mercoledì 9 febbraio 2011

Sveglia, nomadi. E fate la vostra parte

da "La Voce del Ribelle":
L’inganno comincia dal nome. Quasi sempre i cosiddetti “nomadi” sono stanziali, anche se si ostinano a vivere nelle roulotte. Pertanto, dovrebbero avere i diritti e i doveri di chiunque altro

di Alessio Mannino

La morte orribile dei quattro fratellini arsi vivi nel fatiscente campo rom di Roma è solo l’ultimo di una serie di incendi, violenze e sgomberi che negli ultimi due anni hanno fatto parlare di sé, loro malgrado o no, le minoranze etniche dei “nomadi”. In Italia il loro numero si aggirerebbe fra i 120 e i 140 mila, di cui il 75% di cittadini italiani. Vivono ammassati in roulottes di regola non rifornite di acqua e luce, in un arcipelago di circa 200 campi, veri e propri ghetti, in buona parte abusivi (dati: Opera Nomadi). Il ricordo del romantico e affascinante passato gitano è, appunto, solo un ricordo. 
Non sono più nomadi, infatti, ma stanziali. Le roulottes in cui vivono rimandano al nomadismo solo perché hanno le ruote, ma in realtà sono dimore fisse a tutti gli effetti. Perciò, essendo fermi lì come stessero in vere e proprie case, non sono diversi da tutti gli altri cittadini, o anche dagli immigrati, col problema dell’affitto. Quindi non si capisce perché debbano godere di uno status particolare per il quale costruire aree speciali solo per loro. È la logica dell’autoghettizzazione, ma coi soldi pubblici. Ora, nessuno pretende che disconoscano sé stessi e la propria storia. Anche perché - e la chiave sta tutta qui – i Rom e i Sinti vi hanno rinunciato per conto loro, abbandonando l’errabondo stile di vita che ci fa ricordare con simpatia i loro avi. Visto che si sono definitivamente accasati e mezzo italianizzati, siano conseguenti: si cerchino una casa come tutti. Se imparano ad essere nostri buoni vicini di casa gli albanesi o i marocchini, non si vede perché loro, che di zingaro non hanno più niente salvo il tenace roulottismo, non possano fare altrettanto.
Immagino l’obiezione: qui si sta parlando di persone, in genere con la cittadinanza di questo paese, che hanno uno stile di vita basato sul clan, che non mandano i figli a scuola e che spesso vivono di espedienti, se non di furti e microcriminalità. Però si pretende che le autorità garantiscano questo volontario apartheid facendosene garanti e foraggiandolo di ogni servizio. Eh no cari miei, troppo comodo. I Comuni pensino all’edilizia agevolata e li mettano in lista, senza fare discriminazioni fra poveri di serie A e di serie B (ché poi non facciamo finta di non vedere i macchinoni che fanno pensare a tutto fuorché all’indigenza). Per superare le iniziali difficoltà collaborino pure con le associazioni di volontariato allo scopo di dare aiuto legale e assistenza nell’inserirsi. Ma a patto che gli interessati intendano farlo sul serio. 
Dice: ma, per la loro cultura, trovano difficoltà insormontabili nell’inserirsi nel mondo del lavoro e nel tessuto urbano, con gli orari, i ritmi e i rapporti con colleghi e vicinato. Chi scrive è per il rispetto di tutte le diversità, anche le più estreme. Ma se un gruppo che vive stabilmente in un contesto sociale aspira a integrarsi – stando almeno a quanto raccontano gli operatori che frequentano i campi – non può usufruire solo dei diritti, deve anche assumersi la responsabilità di alcuni doveri. 
Per essere chiari fino in fondo. Poniamo che io voglia vivere in una comune hippie, e che perciò necessiti di uno spazio sufficientemente grande e separato per fondare la mia comunità di fricchettoni. Dovrei comprarmi un terreno, dopodiché sarei libero di invitarci dentro chi mi pare e realizzare la mia società alternativa. Non sarebbe anche questo un “modo di vivere” da rispettare? Eccome. Tuttavia non potrei avanzare nessun diritto particolare davanti all’amministrazione pubblica, se non di ottenere gli allacciamenti come per tutte le abitazioni private e di lasciarmi in pace. 
Questa è libertà nel rispetto dell’uguaglianza dei diritti. I nomadi invece non sono più nomadi ma vogliono essere trattati come tali e vivere alle loro condizioni ma con l’aiuto del pubblico. Vorrebbero essere uguali nei diritti ma diversi nei doveri. E coccolati per questo. Questa non è libertà, ma irresponsabilità, che per soprammercato ha come effetto quello di perpetuare una segregazione ipocrita e squallida. E non è nemmeno uguaglianza, perché un altro bisognoso che però non è di etnia rom o sinti diventa automaticamente meno uguale, perché lui magari non vive in un campo-lager, è solo o ha solo una famiglia, la sua, da mantenere. Non ha avvocati difensori che per lui invochino il segregazionismo mirato e ammantato di buonismo. È solo un poveraccio qualunque. 

Alessio Mannino


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