a rifornirsi in Africa. Facendo affari coi miliziani sanguinari del Congo e del Ruanda
di Pamela Chiodi

Lo chiamano “incubo dei bloody phone”, ovvero dei cellulari insanguinati. E l’Unione Europea potrebbe farne parte. Lo scorso due febbraio la Commissione Industria e Sviluppo ha approvato un nuovo piano di sviluppo per le imprese europee. Potranno investire nella Repubblica democratica del Congo, in Sudafrica, in Ruanda e in Congo.
Come ha affermato Antonio Tajani, il vicepresidente della Commissione Industria, è stata una scelta necessaria per «far sì che l’industria europea possa continuare a svolgere un ruolo da leader nel mercato dell’innovazione». Un primato che ha subìto un duro colpo in seguito alla decisione della Cina di limitare le esportazioni delle cosiddette “terre rare”, vale a dire di quei materiali necessari allo sviluppo del settore tecnologico. La riduzione delle forniture ha già abbastanza danneggiato le imprese europee. Che ora devono rivolgersi altrove. In Africa, per l’appunto. Precisamente in zone devastate e tuttora insanguinate dai conflitti. Ma non importa. È “solo” un piccolo particolare che diventa insignificante di fronte ad un’esigenza impellente: «l’industria. La competitività delle nostre imprese. È un tema centrale nel quale convergono temi economici e sociali, manifattura e posti di lavoro», afferma Tajani che poi diffonde il solito “terrorismo psicologico”. «Abbiamo ricevuto l’allarme dall’industria di tutti i Paesi europei, da ogni settore produttivo: l’approvvigionamento di materie prime da Paesi extraeuropei sta diventando sempre più difficile e costoso. Così abbiamo deciso di intervenire, anche perché bisogna difendere il settore manifatturiero, riportare l’industria al centro dell’economia, perché è lì che si fa la politica sociale e che si creano i posti di lavoro. Abbiamo stilato l’elenco di 14 materie prime che sul mercato presentano criticità d’acquisto; sono elementi di base spesso essenziali per produzioni avanzate. Di queste, otto sono, di fatto, monopolio cinese. A cominciare dalle terre rare, che per il 97% provengono dalla Cina: si tratta di minerali essenziali all’industria dell’energia, per la produzione di lampadine, di televisori, di strumenti biomedicali, di pannelli solari etc...» 
L’ex ufficiale dell’Aeronautica Militare Italiana Tajani dimentica di aggiungere il settore della Difesa che per il suo sviluppo dipende, letteralmente, dalle terre rare. Con quei minerali si costruiscono aerei di nuova generazione, missili, radar, sonar, visori notturni, sistemi di telecomunicazione ed ottici, sensori e dispositivi vari. Non sono, quindi, dei materiali qualsiasi da utilizzare esclusivamente per la produzione di cellulari, televisori al plasma, satelliti, pale eoliche e pannelli solari, come invece vorrebbe far passare Trajani. Sono dei materiali strategici. E la precisazione non è di poco conto. Soprattutto se si considera il settore della Difesa europea che nel 2009 ha raggiunto la cifra record di 40,3 miliardi di euro in autorizzazioni all’esportazione di materiali bellici. Con un incremento rispetto all’anno precedente del 20,1%. E gli armamenti prodotti sono destinati soprattutto ai Paesi del Sud del mondo. Ma non basta. 
Il segretario generale della Nato Rasmussen si è recentemente lamentato per il taglio delle spese militari degli Sati europei appartenenti all’Alleanza atlantica.  «Parliamo di 45 miliardi in pochi anni, l’equivalente dell’intero bilancio annuale della difesa in Germania». L’Unione Europea, scegliendo di investire nei paesi africani del Congo, Sudafrica e Ruanda dove sono presenti le “terre rare” sembra aver risposto alle necessità della Nato. Poco importa se non ci sono controlli nelle miniere né nella filiera estrattiva, anche se le informazioni necessarie potrebbero basarsi su un semplice dato di fatto. Nell’ex Zaire, in Congo e in Ruanda i miliziani locali controllano tutto, compreso il commercio e le miniere stesse. È per questo che giornalisti come Nicholas Kristof, specialista in guerre africane e vincitore di due premi Pulitzer, hanno definito il ventunesimo secolo come «l’era dei bloody phone». Sul New York Times, Kristof oltre a descrivere la sua esperienza in Congo ha ricordato che «molti minerali sono estratti a caro prezzo: vite umane, schiavitù, violenze. In Congo ho visto donne mutilate, bambini costretti a mangiare la carne dei genitori, ragazzine violentate in nome del tantalio (un metallo utilizzato soprattutto per le turbine degli aerei militari e in componenti per l’informatica - Ndr)». Un prezzo che l’Unione Europea sembra essere disposta a pagare.

