giovedì 17 febbraio 2011

Mentire sempre, mentire tutti

da "La Voce del Ribelle":

Dalle aule parlamentari ai talkshow: la mistificazione regna sovrana e la qualità del ragionamento non interessa a nessuno. Una democrazia fittizia ridotta come il Processo di Biscardi. Anzi, peggio 
di Federico Zamboni
La si potrebbe chiamare “sindrome dell’avvocato difensore”. E infatti, non proprio per caso, il Parlamento italiano è strapieno di deputati e senatori che provengono dalle attività forensi: come sottolineava il Sole 24 Ore all’indomani delle Politiche del 2008, «la categoria ha riconquistato la vetta della graduatoria delle professioni: sono il 14% alla Camera e il 14,3 al Senato». In certi casi, a cominciare da Niccolò Ghedini, l’elezione non ha a che fare con un impegno di natura politica ma è solo il riflesso, perverso, degli incarichi assunti a favore di chi ha il potere di influire sulle liste elettorali, notoriamente bloccate e quindi pilotate dall’alto. Ghedini è l’avvocato di Berlusconi. Berlusconi lo piazza a Montecitorio. Una specie di benefit, a carico dello Stato, con l’ulteriore vantaggio di poter contare su di lui tanto per la predisposizione delle leggi, specie se “ad personam”, quanto per le votazioni delle medesime, nonché per inviarlo a questo o quel talkshow in rappresentanza del Pdl. Ovverosia del suo capo e cliente. Vedete voi in quale ordine.
Il fenomeno che ci interessa, però, è molto più vasto. Per essere affetti dalla “sindrome dell’avvocato difensore” non c’è alcun bisogno di essere i legali di Berlusconi, o di qualsiasi altro boss (di partito...). Non c’è nemmeno bisogno di essere avvocati di professione o anche solo laureati in legge. Addirittura, visto che la distorsione è condivisa sia da chi la produce in prima persona sia da chi la avalla, si può esserne corresponsabili anche senza fare niente: basta non rendersi conto di quanto sia capziosa e fuorviante; oppure, rendendosene conto, anteporre a ogni remora il vantaggio che si pensa di ricavarne. Della serie: l’importante è vincere, e dei metodi chi se ne frega. 
Proprio come in tribunale, appunto. Dove l’unica cosa che conta è portare a casa il verdetto, a prescindere dall’effettiva giustizia della sentenza. Dove qualsiasi cavillo e qualsiasi trucco sono i benvenuti, purché producano l’esito sperato. Al proprio avvocato difensore l’imputato di turno, e a maggior ragione il criminale incallito, non chiede affatto di avere ragione in senso assoluto, ma solo di far sembrare che ce l’abbia. Così, per esempio, l’avvocato dei boss (della mafia...) è disposto a ogni genere di artificio pur di ottenere una sentenza favorevole. In realtà sa benissimo che il suo assistito è colpevole, ma non se ne cura. Al contrario: proprio perché l’imputato è colpevole, e conscio del fondatissimo rischio di essere condannato come merita, l’eventuale assoluzione verrà apprezzata ancora di più. «Che splendida arringa, caro avvocato». «Baciamo le mani, eccellenza».
Ma in ambito politico – quantomeno in ambito politico – dovrebbe essere diverso. Tolti i casi, peraltro assai numerosi, di quelli che sono mossi solo dall’interesse materiale, chi sostiene un determinato partito o un determinato leader dovrebbe essere spinto da motivazioni ideali. Ed esigere, perciò, che coloro i quali lo rappresentano pubblicamente, nelle assemblee elettive e all’interno del dibattito mediatico, lo facciano con argomentazioni tanto solide nella sostanza quanto nitide nella forma. Argomentazioni che siano dotate innanzitutto di una loro dignità intrinseca, per la qualità del ragionamento e la correttezza dei riferimenti. 
L’aria che tira, invece, è che “vale tudo”. Nel clima abietto che si è instaurato, e che è sempre più simile a quello del famigerato Processo di Aldo Biscardi e delle sue innumerevoli filiazioni radiotelevisive, l’obiettivo non è convincere gli ascoltatori grazie alla bontà delle proprie tesi ma manipolarli con qualsiasi mezzo. A partire dal fatto che si sposta il confronto sul terreno delle appartenenze precostituite, che ottenebrano il cervello e riducono tutto a uno scontro primitivo fra opposte fazioni. Ovverosia fra clan. O fra tribù. 
Trattandosi di una rissa, sia pure verbale, ci si sottrae a qualunque regola. Una palese mistificazione, che è l’equivalente di una seggiolata a tradimento, vale tanto quanto un’analisi rigorosa; e magari anche di più, agli occhi dello spettatore-tifoso che vuole vincere a ogni costo e che, nei colpi bassi, ravvisa non già un’offesa alla propria dignità ma una beffa ai danni dell’avversario. Ed ecco il festival delle menzogne. O degli strafalcioni. Sarà vero che nella concussione del Rubygate il “giudice naturale” di Berlusconi è il tribunale dei ministri? Nemmeno per idea: e basta documentarsi un minimo per capirlo. Ma chi se ne frega. Da Cicchitto in giù gli aficionados del premier lo ripetono senza sosta. E la massima parte dei loro elettori se ne rallegrano. Perché è, perché sembra, una buona risposta. 
Sarà vero, sul versante opposto, che al netto di Berlusconi la nostra società e la nostra politica erano e sono fondamentalmente sane, anziché un groviglio di nefandezze e un ricettacolo di cialtroni? Assolutamente no: e in questo caso non c’è nemmeno bisogno di documentarsi nello specifico. Basta aver seguito, almeno un po’, ciò che è accaduto, e che continua ad accadere, dentro e fuori i partiti “di opposizione”. Mezze figure spacciate per leader. Opportunismi di ogni sorta. Decisioni a dir poco contraddittorie, dalla mancata realizzazione della legge sul conflitto di interessi in poi.
Ma non importa. Questi furbissimi “avvocati difensori” continuano a promettere, esplicitamente e implicitamente, di poter abbindolare qualsiasi Corte e qualsiasi giuria. E siccome ci sono riusciti davvero, in tante altre occasioni, perché mai non si dovrebbe continuare a dar loro credito? Solo perché sono degli azzeccagarbugli? Solo perché sono palesemente in malafede? Solo perché sono sempre pronti a far sparire le prove e a subornare i testimoni? 
Che inutili distinguo. Che antiquato moralismo. 
Federico Zamboni 

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