giovedì 17 marzo 2011

E se vince Gheddafi?

Le truppe del Colonnello avanzano verso Bengasi e la vittoria dei ribelli appare sempre più incerta: mettendo i governi occidentali di fronte alla scomodissima alternativa tra un intervento militare a favore degli insorti e un’imbarazzante marcia indietro nei confronti del Raìs
di Sara Santolini

L’esercito di Muammar Gheddafi avanza verso Bengasi. Davanti al colonnello che recupera terreno sui ribelli, la diplomazia internazionale stenta a trovare un'intesa sulla gestione della crisi. D’altra parte, ognuno ha i suoi interessi e nessuno è disposto a sacrificarli in nome di una rivoluzione che, oltretutto, non gli appartiene. 
I ministri degli Esteri del G8 hanno elaborato un piano di reazione che prevede una serie di sanzioni economiche e l’istituzione di una No fly zone. Ma le sanzioni, qualora venissero applicate, non avrebbero nessuna influenza nei confronti dell’esercito del colonnello, soprattutto non in tempi stretti. Inoltre la riunione ha il gusto della farsa: nella dichiarazione finale i delegati degli Stati più industrializzati del mondo, e per questo più potenti anche a livello politico, rimandano ogni decisione finale al Consiglio di sicurezza dell'Onu, votandosi in pratica all’immobilismo. 
Le crescenti probabilità che la fine di Gheddafi sia lontana da venire impongono alla diplomazia un salto mortale per recuperare, se non una certa neutralità, almeno una posizione meno dura nei confronti del Colonnello che ridurrà gli ultimatum nei suoi confronti, al solito, a dei semplici “severi avvertimenti”. L’Italia, tra i Paesi con i maggiori interessi economici in Libia, dopo aver temporeggiato prima di allinearsi con l’Europa contro i metodi del Raìs ora si affretta a verificare che i propri rapporti col governo libico non siano compromessi. Scaroni, l’amministratore delegato Eni, ha sottolineato che la società italiana, al momento costretta a interrompere l’estrazione del greggio in quelle zone, ha rapporti diretti con la National company libica per lo sfruttamento del combustibile fossile, e non direttamente con il governo libico che, qualunque sia in futuro, in ogni caso «avrà una natural company con dei contratti e dei rapporti con noi, quindi non vedo ragioni perché i rapporti debbano essere compromessi». Questo dovrebbe mettere gli interessi di Eni al riparo da qualsiasi problema diplomatico tra Italia e Libia. 
In ogni caso si tratta della questione che ci sta più a cuore. Per questo abbiamo tergiversato davanti a un governo capace di sparare sul suo popolo in rivolta, creando un pericoloso precedente. Noi, ma non solo noi. La missione europea di ritorno da Bengasi, che considera il Consiglio libico di transizione un valido interlocutore, si è risolta in una grottesca parata. L’Ue non ha preso nessuna decisione e gli insorti hanno perso la speranza in un intervento esterno. Non che questa sia una strada obbligata e comunque percorribile. Ma ci vorrebbe un minimo di coerenza per potersi continuare a presentare a livello internazionale con la necessaria credibilità. Invece che con la faccia tosta di chi si spaccia per una grande potenza senza avere né una politica precisa né una dignità morale.
«Credo che sia una vergogna la posizione da codardi assunta dal mondo occidentale». Questo è quello che pensa Ali Tarhouni, un esponente degli insorti. In particolare se la prende con gli Stati Uniti, accusati di ergersi a difensori degli oppressi solo a parole: nel 2009 Obama pronunciò al Cairo un discorso nel quale «fece un appello per la democrazia e la libertà» che però non sembra trovare alcuna applicazione nel caso libico. «Ora», ha continuato Ali Tarhouni, «il minimo che possa fare è appoggiare la no-fly zone. Il sangue del popolo libico non è a poco prezzo, a noi costa caro versarlo». Ma non è questa un’argomentazione che possa toccare le corde statunitensi. Poi ha aggiunto: «Come tutta la popolazione libica, sono molto deluso da Obama. Gheddafi presto o tardi dovrà andar via e il popolo si ricorderà di chi si è dimostrato amico ed è stato dalla sua parte nelle ore del bisogno». 
Quest’ultima, forse, è l’unica carta che rimane agli insorti per convincere gli Usa a fare, ufficialmente e concretamente, qualcosa in loro favore. In altre zone calde del pianeta la Casa Bianca è intervenuta perché aveva ben altri interessi che “l’esportazione della democrazia” – peraltro imposta con mezzi militari e quindi tutt’altro che democratici – facendo  comunque vivere a quei Paesi una situazione che probabilmente i libici non hanno alcuna voglia di sperimentare. Sono solo questi i criteri che comprende questo Occidente: il ricatto, l’interesse economico, la strategia di alleanze basate solo sulla convenienza. Null’altro.
Nonostante tutto, il popolo libico non cede. «Credetemi», ha concluso Ali Tarhouni «non abbiamo paura di Gheddafi e delle sue forze. Sappiamo che cadrà, è questione di ore, giorni o forse mesi. Ma il problema è quante vite porterà via con sé». Allora, però, la vittoria sarà solo nostra.

Sara Santolini

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