Pamela Chiodi


lunedì 14 febbraio 2011

Responsabilità personale, questa sconosciuta


C’è cascato pure Benedetto XVI, che ha imputato alla società non abbastanza «solidale e fraterna» la tragica morte dei quattro piccoli rom arsi vivi. Quanto alle colpe dei genitori, che li avevano lasciati soli, silenzio assoluto
di Ferdinando Menconi  
Anche il Papa ha detto la sua sui bimbi rom morti nel rogo di Roma, e come tutti non si è chiamato fuori dall’uso strumentale della morte e come tutti li ha sfruttati per portare acqua al suo mulino: una società più cristiana avrebbe probabilmente evitato la tragedia, quindi dobbiamo tornare in grembo alla chiesa. Se fosse un partito si chiamerebbe propaganda.
A Piazza S. Pietro pare ci fosse pure la famiglia dei bimbi rom, al completo, compresi i genitori che la magistratura ha inquisito per abbandono di minore: quella sera pare che invece non ci fossero, come neppure il resto della famiglia, ma li abbiamo abbandonati noi, la società. La colpa è sempre della società, che dovrebbe essere «più solidale e fraterna, più coerente nell'amore, cioè più cristiana», e che mai ci sfiori il dubbio che i magistrati possano aver ragione e che i responsabili potessero essere in piazza dietro lo striscione “i rom salutano il Papa”, con un nome e un cognome.
In questo il Papa non si distingue dal resto della società che critica, e il punto non è neppure nel fatto specifico. Qualunque cosa accada, anche per lui è sempre colpa della società. Colpa quindi collettiva, perciò di qualcun altro e, per conseguenza, di nessuno alla fin fine. Non sia mai che si affermi la tesi che in questo caso la colpa è dei genitori: si creerebbe un pericoloso precedente, quello di riaffermare la responsabilità personale.
Ci deve essere sempre un alibi, non mai essere colpa nostra, intesi come individui, qualunque cosa si faccia. Questo per inveterato retaggio di malinterpretato marxismo anni ’70 per il quale la colpa è del sistema, che colpe ne ha eccome, ma qualche volta, non pretendiamo sempre, potrà accadere che la colpa sia di uno o più soggetti specifici? Senza alcuna attenuante, neppure quella dell’infermità mentale, estremo rifugio per rifiutare il concetto di responsabilità nel suo insieme.
Magari vengono anche in aiuto un paio di scritte razziste, che fanno sembrar quasi che siano stati gli imbrattamuri a bruciare i quattro bambini, quando colpevole invece era il loro stato di abbandono, di cui i primi responsabili sono i familiari, la loro comunità e solo in ultima battuta noi, che siamo la società. Le scritte sono indubbiamente un brutto segnale, ma che andrebbe indagato senza preconcetti, perché se il razzismo è sempre immotivato, i malesseri sociali che al razzismo portano motivi ne hanno sempre e non vanno elusi con belle parole, civili e religiose, che nulla portano alla soluzione del problema.
Questo dei quattro rom, o zingari (come un tempo essi stessi si chiamavano prima che il politicamente corretto cambiasse loro nome) ma non più “nomadi” da tempo, è solo un caso emblematico di come il problema di questa società, più che il non essere «più solidale e fraterna, più coerente nell'amore», sia l’aver rimosso il senso di responsabilità dell’individuo. E quando ciò accade tutto diventa permesso, salvo l’esimersi dal dovere delle lacrime da coccodrillo dopo le tragedie, magari condite di accuse di cinismo a chi non si perde in lacrime e prova ad analizzare la situazione. Responsabilità reali, e penali, comprese.

Ferdinando Menconi

Le donne. Gli uomini. La dignità.





