martedì 8 febbraio 2011

Germania "no good"


Il Wall Street Journal analizza il rapporto tra il potente sistema tedesco, la cui forza economica tende a trasformarsi in leadership politica, e il resto dei Paesi Ue. La conclusione, tra le righe, emerge chiarissima: agli affaristi yankee non piace un’Europa crucca 
di Davide Stasi 
Faceva notare ieri il Wall Street Journal, non senza qualche ragione, che uno dei moventi sottesi alla creazione dell’Europa Unita, o quanto meno del mercato unico europeo, era il contenimento della Germania, che dopo la riunificazione mostrava le potenzialità per un’egemonia economica e politica sul continente. L’auspicio dei paesi europei, e sicuramente anche degli Stati Uniti, era quello di “europeizzare” la Germania, evitando che avvenisse il contrario, ossia che si “germanizzasse” l’Europa. Tutto questo è rimasto in qualche modo valido fino all’avvento della crisi.
Sbarcata nell’Unione a partire dalle periferie, Grecia, Irlanda e Portogallo, lentamente si sta avvicinando al cuore del continente, attraverso la Spagna, l’Italia e il Belgio, quest’ultimo per altro sempre più ingovernato e ingovernabile. Tutti candidati di prima fila allo sfacelo prossimo venturo. In questo contesto, il vecchio continente sarà costretto sempre più, per sopravvivere, a «ballare la musica suonata dalla Germania», secondo l’espressione un po’ beffarda dello stesso Wall Street Journal. Il quale fa notare come questa probabile germanizzazione non avverrà senza attriti.
L’esempio è di immediata attualità. Nell’ultimo vertice europeo la Merkel si è presentata da sola, col solo gendarme Sarkozy al fianco, per dettare agli altri paesi i termini della resa incondizionata (altra definizione del WSJ) in cambio dell’aiuto tedesco. Quelli che d’ora in avanti ne avranno bisogno, dovranno conformarsi al modello germanico per pensioni, salari, leggi sul lavoro, tassazione e controllo del debito pubblico. Il tutto puntando a un sistema fiscale integrato tra tutti i paesi europei e a controlli sulle banche tali da non permettere più infiltrazioni tossiche, come in Spagna, o sogni ad occhi aperti, come in Irlanda.
Molti paesi si sono già messi a vento. La Spagna, attualmente la corteggiatrice numero uno della locomotiva tedesca, ha digerito, con la benedizione dei sindacati, un aumento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni, e le banche in crisi hanno già accettato fusioni che renderebbero meno oneroso l’intervento di salvataggio dall’esterno. L’Irlanda ha già programmato un raddoppio del taglio del deficit, a spese ovviamente dei cittadini. In Portogallo le banche più asfittiche stanno rinunciando ai dividendi per riuscire a raccogliere del capitale, e anche lì l’età pensionabile è stata aumentata.
La Merkel, secondo il giornale di Wall Street, gongola nel vedere questo zelo, e chiede di più, nascondendo il processo di germanizzazione sotto la definizione di “piano per la competitività”. Eppure molti stati tentennano e fanno resistenza. All’ultimo vertice europeo, almeno venti paesi hanno avanzato obiezioni all’aut-aut tedesco, e per questo la Merkel si è guardata bene dal sottoscrivere un aumento del fondo europeo per i salvataggi nell’eurozona. A cui la Germania sarebbe chiamata a contribuire più degli altri.
Effettivamente il Wall Street Journal non sbaglia l’analisi. Dopo gli interventi in Grecia e Irlanda, con il Portogallo nel limbo, e Spagna, Italia e Belgio sull’orlo del dirupo, la Germania si è resa conto di non potere e non volere essere il babbo di cui si attende la dipartita per raggranellare qualche soldo. Specie se si ha a che fare con stati e governi tutt’altro che virtuosi e lungimiranti nelle strategie di politica economica, al contrario proprio dei tedeschi. È del tutto comprensibile, insomma, che la Germania non abbia la minima intenzione di finanziare a fondo perduto processi di sviluppo di cartapesta, come in Spagna o in Irlanda, o satrapie inqualificabili come l’Italia.
Ciò che colpisce di più, però, è il tono con cui il Wall Street Journal, portavoce della grande finanza mondiale, racconta il tutto. Il tono oscilla tra il sarcasmo e la demonizzazione. Gli USA oggi sanno di non avere margini per poter stringere con la Germania legami strategici strutturali, come nel dopoguerra. Al massimo qualche alleanza tattica transitoria. Per il resto, Berlino sta diventando sempre più pericolosamente un competitore di Washington. Dai toni della descrizione la preoccupazione emerge chiaramente: la Merkel ne esce come un cerbero insensibile e tirannico. Ma d’altra parte vanno capiti. Una germanizzazione dell’Europa a loro non starebbe troppo bene. Sarebbe un peccato: ci hanno messo così tanto impegno ad americanizzarla, facendone una colonia (a)culturale e una riserva per il consumo dei loro prodotti spazzatura…
Davide Stasi

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