lunedì 17 gennaio 2011

Marchionne è l’effetto. Non la causa


Con tutta la sua boria, l’Ad della Fiat rimane solo una pedina di un gioco diretto da altri. Ma potrebbe avere un pregio: mostrare il vero volto, brutale, della globalizzazione
di Alessio Mannino 

Cosa rappresenta in fondo il tecnocrate Sergio Marchionne? La brutale messa a nudo dell’essenza della modernità: l’industrialismo che rende l’uomo “una merce” (Marx), uno “schiavo salariato” (Nietzsche). 
C’è poco da scandalizzarsi e far le verginelle di fronte al diktat dell’amministratore delegato Fiat: non ha fatto altro, dopotutto, che imporre con ferrea consequenzialità la logica del mercato industriale. E questa logica si chiama globalizzazione: le imprese si muovono fra gli Stati senza avere più una patria, obbedendo esclusivamente alla convenienza aziendale in termini di minor costo del lavoro e maggiori aiuti pubblici. Ovvero delocalizzando la produzione là dove è possibile spremere più soldi ed erodere diritti acquisiti ai lavoratori (turni più pesanti, pause ridotte, stretta sulle malattie, scioperi di fatto vietati, sindacati padronali) e sfruttare la finzione democratica dei governi, alle prese con opinioni pubbliche agitate e insofferenti, facendosi finanziare gli investimenti con cui mantenere i posti di lavoro, pur se a condizioni ottocentesche (la multinazionale di Torino ha assunto la gestione dell’americana Chrysler con un prestito e la benedizione di Obama, e le unionsstatunitensi, proprietarie di maggioranza, hanno volentieri chinato il capo come le nostre Cisl e Uil, che però non possiedono il becco di un’azione Fiat). 
In altre parole, il marchionnismo si presenta a noi come l’ultimo stadio dello sviluppo dell’industria moderna. Dalle prime conquiste sociali a cavallo fra Otto e Novecento al welfare state costruito negli ultimi sessant’anni, il mondo capitalistico si era illuso di aver trovato un equilibrio soddisfacente fra esigenze del profitto e diritti del lavoro. Statuti dei lavoratori, contratti nazionali, sindacalizzazione, garanzie crescenti: il paradiso delle riforme sembrava aver vinto e non dover essere più messo in discussione. E invece, con una marcia iniziata trent’anni or sono negli Stati Uniti, paese apripista di ogni cambiamento, col neo-liberismo della Scuola di Chicago e il progressivo affermarsi delle multinazionali, l’illusione è andata via via tramontando. Fino ai nostri giorni, quando la globalizzazione, una sorta di dato naturale accettato da tutti, destra e sinistra, critici e integrati, ha fornito l’argomento forte, l’arma decisiva al ricatto aziendalista: o ci si adegua, o si perde tutto.
 La Fiom, con cui personalmente ci siamo sentiti in dovere di schierarci contro l’indegno referendum di Mirafiori, rappresenta l’ultimo baluardo contro la deriva ultra-industrialista ma anche la sacca di colpevole miopia della cosiddetta sinistra radicale: dov’erano i Landini quando cominciava l’opera di disgregazione con l’acquiescenza alle criminali politiche dell’Fmi e del Wto, all’euro grimaldello della finanza predona, al Trattato di Lisbona, all’ideologia mondialista (che i vetero-marxisti sognano ancora nella versione “buona”, e strafallita, dell’internazionalismo egualitario e universale, già rifiutato da Stalin e abbandonato da Mao)? 
Nell’Italia di oggi, che aggiunge sempre un po’ di cialtroneria nel calarsi le braghe al modello americano, si compie l’incubo che il vecchio Marcuse descriveva a proposito degli Stati Uniti fin dagli Anni Sessanta del secolo scorso nel suo “L’uomo a una dimensione”: «una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata». Come non pensare ai discorsi rassicuranti, minimizzatori, ragionevoli, appunto, ascoltati dai politici e dai sindacalisti marchionnisti in questi giorni: tutti buoni padri di famiglia che convincono i figli riottosi a prendere atto che non c’è altra via alla rassegnazione, se si vuole salvare il salvabile. Con la coscienza a posto perché si fa credere che sono gli stessi lavoratori a decidere la propria sorte attraverso un “democratico” voto di fabbrica - con il coltello puntato alla gola. Tutto ciò nel quadro di una società che procede imperterrita nel miraggio di un benessere generalizzato che sta mostrando giorno dopo giorno la sua miserevole evanescenza. 
Dopotutto, Marchionne ha un merito storico: aver strappato la maschera di democrazia sociale ad un sistema produttivo che torna alle origini e svela la sua vera natura dura, insensibile, alienante. Il collaborazionismo fra capitale e lavoro è crollato. Quelli che un tempo si chiamavano “padroni” ritornano ad essere tali, e questa volta senza un’opposizione di massa. E i lavoratori sentiranno nuovamente sulla loro pelle il peso della schiavitù. L’industrial-capitalismo dal volto umano è stato una parentesi della Storia. Ora si apre un’era di oppressione tanto più pesante quanto più dipinta come priva di alternative e truccata coi mezzucci referendari, in cui starà agli schiavi, ai sudditi, agli sfruttati il compito di non copiare gli errori del passato. Per esempio contrapponendo al neo-liberismo dispotico un neo-marxismo anacronistico e inservibile, e soprattutto reiventando una missione liberatrice adatta ai nostri tempi. 
Noi proviamo a tratteggiarne appena i contorni con la seguente formula, tutta da elaborare: no alla globalizzazione tout court (di capitali, merci, uomini e diritti); sì a un’organizzazione sociale fondata sulla cooperazione (cooperative di produttori, in cui capitalisti e lavoratori non si distinguano più se non per soglie di proprietà, comunque controllate e garantite dallo Stato). Se il marchionnismo porterà la frustrazione che bolle in pentola a nuovi approdi di questo tipo, sarà stato un’operazione-verità – perdonateci, amici operai – non solo prevedibile, ma utile. Un male necessario. 
Alessio Mannino

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