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Della questione abbiamo parlato, tra l'altro, qui: 

giovedì 10 febbraio 2011

Energia. La chiave è ridurre i consumi

Gli studi esistono e sono dettagliati, anche sul piano pratico. Le tecniche sono collaudate. Il resto deve farlo la volontà, individuale e collettiva: nella consapevolezza che una condotta attenta potrebbe ridurre di tre quarti il fabbisogno
di Andrea Bertaglio 

Chi sostiene il punto di vista della decrescita lo afferma da sempre: per iniziare a risolvere il problema dei costi e dell’inquinamento dovuto all’approvvigionamento energetico si deve fare in modo di ridurre la domanda, piuttosto che aumentare l’offerta. Non vivendo di stenti e di rinunce, ma agevolando le politiche di efficienza energetica. Una scelta che ci porterebbe a risparmiare fino al 73 per cento di energia, come conferma ora anche uno studio dell’Università di Cambridge pubblicato recentemente dall'Environmental Science and Technology. Che, dalle sue pagine, mostra come sarebbe sufficiente apportare piccole modifiche a edifici, veicoli e strutture industriali per risparmiare quasi i tre quarti del consumo complessivo. Anche se l’importanza delle proprie abitudini rimane primaria.
«Se davvero si vuole risolvere il problema del fabbisogno energetico e del riscaldamento globale, allora sarà necessario considerare la questione non solo dal lato dell'offerta del servizio, ma anche da quello della domanda», ha spiegato l’autore della ricerca, Julian Allwood. Ridurre la domanda è quindi il primo passo, e per farlo non è necessario cambiare radicalmente il proprio stile di vita. Bastano piccole attenzioni ed accorgimenti. È questa, in sintesi, la tesi dei ricercatori di Cambridge. Che, di conseguenza, consigliano di adottare una serie di buone pratiche atte a vivere sprecando di meno, ed a rendere efficienti gli edifici, le strutture ed anche i veicoli.
La tecnologia può aiutare molto, se usata nel modo giusto, se fruttata per ridurre l’uso di energia e di risorse, o la produzione di rifiuti. E può essere realmente utile, se orientata verso un discorso di qualità, invece che di quantità, come il mercato globale impone in maniera sempre più pressante. Qualche esempio? Per gli studiosi di Cambridge si può iniziare dall’isolamento di edifici ed abitazioni con pareti più spesse, o dall’installazione di finestre con doppi e tripli vetri. Importante anche adottare semplicissime (se non addirittura banali) misure nella propria quotidianità, come usare i coperchi sulle pentole durante la cottura degli alimenti, eliminare i serbatoi di acqua calda o ridurre la temperatura impostata di lavatrici e lavastoviglie. 
Per Nick Eyre del gruppo Lower Carbon Futures dell’Università di Oxford: «Non basta un edificio efficiente se poi chi lo abita apre continuamente le finestre mentre fuori fa freddo». Ovvero: sta soprattutto al singolo, anche in presenza di soluzioni tecnologicamente avanzate, fare attenzione a non sprecare l’energia. Perché nel momento in cui si dispone di apparecchiature, veicoli o sistemi più efficienti, si corre infatti il rischio di incorrere nel cosiddetto rebound effect, o “effetto rimbalzo”: so che un apparecchio (o un’auto, una lampadina, qualunque cosa) consuma meno, quindi la uso di più, magari inconsciamente, ma finendo col consumare anche più di prima. 
L’aspetto interessante delle osservazioni di Eyre, però, è che le conclusioni raggiunte dai colleghi di Cambridge sono particolarmente “potenti” dal punto di vista politico. Perché parlare di riduzione della domanda, invece che di aumento dell’offerta, può avere effetti non di poco conto sulle decisioni prese a livello sia nazionale che internazionale. Per Eyre: «L'enfasi sull'importanza dei “sistemi passivi” suggerisce con forza che la visione convenzionale sul sistema energetico e sulla politica energetica deve essere ampliata per includere l'energia come viene utilizzata, non solo il modo in cui è fornita e convertita». 
Immaginiamo che cosa significherebbe per l’Italia (e gli italiani) se la classe politica e dirigente in generale facessero propria questa tesi: invece che di Piano Casa sentiremmo parlare seriamente di ristrutturazione energetica degli edifici; invece che di rilancio nucleare sentiremmo magnificare l’efficienza energetica; invece che di rigassificatori nelle giunte comunali si parlerebbe di cappotti coibentanti per le case; e così via. 
Ma sembra poco probabile, in un Paese in cui, ancora, ci si danna, o meglio, ci si rende ridicoli parlando di Piano Sud o di Piano Casa, appunto. O nel quale, peggio ancora, si punta alla più becera deregulation, revisionando l’art. 41 della Costituzione. Per cosa, poi? Per fare salire il Pil (ma chi ci crede?) a crescere del 4 o 5 per cento. Come in Germania, direbbero politici ed economisti nostrani. Persone rimaste bloccate nei secoli addietro, ignare del fatto che quello è proprio il Paese in cui i “sistemi passivi” sono stati inventati, e nel quale l’efficienza energetica degli edifici, fra le altre cose, ha raggiunto livelli che nel Bel Paese nemmeno immaginiamo. 
Andrea Bertaglio


