giovedì 7 agosto 2014

IL VALORE DEL "LAVORO"

Recessione! Recessione! Ormai il coro è unanime, nonostante non sia di oggi la previsione del crollo, inevitabile, del Paese. Un allarme fittizio e ritardato che farà da preludio a una manovra, anche quella più che prevedibile da inizio anno, che anche stavolta venderanno per "necessaria e obbligatoria per far fronte all'emergenza". Emergenza: altra parola un po' troppo usata dalle nostre parti, per le alluvioni, i restauri, i terremoti di decenni prima, la gestione ordinaria dei rifiuti.

A questo punto una riflessione è d'obbligo, anche per quelli che fino a ieri hanno preso per pazze le Cassandre della recessione. Comincerei dal piccolo, e mi fermerei lì, che la vita del singolo, seppure condizionata dalle grandi manovre economiche e politiche, si alimenta di piccole scelte, possibilità e obblighi, tra necessità e libertà.

Qualche giorno fa mi chiama il commercialista e mi chiede di versare all'istituto di previdenza un 50% in più per poter arrivare ai 12 mesi di contribuzione, vista la mia assenza dal lavoro (3 mesi) per la maternità. Non ci ho messo che qualche frazione di secondo a rispondere che non l'avrei fatto: giusto il tempo di capire - non potevo crederci - cosa stava chiedendo. Sostanzialmente soldi in più da un già misero reddito per una pensione che non vedrò mai.

Ecco, se a livello prettamente economico ci sono cose che già non "tornano" più, il rischio - per il sistema sia chiaro non per noi - è che a un certo punto si riesca a trovare una alternativa, quella che si continua a cercare, visto il malessere che impera. Un'opportunità concreta che traduca in fatti e che porti alle sue estreme conseguenze tutta la teoria della decrescita, del distacco dal sistema, della dittatura del lavoro. Perchè, inutile nascondersi, anche se derivata dal mercato, sempre di dittatura si tratta. E ogni dittatura che si rispetti ha dei sudditi più o meno consapevoli: i singoli cittadini. Chi può fare a meno del lavoro alzi la mano. Anzi, scagli la prima pietra su chi del lavoro ha fatto - pur sbagliando clamorosamente - la sua vocazione.

Il primo passo è quello di liberarsi dal concetto del "lavoro", inteso come attività salariata, come valore. Le parole hanno il loro peso: dovremmo smetterla di identificarci con queste attività. Una donna che sa dipingere e che è madre di tre bambini bisogna identificarla con la parola "personale delle pulizie" se è quello che fa per vivere? Uno straniero la cui laurea in medicina dove vive non vale niente perchè non equiparata, che cura gratis la gente del suo quartiere ma che per soldi scarica le cassette di verdura al mercato rionale siamo sicuri sia giusto identificarlo con questa attività? O ancora, un manager affermato e ricco che paghi qualunque cosa a caro prezzo, da chi gli fa favori a chi gli dà consigli, dall'amicizia all'amore, siamo sicuri possa essere definito "di successo"?

La sfida non è sognare un mondo diverso, in cui si possa avere tutta la giornata libera dal "lavoro", è riuscire ad averla senza sbattere la testa al muro perchè non si sa cosa dare da mangiare ai propri figli. Questa è la difficoltà, perchè non lavorare e sbeffeggiare chi lo fa quando, per fare qualche esempio, si può contare su mamma e papà o su una rendita o anche su un buon gruzzoletto messo da parte, insomma quando si ha "il culo parato", non è vera ribellione. E' semplice, invidiabile e condivisibile, opportunismo. E in ogni caso una cosa è avere del tempo liberato, un altro paio di maniche è sapere cosa farne. Insomma, forse chi considera a ragione il lavoro una schiavitù, ma non lavora perchè vive grazie a rendite create dai meccanismi di mercato, e utilizza il tempo che ha liberato dal lavoro per attività proprie di chi nel sistema è ben incastonato - giri al centro commerciale, giochini su facebook e via dicendo - non è più ribelle di chi, tanto per dire, ha potuto approfittare del sistema nel passato, che so andando in pensione a 40 anni, e grazie a questo gira il mondo in barca.

La sfida al sistema, quello che davvero lo farebbe andare in tilt, è riuscire a vivere senza soldi. O almeno con meno soldi possibile, meglio ancora senza alimentare alcuna industria, riutilizzando e aggiustando e soprattutto comprando il meno che si può. L'impresa è a dir poco ardua: qualsiasi cosa è ormai legata alla compra-vendita, non esiste quasi più l'ospitalità, quasi chiunque abbia "una stanza in più" cerca di sfruttarla se può come fonte di guadagno cercando di attirare turisti facoltosi, non "poveracci" in cerca d'avventura. Ancora, è difficile avvalersi dello scambio di beni, peggio ancora se si parla di tempo o servizi, tranne che all'interno di circoli limitati e organizzati che, seppure funzionali, rappresentano solo una goccia nell'oceano. Anzi, nel deserto.

Sara Santolini

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