Mezza verità: meno morti sul lavoro

mercoledì 9 febbraio 2011

Sveglia, nomadi. E fate la vostra parte

da "La Voce del Ribelle":
L’inganno comincia dal nome. Quasi sempre i cosiddetti “nomadi” sono stanziali, anche se si ostinano a vivere nelle roulotte. Pertanto, dovrebbero avere i diritti e i doveri di chiunque altro

di Alessio Mannino

La morte orribile dei quattro fratellini arsi vivi nel fatiscente campo rom di Roma è solo l’ultimo di una serie di incendi, violenze e sgomberi che negli ultimi due anni hanno fatto parlare di sé, loro malgrado o no, le minoranze etniche dei “nomadi”. In Italia il loro numero si aggirerebbe fra i 120 e i 140 mila, di cui il 75% di cittadini italiani. Vivono ammassati in roulottes di regola non rifornite di acqua e luce, in un arcipelago di circa 200 campi, veri e propri ghetti, in buona parte abusivi (dati: Opera Nomadi). Il ricordo del romantico e affascinante passato gitano è, appunto, solo un ricordo. 
Non sono più nomadi, infatti, ma stanziali. Le roulottes in cui vivono rimandano al nomadismo solo perché hanno le ruote, ma in realtà sono dimore fisse a tutti gli effetti. Perciò, essendo fermi lì come stessero in vere e proprie case, non sono diversi da tutti gli altri cittadini, o anche dagli immigrati, col problema dell’affitto. Quindi non si capisce perché debbano godere di uno status particolare per il quale costruire aree speciali solo per loro. È la logica dell’autoghettizzazione, ma coi soldi pubblici. Ora, nessuno pretende che disconoscano sé stessi e la propria storia. Anche perché - e la chiave sta tutta qui – i Rom e i Sinti vi hanno rinunciato per conto loro, abbandonando l’errabondo stile di vita che ci fa ricordare con simpatia i loro avi. Visto che si sono definitivamente accasati e mezzo italianizzati, siano conseguenti: si cerchino una casa come tutti. Se imparano ad essere nostri buoni vicini di casa gli albanesi o i marocchini, non si vede perché loro, che di zingaro non hanno più niente salvo il tenace roulottismo, non possano fare altrettanto.
Immagino l’obiezione: qui si sta parlando di persone, in genere con la cittadinanza di questo paese, che hanno uno stile di vita basato sul clan, che non mandano i figli a scuola e che spesso vivono di espedienti, se non di furti e microcriminalità. Però si pretende che le autorità garantiscano questo volontario apartheid facendosene garanti e foraggiandolo di ogni servizio. Eh no cari miei, troppo comodo. I Comuni pensino all’edilizia agevolata e li mettano in lista, senza fare discriminazioni fra poveri di serie A e di serie B (ché poi non facciamo finta di non vedere i macchinoni che fanno pensare a tutto fuorché all’indigenza). Per superare le iniziali difficoltà collaborino pure con le associazioni di volontariato allo scopo di dare aiuto legale e assistenza nell’inserirsi. Ma a patto che gli interessati intendano farlo sul serio. 
Dice: ma, per la loro cultura, trovano difficoltà insormontabili nell’inserirsi nel mondo del lavoro e nel tessuto urbano, con gli orari, i ritmi e i rapporti con colleghi e vicinato. Chi scrive è per il rispetto di tutte le diversità, anche le più estreme. Ma se un gruppo che vive stabilmente in un contesto sociale aspira a integrarsi – stando almeno a quanto raccontano gli operatori che frequentano i campi – non può usufruire solo dei diritti, deve anche assumersi la responsabilità di alcuni doveri. 
Per essere chiari fino in fondo. Poniamo che io voglia vivere in una comune hippie, e che perciò necessiti di uno spazio sufficientemente grande e separato per fondare la mia comunità di fricchettoni. Dovrei comprarmi un terreno, dopodiché sarei libero di invitarci dentro chi mi pare e realizzare la mia società alternativa. Non sarebbe anche questo un “modo di vivere” da rispettare? Eccome. Tuttavia non potrei avanzare nessun diritto particolare davanti all’amministrazione pubblica, se non di ottenere gli allacciamenti come per tutte le abitazioni private e di lasciarmi in pace. 
Questa è libertà nel rispetto dell’uguaglianza dei diritti. I nomadi invece non sono più nomadi ma vogliono essere trattati come tali e vivere alle loro condizioni ma con l’aiuto del pubblico. Vorrebbero essere uguali nei diritti ma diversi nei doveri. E coccolati per questo. Questa non è libertà, ma irresponsabilità, che per soprammercato ha come effetto quello di perpetuare una segregazione ipocrita e squallida. E non è nemmeno uguaglianza, perché un altro bisognoso che però non è di etnia rom o sinti diventa automaticamente meno uguale, perché lui magari non vive in un campo-lager, è solo o ha solo una famiglia, la sua, da mantenere. Non ha avvocati difensori che per lui invochino il segregazionismo mirato e ammantato di buonismo. È solo un poveraccio qualunque. 

Alessio Mannino


Se le italiane fanno le colf




martedì 8 febbraio 2011

Germania "no good"


Il Wall Street Journal analizza il rapporto tra il potente sistema tedesco, la cui forza economica tende a trasformarsi in leadership politica, e il resto dei Paesi Ue. La conclusione, tra le righe, emerge chiarissima: agli affaristi yankee non piace un’Europa crucca 
di Davide Stasi 
Faceva notare ieri il Wall Street Journal, non senza qualche ragione, che uno dei moventi sottesi alla creazione dell’Europa Unita, o quanto meno del mercato unico europeo, era il contenimento della Germania, che dopo la riunificazione mostrava le potenzialità per un’egemonia economica e politica sul continente. L’auspicio dei paesi europei, e sicuramente anche degli Stati Uniti, era quello di “europeizzare” la Germania, evitando che avvenisse il contrario, ossia che si “germanizzasse” l’Europa. Tutto questo è rimasto in qualche modo valido fino all’avvento della crisi.
Sbarcata nell’Unione a partire dalle periferie, Grecia, Irlanda e Portogallo, lentamente si sta avvicinando al cuore del continente, attraverso la Spagna, l’Italia e il Belgio, quest’ultimo per altro sempre più ingovernato e ingovernabile. Tutti candidati di prima fila allo sfacelo prossimo venturo. In questo contesto, il vecchio continente sarà costretto sempre più, per sopravvivere, a «ballare la musica suonata dalla Germania», secondo l’espressione un po’ beffarda dello stesso Wall Street Journal. Il quale fa notare come questa probabile germanizzazione non avverrà senza attriti.
L’esempio è di immediata attualità. Nell’ultimo vertice europeo la Merkel si è presentata da sola, col solo gendarme Sarkozy al fianco, per dettare agli altri paesi i termini della resa incondizionata (altra definizione del WSJ) in cambio dell’aiuto tedesco. Quelli che d’ora in avanti ne avranno bisogno, dovranno conformarsi al modello germanico per pensioni, salari, leggi sul lavoro, tassazione e controllo del debito pubblico. Il tutto puntando a un sistema fiscale integrato tra tutti i paesi europei e a controlli sulle banche tali da non permettere più infiltrazioni tossiche, come in Spagna, o sogni ad occhi aperti, come in Irlanda.
Molti paesi si sono già messi a vento. La Spagna, attualmente la corteggiatrice numero uno della locomotiva tedesca, ha digerito, con la benedizione dei sindacati, un aumento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni, e le banche in crisi hanno già accettato fusioni che renderebbero meno oneroso l’intervento di salvataggio dall’esterno. L’Irlanda ha già programmato un raddoppio del taglio del deficit, a spese ovviamente dei cittadini. In Portogallo le banche più asfittiche stanno rinunciando ai dividendi per riuscire a raccogliere del capitale, e anche lì l’età pensionabile è stata aumentata.
La Merkel, secondo il giornale di Wall Street, gongola nel vedere questo zelo, e chiede di più, nascondendo il processo di germanizzazione sotto la definizione di “piano per la competitività”. Eppure molti stati tentennano e fanno resistenza. All’ultimo vertice europeo, almeno venti paesi hanno avanzato obiezioni all’aut-aut tedesco, e per questo la Merkel si è guardata bene dal sottoscrivere un aumento del fondo europeo per i salvataggi nell’eurozona. A cui la Germania sarebbe chiamata a contribuire più degli altri.
Effettivamente il Wall Street Journal non sbaglia l’analisi. Dopo gli interventi in Grecia e Irlanda, con il Portogallo nel limbo, e Spagna, Italia e Belgio sull’orlo del dirupo, la Germania si è resa conto di non potere e non volere essere il babbo di cui si attende la dipartita per raggranellare qualche soldo. Specie se si ha a che fare con stati e governi tutt’altro che virtuosi e lungimiranti nelle strategie di politica economica, al contrario proprio dei tedeschi. È del tutto comprensibile, insomma, che la Germania non abbia la minima intenzione di finanziare a fondo perduto processi di sviluppo di cartapesta, come in Spagna o in Irlanda, o satrapie inqualificabili come l’Italia.
Ciò che colpisce di più, però, è il tono con cui il Wall Street Journal, portavoce della grande finanza mondiale, racconta il tutto. Il tono oscilla tra il sarcasmo e la demonizzazione. Gli USA oggi sanno di non avere margini per poter stringere con la Germania legami strategici strutturali, come nel dopoguerra. Al massimo qualche alleanza tattica transitoria. Per il resto, Berlino sta diventando sempre più pericolosamente un competitore di Washington. Dai toni della descrizione la preoccupazione emerge chiaramente: la Merkel ne esce come un cerbero insensibile e tirannico. Ma d’altra parte vanno capiti. Una germanizzazione dell’Europa a loro non starebbe troppo bene. Sarebbe un peccato: ci hanno messo così tanto impegno ad americanizzarla, facendone una colonia (a)culturale e una riserva per il consumo dei loro prodotti spazzatura…
Davide Stasi

Trenitalia: prima gli aumenti




lunedì 7 febbraio 2011

Stage: maneggiare con cura

da "La Voce del Ribelle" del 4 febbraio 2011:


Per moltissime aziende sono solo un trucco per ottenere lavoro a costo zero. Per molti di quelli che li frequentano sono un inganno accettato di buon grado, illudendosi che migliorino il curriculum
di Sara Santolini
Oggi verrà lanciata l’iniziativa “NON + stage truffa”. La CGIL, promotrice della campagna, ha deciso di proporre una serie di regole che ridiano agli stage il valore che meritano. Susanna Camusso, il segretario generale del sindacato, presenterà personalmente il progetto in conferenza stampa.
La tematica non è nuova. Molte aziende interpretano queste collaborazioni come un modo economico e veloce per reclutare giovani più o meno qualificati ma di poche pretese. In cambio del lavoro, però, non viene dato loro né un rimborso spese, né un posto di lavoro e nemmeno, cosa più grave perché stravolge il fine stesso dell’esperienza, una formazione adeguata. Inoltre sempre più spesso lo stage fa parte di un corso di formazione o specializzazione rigorosamente a pagamento. 
In realtà la parola stage non significa che “tirocinio formativo e di orientamento”. Non si tratta di un’esperienza lavorativa vera e propria, ma di una sorta di apprendistato sul campo che prevede dunque che gli stagisti vengano seguiti da dei tutor, professionisti che ne siano il punto di riferimento per tutta la durata del tirocinio, anziché lasciarli tutto il giorno a fare fotocopie. Eppure, quelle fotocopie qualcuno le deve pur fare. Per questo continuano a pullulare stage e tirocini. Strumenti che avrebbero lo scopo di dare ai giovani un’opportunità di crescita e consentire l’accesso alle professioni, spesso si traducono nella possibilità per le aziende di approfittare di lavoro gratuito o sottopagato, in sostituzione di personale dipendente. 
La situazione è ancora più grave per quelle professioni che richiedono obbligatoriamente un praticantato, che evidentemente si ritiene abbia un valore fondamentale a livello formativo, per accedere agli ordini (commercialisti, avvocati, giornalisti). Si insegna poco o niente ai tirocinanti, cui vengono spesso date mansioni lontane da quelle che dovrebbero espletare. Il famoso tutor spesso riduce la sua presenza a una firma sulla dichiarazione di fine esperienza. E così lo stage, che all’origine era pensato per creare un contatto diretto tra mondo del lavoro e professionalità, si trasforma invece in un vero e proprio scontro. Invece di facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, mostra subito quanto di più disonesto può esserci in esso.
Filomena Trizio, segretaria generale di NIdiL CGIL, la sezione del sindacato che si occupa in particolare dei lavoratori atipici, sottolinea che ogni anno la struttura riceve la segnalazione di «centinaia e centinaia di casi di abuso, ragazzi inseriti nelle aziende con un rapporto di stage a fini formativi e utilizzati per svolgere lavoro dipendente a tutti gli effetti». E aggiunge: «A queste persone vogliamo dire che devono vigilare sui loro percorsi e avere la forza di reclamare il loro diritto alla formazione e di denunciare l’abuso». Ma i singoli, com’è noto, questa forza non ce l’hanno. Altrimenti non ci sarebbe bisogno di sindacati e associazioni. Soprattutto in questo momento: la disoccupazione giovanile ha toccato il 29% e la tendenza negativa non sembra affatto destinata ad arrestarsi. 
In questa situazione molti giovani ritengano che sia meglio passare da uno stage all’altro, magari con un piccolo rimborso spese, piuttosto che lavorare in un call center senza alcuna prospettiva per il futuro. O, peggio ancora, non lavorare affatto. Meglio – o forse più comodo – continuare con nuovi stage o prolungare quello in corso. Meglio, per quanto illusorio, allungare il proprio curriculum, piuttosto che trovare un posto di lavoro, seppure atipico. 

Sara Santolini

giovedì 3 febbraio 2011

Egitto eccetera: cambia solo la facciata


A prima vista sono rivolte entusiasmanti. A guardare meglio si capisce che i cittadini si illudono: non basta cacciare i vecchi governanti, per fare una vera rivoluzione 
di Alessio Mannino 

Purtroppo, le belle e coraggiose piazze piene di giovani in rivolta in Algeria, Tunisia ed Egitto sembrano avere il destino segnato: essere pilotate dalle reali leve di comando (forze armate e sicurezza) verso transizioni controllate dall’alto che sfocino in cambiamenti più apparenti che sostanziali. 
Il caso egiziano è emblematico. In un indecoroso discorso alla nazione il faraone a vita Hosni Mubarak si è spinto, bontà sua, fino a promettere di non ricandidarsi (è incollato al trono presidenziale da trent’anni) e di restare al governo fino a settembre. Colto di sorpresa come tutti, Occidente e Israele compresi, dall’insurrezione di massa che l’altro ieri ha portato in strada un milione di persone, il vecchio generale le sta provando tutte pur di salvare il salvabile. Consapevole che la sua uscita di scena è ormai solo una questione di tempo, ha tentato la carta Suleiman-Shafiq, issando rispettivamente al ruolo di vicepresidente e primo ministro il capo dei servizi segreti, molto stimato dagli Usa e da Israele, e l’ex comandante dell’aviazione, uomo gradito a chi ha l’ultima parola al Cairo: l’esercito. Ma la prospettiva offerta da Mubarak, un passaggio di consegne morbido e gestito da lui stesso, è stata subito rigettata dalle opposizioni, che non intendono cedere alla logica della concessione e vogliono la fine del regime. Ed è stata definitivamente affossata dal dittatore-ombra del Nilo, il presidente americano Obama, che dopo averlo scaricato come un ferrovecchio ora ordina all’ex amico Hosni di togliersi immediatamente dai piedi dopo i tumulti («istigati dal governo») di ieri fra fedeli e avversari del raìs.
Il guaio è che l’intifada egiziana, allo stesso identico modo delle sollevazioni tunisine (e, in misura diversa, algerine), ha potuto insorgere e mettere con le spalle al muro i governanti solo grazie al comportamento benevolo deciso dai militari. Altrimenti, alle prime scintille la ribellione sarebbe stata soffocata nel sangue, con grande indignazione dell’opinione pubblica internazionale ma ben poche conseguenze sul piano fattuale. Avremmo assistito, insomma, a delle Tien-an-men in sedicesimo. In Stati dove la democrazia si esprime nominalmente sotto forma di elezioni periodiche per coprire la realtà di un potere effettivo basato sul monopolio legale della violenza, i ribelli hanno trovato il loro alleato necessario proprio nel centro decisionale che, se si trattasse di vere rivoluzioni, sarebbe l’obiettivo vero da rovesciare. Ma una sfida fra rivoltosi e soldati presupporrebbe che i vertici militari facessero quadrato intorno agli autocrati in declino, mettendosi così in scontro frontale col popolo. Invece gli alti gradi dell’esercito, che devono tener conto del fatto che le loro truppe sono costituite da venti-venticinquenni, cioè da classi anagrafiche che costituiscono la maggioranza delle popolazioni nordafricane, preferiscono fare la mossa meno rischiosa e più conveniente: evitare la repressione brutale degli oppositori (salvo lasciare sui marciapiedi centinaia fra morti e feriti, segno che la pressione è giunta sull’orlo dell’anarchia totale) e facilitare una sostituzione manovrata e indolore dei dittatori e dei loro clan, screditati e osteggiati a tal punto da essere diventati indifendibili. 
I “rivoluzionari” del Nord Africa in fiamme, così puri nella loro spontaneità grazie a Facebook, non stanno compiendo alcuna rivoluzione. Un po’ perché la stanno facendo, o meglio credono di farla, con l’esercito che spiana loro la strada. Un po’ perché sono privi di una leadership unitaria e forte, riconosciuta da tutte le anime della protesta. E un po’ perché, a ben vedere, il programma che sbandierano consiste nella caduta dei vari Bouteflika, Ben Alì e Mubarak e nella vaga speranza in un pluralismo politico senza limite e censure, con un diritto all’informazione garantito (cancellazione dei divieti su Internet in vigore in Egitto, per esempio), e riforme sociali ed economiche contro la povertà diffusa. Chiedono, insomma, che le “democrature”, come una volta le definì cinicamente l’ex ministro craxiano Gianni De Michelis, si scrollino di dosso i caratteri di dittature per trasformarsi in democrazie come sono intese sull’altra sponda del Mediterraneo. Dal loro punto di vista hanno ragione: che senso può avere ancora una dittatura poliziesca e satrapesca quando i costumi e la mentalità globale che viaggiano in Rete corrodono dall’interno ogni residua sottomissione a vecchi bacucchi arroganti e fuori dal tempo?
Di qui l’atteggiamento defilato dei Fratelli Musulmani e dei partiti islamici. Non sono stati e continuano a non essere alla testa delle sommosse, andandovi piuttosto a rimorchio, perché queste sono scaturite da una domanda di rinnovamento laico, occidentalista, di ragazzi che sognano di avvicinare i propri paesi ai modelli europei e americani. Credendo così, a torto, di poter contare di più, quando al contrario si profila all’orizzonte non una rivoluzione, ma al massimo una revisione, un aggiornamento, un pit-stop sia pur cruento delle strutture di potere. Dopo decenni in cui hanno fatto il bello e il cattivo tempo, i raìs non sono più amati dai loro giovani sudditi, che si sentono stretti nelle maglie di ferro dei loro clientes e dei loro sgherri. Oggi, nel modo violento e sanguinoso proprio di società non ancora del tutto sclerotizzate dalla sedentarietà e pusillanimità di noi occidentali, quei giovani presentano il conto, gli Stati Maggiori supervisionano il ricambio e gli Americani lo benedicono (mentre Israele ostenta il timore di governi islamizzati nel malcelato intento di far impicciare gli Usa il più possibile, a tutela dei propri confini e dei propri interessi). 
In sostanza, un gattopardismo imbellettato con qualche iniezione di democraticismo, con regimi che resteranno tali e non tollereranno cambi di rotta nelle due questioni-tabù: l’alleanza-dipendenza obbligata con le potenze Nato e la perenne quarantena in cui dovranno seguitare a rimanere gli islamici militanti. Guarda caso, esattamente le condizioni che hanno permesso ai dittatori oggi in crisi di insediarsi e contare sull’appoggio di Washington e dell’Europa. In definitiva, questi africani liberatisi da despoti corrotti e ammuffiti diventeranno più simili a noi: s’illuderanno di essere diventati cittadini sovrani, saranno invece sudditi di un dispotismo diverso, più subdolo: una democrazia bloccata (islamismo al bando) ed eterodiretta da poteri forti intoccabili (interessi stranieri in torta con la casta militare). Liberi, ammirevoli, ma utili idioti. 
Alessio Mannino


Tutti noi, più poveri del 2,7 per cento